Intellettuale eclettico e lucido osservatore della società contemporanea. Ha saputo usare il mezzo cinematografico riuscendo a elevare la critica sociale e politica a cinema di poesia. Lo scandalo e la provocazione sono stati lo strumento perfetto per veicolare la rabbia contro l'establishment
1. L'intellettuale eclettico del Novecento italiano
Poeta, scrittore, polemista, drammaturgo, sceneggiatore e regista, Pier Paolo Pasolini è una figura atipica d'intellettuale nel panorama culturale italiano del secondo Novecento. Una vita vissuta sempre controcorrente e in opposizione alla società moralista piccolo borghese italiana del boom economico degli anni 50 e 60, all'interno di un periodo storico di forti contrapposizioni culturali, dove la presenza delle ideologie convive con scontri di classe e sociali e la Guerra Fredda tra il blocco delle nazioni comuniste e l'Occidente.
Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo del 1922. Il padre Carlo, ravennate, è un ufficiale di fanteria, mentre la madre Susanna Colussi è un'insegnante friulana che gli trasmetterà la passione per la cultura. Pasolini frequenta diverse scuole tra Sacile, Cremona e Reggio Emilia al seguito dei trasferimenti del padre. Alla fine degli anni 30 si stabilisce a Bologna, dove termina il liceo e si laurea alla Facoltà di Lettere. In questi anni ha una vita di un normale studente universitario: si dedica brillantemente agli studi, è capitano della squadra di calcio della Facoltà, partecipa ai raduni sportivi fascisti, scrive le sue prime poesie e progetta riviste letterarie. Sviluppa la passione per l'arte, grazie alle lezioni dello storico dell'arte Roberto Longhi, che influenza il suo gusto pittorico per il resto della vita. Alla caduta del Fascismo, dopo l'8 settembre del '43, sfolla con la famiglia a Casarsa in Friuli (mentre il padre è prigioniero di guerra in Kenya). A Casarsa prende corpo il Pasolini poeta e hanno inizio le prime scoperte della sua omosessualità vissuta con grande travaglio interiore. In questi anni matura anche la visione politica marxista che lo porta ad aderire al Partito Comunista Italiano (anche se sempre con spirito critico e polemico nei confronti della politica del partito). Il primo grande trauma che lo colpisce è la morte del fratello Guido (nato nel 1925), partigiano della Brigata Osoppo, trucidato insieme ai suoi compagni da altri partigiani friuliani filo-titoisti. In questo primo periodo a cavallo della fine della Seconda Guerra Mondiale, Pasolini inizia a scrivere poesie in lingua friulana (raccolte in "Poesie a Casarsa") e abbozza il suo primo romanzo ("Il sogno di una cosa" che sarà pubblicato nel '62), dove l'impegno civile e politico divengono maturi e vissuti con una passione partecipe che lo accompagnerà per tutta la vita. Parallelamente il rapporto simbiotico con la madre si contrappone al conflitto con il padre, rappresentante di tutto ciò che odia e che segna tutta la sua opera di artista. Il rapporto con il sesso è travagliato all'interno di una società borghese che comunque vede l'omosessualità moralmente deplorevole. Nell'inverno del '49 scoppia lo scandalo: è denunciato per atti osceni e corruzione di minori (il primo di una lunga serie di denunce e processi che costellano la vita di Pasolini, sia intentati alla sua persona sia alle opere letterarie e cinematografiche). Espulso dal PCI (di cui era segretario locale) e allontanato dall'insegnamento, con cui si guadagnava da vivere, è costretto a fuggire a Roma con la madre.
