Il cinema di David Gordon Green è quello della profonda provincia americana, popolato da figure solitarie e apparentemente lontane da ogni ambizione. Possono essere bambini o uomini vissuti: quello che li accomuna è l'elegia degli ultimi, dei perdenti. Questi personaggi non sono mai soli, ma accompagnati da una moltitudine di comprimari, anch'essi solitari e anaffettivi che nascondono le proprie ossessioni sotto un'apparente normalità.
Il regista texano torna, ad un anno di distanza da "Joe", a presentare un nuovo film in concorso alla settantunesima Mostra del cinema di Venezia: "Manglehorn", titolo che contiene il cognome del protagonista, interpretato questa volta da una leggenda del cinema, Al Pacino.
Angelo Manglehorn è un anziano fabbro che conduce una vita tranquilla tra casa e bottega. Come unico affetto ha una gatta che accudisce con amorevolezza. Vive nel ricordo di un amore del passato, ormai sepolto da troppi anni, e ha come unico appuntamento settimanale l'incontro del venerdì con la cassiera della banca (Holly Hunter).
Fin da subito Green ci introduce nella vita di Manglehorn non più caratterizzata da granitiche certezze, ma oramai fatta di dubbi su quello che è stato il passato. Le abitudini quotidiane non sembrano che essere un guscio vuoto e il bilancio di una vita non porta ad un risultato soddisfacente. Sono però timidi spiragli, perché in principio Manglehorn (chiamato quasi sempre per cognome, come ad evidenziare la sua impersonalità) non è capace di gestire il difficile rapporto con il figlio che è diventato un uomo in carriera nella grande città, sembra più a suo agio con la nipotina come in un maldestro tentativo di recuperare quell'affetto paterno mai esercitato fino in fondo.
La metafora del fabbro in grado di aprire tutte le serrature, ma non quella del proprio cuore e dei propri affetti è fin troppo palese. A differenza dell'opera dell'anno scorso, quest'ultima sembra più ambiziosa nel tentativo di scavare nella psicologia del protagonista. Le frequenti dissolvenze incrociate con la sovrapposizione dei pensieri di Manglehorn sembrano alludere a questo scavo.
Il risultato è parzialmente riuscito, perché alla fine il raggiungimento della consapevolezza dell'anziano fabbro passa attraverso una serie di clichè già visti e piuttosto banali. L'interpretazione di Al Pacino è molto diligente e accurata nell'uso del Metodo, forse troppo ricercata nei gesti e in alcune pose, però capace di reggere un film fondamentalmente privo di trama.
L'abilità di Green è quella di contestualizzare le ambientazioni della provincia, anche in questo caso, come nelle caratterizzazione di alcuni comprimari (si veda l'amico fallito del figlio che è rimasto nel Paese) che vengono raccontati con particolare tenerezza. Un altro merito è la capacità di inserire scene madri, improvvise e senza un legame esplicito, come nel caso della scena musical in banca, davvero esilarante.
Al netto di pregi e difetti, rimane un'opera non perfetta che non offre appigli allo spettatore in quanto priva di una narrazione classica e lineare, ma piuttosto contorta e ipnotica. Quest'ultimo aspetto non garantirà forse una distribuzione e un successo commerciale, motivo in più per parlare di film come questo che non cercano per forza il favore dello spettatore.
01/09/2014