Gli inizi degli anni 50 sono di faticosa sopravvivenza. Poverissimo, si barcamena come può e per i primi anni trova un posto d'insegnante in una scuola privata di Fiumicino. Sono anche gli anni dove Pasolini diventa un poeta ("Le ceneri di Gramsci" del '57, insieme all'altra raccolta di "Poesia in forma di rosa" del '64, sono tra le opere poetiche più alte) e scrittore affermato ("Ragazzi di vita" del '55 e "Una vita violenta" del '59), un intellettuale di primo piano nella Roma del Dopoguerra. Vive in periferia e scopre e incontra molti personaggi e situazioni che trasporta prima nei romanzi e poi nelle sceneggiature e nei film, in un percorso dove l'autobiografismo è ben presente in modo trasversale con tutti i suoi conflitti personali e sociali. Fa la conoscenza di Sergio Citti che lo introduce nel dialetto romanesco e diventerà amico fraterno e collaboratore (insieme al fratello Franco, attore feticcio di molti suoi film). In quegli anni diventa amico di Alberto Moravia, con cui condividerà i molti viaggi nei paesi del Terzo Mondo, Giorgio Bassani, Enzo Siciliano, Elsa Morante, Attilio Bertolucci, Bernardo Bertolucci e tanti altri.
Mario Soldati lo chiama a collaborare alla sceneggiatura del film "La donna del fiume" (1954) e gli apre le porte al mondo del cinema: Pier Paolo Pasolini abbandona definitivamente l'insegnamento e si dedica al lavoro di sceneggiatore. Dopo Soldati, sarà la volta di Luis Trenker e Federico Fellini (che lo vuole come collaboratore ai dialoghi di "Le notti di Cabiria"). Ma è soprattutto con Mauro Bolognini che il rapporto è duraturo e lo porta a scrivere sceneggiature, anticipatrici delle sue prime opere filmiche, come "La notte brava" (1959) e "Una giornata balorda" (1960). Nel 1958 vince anche il Premio alla sceneggiatura originale al Festival di Cannes (con Pasquale Festa Campanile ed Enzo Curreli) per "Giovani mariti", sempre di Bolognini. Siamo giunti all'inizio degli anni 60 e Pier Paolo Pasolini ormai ha maturato la decisione di essere autore totale dell'opera cinematografica. Ha così inizio l'avventura poetica cinematografica pasoliniana.
2. Dal romanzo al cinema: la lingua della realtà
Pasolini decide che è arrivato il momento di mettersi dietro la macchina da presa e utilizzare una nuova lingua che possa esprimere la visione della realtà, poiché la lingua italiana scritta ormai la considera come un mezzo espressivo esausto e spuntato per narrare il mondo percepito. Accattone (1961), presentato alla Mostra di Venezia, provoca un'alzata di scudi da parte della cultura piccolo borghese dell'epoca, con violenti attacchi sui giornali, manifestazioni davanti alle sale cinematografiche da parte di gruppi di giovani neofascisti e che subisce - per la prima volta in Italia - il divieto alla visione ai minori di diciotto anni.
Il film segue le vicende di Vittorio Cataldi, detto Accattone, un pappone che sfrutta la giovane prostituta Maddalena, all'interno del sottoproletario urbano della periferia di Roma, in mezzo a baracche miserrime, strade che somigliano a sentieri, cavalcavia, prati e campagne desolate. Accattone vive le giornate insieme agli amici del bar: sfruttatori, ladruncoli, giovani mantenuti, che tirano a campare con l'unico scopo di sopravvivere. In quest'opera prima è affrontato uno dei temi principali del cinema pasoliniano. Il poeta di Casarsa, nella sua visione marxista del mondo, non tollerava la cultura borghese (da cui lui stesso proveniva) per la sua omologazione culturale, dove ogni dissenso e diversità sono repressi e rifiutati, sempre alla ricerca di una modernità che distrugge le radici culturali del passato. In contrasto con questa visione, Pasolini trova ancora un barlume di originalità culturale nel mondo contadino e, nel momento che si trasferisce a Roma, nel sottoproletariato urbano. L'utilizzo delle cadenze dialettali (soprattutto il romanesco, ma anche il napoletano) non fa altro che rafforzare questa visione.
Pasolini arriva a girare Accattone senza una precisa conoscenza del mezzo cinematografico: impara sul set, giorno per giorno, molto velocemente, con l'aiuto del direttore della fotografia Tonino Delli Colli (da adesso in poi stretto collaboratore nella maggior parte dei suoi film) e dei consigli pratici del giovane assistente Bernardo Bertolucci, che aveva frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia. Pasolini costruisce il film seguendo un'idea - che sviluppa con diverse varianti nelle opere future - di cinema antinaturalistico, irrazionale, poetico, nel senso di rappresentazione estetica della realtà attraverso la presa diretta del punto di vista dei personaggi. Come poi spiegherà nei suoi scritti teorici sul cinema raccolti nel volume "Empirismo eretico" (1), Pasolini utilizza gli sguardi dei personaggi come soggettive libere indirette, che in modo induttivo corrispondono alla visione di chi vive la realtà in quel momento - contadino, operaio, borghese che sia - e l'autore cinematografico utilizza, dal punto di vista stilistico, queste soggettive, senza rielaborarle, senza un discorso interiore.
Pasolini dunque predilige ricorrere a primi piani frontali che inquadrano lo sguardo e le facce dei personaggi. A iniziare da Franco Citti (nella parte del protagonista) li sceglie per la strada, persone che interpretano se stesse. Pasolini non ama servirsi di attori professionisti per due motivi: il primo, perché in qualche modo darebbero una loro visione personale del ruolo, che invece deve essere un'assoluta creazione della coscienza del regista; in secondo luogo, perché un contadino deve essere interpretato da un contadino, un ladro da un ladro e così via. L'inserimento di attori professionisti nei film futuri, in qualche modo, sono eccezioni e adattamenti a questa regola.
E quindi in Accattone, di un bianco e nero in una luce abbacinante e sporca, ai controcampi di un paesaggio della periferia urbana, ci sono sempre primi piani di uomini e donne, intensi, vivi, reali. Il regista impiega anche le carrellate a seguire - e la più bella è sicuramente quella di Accattone e della moglie con il figlio da quando esce dal posto di lavoro fino a casa - in una sorta di movimento-statico, cioè il movimento cinemico dei personaggi all'interno di un paesaggio sempre uguale a se stesso, in un gusto figurativo e pittorico che è tipico del suo cinema. L'uso della musica di Bach, musica alta e solenne, contrasta con la realtà rappresentata, riveste di alone sacrale la messa in scena del sottoproletariato urbano. Accattone cammina all'interno della borgata, ma il suo è un muoversi nello stesso spazio geografico, impossibilitato a uscirne, metafora dell'incapacità di lasciarsi alle spalle la sua condizione. Accattone è un uomo solo, affamato, dove l'amore per Stella - una ragazza conosciuta dopo che Maddalena è arrestata per prostituzione e falso - lo convince a trovare alternative per vivere insieme alla ragazza. Grazie al fratello, s'impiega come manovale da un fabbro, ma dura un giorno, per la fatica che non riesce a sopportare e la depressione che lo colpisce.
Il film ha un prefinale onirico di grande bellezza, dove Accattone sogna prima i corpi morti del gruppo di malviventi napoletani e poi il suo funerale. Gli amici non lo fanno partecipare e gli impediscono l'accesso al cimitero, ma lui alla fine s'intrufola e chiede che la fossa sia scavata un po' più in là dove c'è la luce. Si sveglia e decide di seguire il ladro Balilla nella scorribanda giornaliera al centro di Roma. Il senso di morte e solitudine, che avvolgono il personaggio, trova realizzazione nella sequenza finale: mentre rubano dei prosciutti, sono arrestati dalla polizia; Accattone riesce a fuggire per pochi metri, su una moto rubata, ma fuori quadro avviene un incidente stradale. Balilla corre e vede Accattone disteso sul selciato. Le ultime parole prima di morire sono: "Ah, mo sto bbene". E in una vita senza speranza di riscatto sociale, Accattone nella morte trova serenità: tema sviluppato in seguito, da punti di vista differenti, in Mamma Roma e La ricotta.
Accattone è apprezzato dal mondo intellettuale e da una parte della critica militante e Pasolini si rimette subito al lavoro con ritmi frenetici. Ha già scritto la sceneggiatura di Mamma Roma e sta scrivendo quella de La ricotta e ha in mente di girare anche un'Orestiade ambientata in Africa. Con Mamma Roma (1962) Pasolini ha raggiunto molto velocemente la maturità cinematografica e inizia a inanellare una serie di capolavori in questa prima parte del percorso artistico.
Mamma Roma vede l'incontro-scontro tra il regista bolognese e Anna Magnani, icona popolare della romanità, interprete di "Roma città aperta" di Roberto Rossellini e "Bellissima" di Luchino Visconti. Pasolini ammise, tempo dopo, l'errore nella scelta di un'attrice professionista come la Magnani (2) che non rispecchiava il personaggio pensato: la Magnani non è una popolana che ambisce a diventare una piccolo borghese, ma interpreta quella parte, andando così contro i desiderata di Pasolini. Il regista riesce comunque a imbrigliare la vitalità interpretativa dell'attrice, regalando allo spettatore dei primi piani d'intensità drammatica.
Pur ritrovando le stesse dinamiche, paesaggi e personaggi del primo film, la vicenda si distanzia sostanzialmente: mentre in Accattone abbiamo il punto di vista dello sfruttatore, in un ambiente chiuso e statico, in Mamma Roma, la prostituta Roma Garofolo vuole uscire dalla borgata per realizzare il sogno di una vita piccolo borghese per lei e per il figlio adolescente Ettore.
Di nuovo abbiamo tutta una serie di stilemi e temi tipici del cinema pasoliniano, sviluppati e messi in scena con un sentimento tragico che pervade ogni inquadratura dei volti e dei paesaggi.
Innanzi tutto, nelle prime sequenze, assistiamo al confronto tra il mondo contadino e sottoproletario, nelle periferie di nuova urbanizzazione, cementificate, con palazzi omologati. Una modernità senza passato e che stride con i ruderi della campagna circostante, di cui si è persa memoria, dove Ettore si aggira con gli amici, in una messa in scena tra arcaismo e modernità.
Poi abbiamo la ricerca di un riscatto sociale da parte di Mamma Roma: un lavoro onesto (il banco di verdura al mercato); un appartamento in un quartiere bene (le nuove residenze INA - case); la messa domenicale; la realizzazione del figlio. Un desiderio che anela all'accettazione sociale della classe dominante borghese. Ma tutto sarà inutile: sia il suo sfruttatore Carmine (ancora interpretato da Franco Citti, in un fil rouge che si collega idealmente con Accattone) che la costringe più volte a tornare sulla strada; sia l'impossibilità di una vita migliore per il figlio porteranno a un'ineluttabile tragedia, quando Ettore sa da Carmine che la madre si prostituisce.
Stilisticamente Pasolini continua nella scelta di volti presi dalla strada, di personaggi che provengono dalla realtà che vuole raccontare. Come Citti e gli altri attori utilizzati in Accattone, anche Ettore è un giovane cameriere scoperto per caso, una sera, da Pasolini in una trattoria romana.
Pur preferendo i primi piani frontali, Pasolini gira due piani sequenza molto lineari (caso unico nel suo cinema, giacché non li ama) e di diversa intensità drammaturgica con protagonista Anna Magnani: sono carrellate a precedere, con Mamma Roma che cammina lungo la statale, mentre si prostituisce, e una serie di personaggi della notte che interloquiscono con lei, in un monologo-multidialogante con gli spettatori, con lo sguardo fisso in macchina, e con gli altri personaggi all'interno della messa in scena. Ma se il primo piano sequenza è in una fase della fabula ilare, quando Mamma Roma saluta tutti, perché finalmente cambia vita, il secondo è una drammatica presa di coscienza dell'impossibilità al cambiamento, con il soliloquio sofferente e violento espresso in un elenco di una famiglia composta di spie, ruffiani, ladri e strozzini.
Invece, l'immaginario pittorico che arricchisce tutta la pellicola, si può riassumere in due tra le sequenze più rilevanti di Mamma Roma: l'incipit e il finale. Se la sequenza iniziale del pranzo nuziale di Carmine s'ispira a Paolo Veronese, il finale di Ettore sul letto di contenzione, dopo che è stato arrestato per un piccolo furto in ospedale, è una chiara citazione del "Cristo Morto" di Andrea Mantegna con la macchina da presa che, lentamente, scorre lungo il corpo di Ettore fino al volto, per tre volte prima che muoia, in un sacrificio finale simile a quello di Accattone. Questo gusto per la pittura manierista sarà portato alle estreme conseguenze visive ne La ricotta.
Infine, la musica utilizzata è quella di Vivaldi, più congruente con la messa in scena rispetto al Bach in Accattone, che valorizzava lo scontro straniante e rivoluzionario con le immagini filmiche.
Mamma Roma è il film con cui Pasolini si congeda dai personaggi e dai temi più legati ai suoi romanzi per approfondire i temi, introdotti in questi primi film, nei due capolavori successivi La ricotta e Il Vangelo secondo Matteo.
Ma prima abbiamo due esperimenti documentaristici che s'inseriscono in un discorso socio-politico.
La rabbia (1963) è uno strano film di montaggio composto di spezzoni di cinegiornali e documentazione iconografica. Doveva essere un essai di Pasolini, ma il produttore pensa di suscitare scandalo dimezzando il montato del poeta bolognese e commissionando a Giovannino Guareschi una seconda parte. L'idea è di contrapporre due ideologie: quella marxista di Pasolini e quella conservatrice di Guareschi, punti di vista differenti sui fatti più importanti avvenuti negli ultimi dieci anni. La parte di Pasolini si trascina in un poema per immagini, con un testo scritto dal poeta e con le voci narranti di Renato Guttuso e Giorgio Bassani, ma il risultato è decisamente sgraziato e ripetitivo. Nel pur lodevole lavoro filologico fatto su La Rabbia da Tatti Sanguineti (3), in un recupero storico di un'opera misteriosa, vista da pochi, e che scatenò polemiche sia a destra sia a sinistra dello schieramento politico, rimane un film minore e persino ripudiato dal suo autore (4).
Comizi d'amore (1964) è un tentativo d'inchiesta sociale, dove Pasolini affronta il tema della sessualità tra gli italiani. Il documentario ha una valenza generalista, lavorando per metonimie, oltretutto condotto con domande dello stesso Pasolini che molte volte contengono già dei giudizi di merito o le risposte. Pur restando un documento sull'aberrante visione del sesso per gli italiani negli anni 60, fatta di pregiudizi culturali e sessismo, il documentario fallisce sia sul versante contenutistico - per la mancanza di un progetto strutturato dal punto di vista sociologico - sia su quello formale, superato dalle tecniche televisive dell'epoca (Ugo Gregoretti aveva innovato l'inchiesta sociale nella televisione di quegli anni).
3. Tra senso del sacro e religiosità
Nelle pause delle riprese di Mamma Roma, Pasolini scrive la sceneggiatura del nuovo film la cui ispirazione narrativa è basata su un episodio accaduto sul set di Barabba, dove una comparsa ebbe un malore durante le riprese della crocefissione. Nel marzo 1962 stipula un contratto con i produttori Giuseppe Amato e Roberto Amoroso per partecipare a un film a episodi dal titolo La vita è bella. Il regista consegna la sceneggiatura, ma per il tema trattato e per controversie produttive il progetto rimane irrealizzato.
Interviene Alfredo Bini, produttore dei primi film di Pasolini, che rileva la sceneggiatura de La ricotta (1963) per inserirlo in un altro film a episodi, Ro.Go.Pa.G il cui titolo è l'acronimo formato dalle iniziali dei registi partecipanti all'operazione: Roberto Rossellini (Ro); Jean-Luc Godard (Go); Pier Paolo Pasolini (Pa); Ugo Gregoretti (G). Il mediometraggio di Pasolini risulta un corpo a parte all'interno del film, discostandosi per il tema trattato. E fin da subito la stampa di destra inizia una campagna denigratoria nei confronti dell'autore e del film, sostenendo che Amoroso aveva rotto i rapporti con Pasolini rifiutandosi di produrre un film ritenuto "immorale".
La ricotta ha una storia travagliatissima fin dall'ideazione che oscura gli altri episodi del film. La storia di un povero figurante, Stracci, che durante le riprese di un film sulla passione di Cristo muore in croce, è visto dall'establishment cattolico conservatore un pericolo da combattere con ogni mezzo. Tanto più che in quel contesto storico, Pasolini stava già pensando a un film dal Vangelo di Matteo con l'appoggio e l'aiuto di associazioni religiose che propugnavano un dialogo tra cattolici e comunisti. Pasolini, inoltre, era un personaggio pubblico nell'occhio del ciclone mediatico per la sua storia personale e per i processi subiti nel passato anche contro le opere letterarie. Dopo il visto della censura - che fece rimuovere un'inquadratura di un seno nudo - il film è ritirato quasi subito dagli schermi proprio perché La ricotta subisce un processo da parte della magistratura per vilipendio alla religione. Per la prima volta, in un'aula di tribunale, entra una moviola e l'opera di Pasolini è oggetto di analisi dettagliata, fotogramma per fotogramma, condotta dal pubblico ministero Giuseppe Di Gennaro, che porta alla condanna di Pasolini per direttissima a quattro mesi di reclusione.
Ma cos'è lo scandalo de La ricotta? Innanzi tutto la visione religiosa di Pasolini ribalta il credo iconico corrente, mettendo il povero cristo Stracci, un sottoproletario, allo stesso livello del Gesù cattolico. Il vilipendio alla religione di Stato si enuclea nell'utilizzo di musiche sacre di Scarlatti, nelle sequenze con Stracci, contrapposte alla musica "profana" di pezzi di twist, mentre sono messe in scena i quadri della passione e della deposizione del Cristo, con i vari personaggi che ridono, sghignazzano, cadono. Il confronto tra alto e basso diventa manifesto: da una parte, abbiamo delle vere e proprie repliche di quadri del Pontormo e di Rosso Fiorentino - girate a colori e con una riproduzione iconografica che rasenta la perfezione - rappresentanti la tradizione; dall'altra, il bianco e nero della realtà di Stracci, che, nel suo lavoro di figurante, subisce una vera e propria passione alla ricerca disperata del cibo. Il buon ladrone (interpretato dal muratore Mario Cipriani, già interprete del ladro Balilla in Accattone) diventa così simbolo dei diseredati, nullatenenti, la cui vita non interessa nessuno, e solo nel momento in cui muore sulla croce trova la salvezza (come già anticipata dalla morte in strada dello stesso Accattone). Oltretutto, l'azione viene rafforzata dal personaggio del regista (interpretato da Orson Welles, doppiato dallo scrittore Giorgio Bassani) che nella battuta finale dice: "Crepare, non aveva altro modo per ricordare che lui era vivo".
Tutta La ricotta è pervasa di questo senso di sacralità che ormai risiede solo più nei reietti. L'opera è anche un attacco frontale alla borghesia italiana che Pasolini disprezza per la miopia e grettezza culturale e il regista del film nel film, interpretato da Orson Welles, non è nient'altro che la proiezione dello stesso Pasolini all'interno della messa in scena. L'incontro con il giornalista di una rivista, che intervista il regista sul set, è un momento topico del film. Viene messa in scena la pochezza culturale dell'uomo medio italiano che spinge il regista a dire che la borghesia italiana "è la più ignorante d'Europa". Il contrasto tra il giornalista e il regista è anche una contrapposizione linguistica tra la poesia e una lingua scritta piatta, omologata, vuota. Ormai, così come il ricordo del passato è perduto, anche la capacità di capire una lingua poetica da parte dell'uomo comune è andata persa.
Alfredo Bini dopo la sentenza ricorre ai ripari e compie dei tagli e dei cambiamenti del sonoro in tutte le inquadrature incriminate per salvare il film (tra cui anche la più contestata, dove s'intuisce che Stracci sulla croce ha un'eiaculazione davanti allo spogliarello fatto dall'attrice che interpreta la Maddalena) e dopo vari tentativi riesce a ottenere un nuovo visto censorio cambiando il titolo alla pellicola da Ro.Go.Pa.G a Laviamoci il cervello.
A distanza di cinquant'anni La ricotta rimane un'opera complessa e stratificata, dove il connubio tra pittura, poesia, filosofia e immagine in movimento, all'interno di una mise en abyme della messa in scena di film nel film, ne fanno una confessione d'autore d'impatto emotivo e poetico pressoché intatto, realizzando un vero e proprio capolavoro del cinema moderno.
Passando dalla demistificazione del concetto di religione borghese, Pasolini approfondisce la visione della religiosità primeva riscoprendo la figura del Cristo attraverso il Vangelo. L'idea di trasporre quello di Matteo era coeva a La ricotta, ma le traversie giudiziarie rendono necessaria una laboriosa raccolta di finanziamenti sufficienti da parte del fedele produttore Alfredo Bini. Il film si concreta grazie ai buoni rapporti che il regista ha con varie personalità religiose della Pro Civitate Christiana di Assisi e della sinistra cattolica e per la presenza al soglio pontificio di Giovanni XXIII (cui il film è dedicato).
Proprio su indicazione di Bini, Pasolini si reca in Israele, accompagnato da don Andrea Carraro della Pro Civitate e da un operatore, e per due settimane del mese di giugno del 1963, ripercorre i luoghi della storia evangelica. Nasce così Sopralluoghi in Palestina (1964), una sorta di diario di lavorazione dell'autore, rappresentazione e confronto intimo dell'ispirazione di un poeta. Dal viaggio Pasolini si convince che ormai la Palestina arcaica non esiste più, corrotta dalla modernità del progresso presente nei luoghi visitati. Bini chiede a Pasolini di montare le riprese con l'idea di farne un documentario e l'autore improvviserà un commento in voice over alle immagini, oltre ai vari dialoghi in presa diretta tra lui e don Andrea e diversi uomini e donne incontrate nel viaggio. Il nuovo film-saggio però non uscirà mai nelle sale cinematografiche, restando un documento interessante per la capacità del regista di cogliere lo spirito più genuino e profondo dei volti di uomini, donne e bambini e la bellezza senza tempo di luoghi e paesaggi.
Pasolini gira Il Vangelo secondo Matteo (1964) nell'Italia meridionale, che per analogia diventa la Palestina e la Galilea di duemila anni prima. Il cast è composto di amici e familiari (sua madre Susanna interpreta la Madonna anziana; e gli scrittori e poeti Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg, Enzo Siciliano, Alfonso Gatto diversi personaggi secondari) e da attori non professionisti, scelti tra la popolazione dei luoghi delle riprese fatte in Basilicata, Puglia, Calabria e Lazio. L'utilizzo di volti che rappresentano la realtà, espressivi di per sé senza necessità della parola, ma solo grazie alla potenza dell'immagine - che, nel momento della loro messa in quadro, diventa poetica come la composizione di un verso all'interno di un poema (per immagini) - è potenziata fin dall'incipit: primi piani tra la Madonna giovane e Giuseppe - in campi e controcampi secchi - dove si scopre la maternità di Maria. Primi piani e campi lunghi sono caratteristiche del cinema di Pasolini, dove l'allargamento della messa in quadro permette la collocazione del personaggio all'interno del paesaggio, quinta naturale, rafforza l'idea di agire dell'uomo all'interno di un mondo reale (ma non naturalistico).
Gesù adulto (interpretato da Enrique Irazoqui, giovane studente catalano) appare, dopo 25', nella scena del suo battesimo da parte di Giovanni Battista che lo riconosce come il Messia. Il volto del giovane catalano, scavato e lungo, ricorda quelli dell'iconografia pittorica di El Greco. Oltre alla consueta ricerca pittorica, Pasolini compie anche un'azione di citazione cinematografica: molti volti - soprattutto quello di Maria anziana di fronte alla crocefissione del figlio - sono debitori a Carl Theodor Dreyer e alla sua Passione di Giovanna d'Arco (che con Charlie Chaplin e a Kenji Mizoguchi, è uno dei maestri che hanno influenzato lo stile cinematografico di Pasolini). La contrapposizione con i campi lunghi, che tolgono qualsiasi ieraticità alla narrazione evangelica, in una messa in scena di una sacralità originaria, dove il silenzio diventa materico, crea una diegesi ellittica resa coeva dall'utilizzo di una colonna sonora che mischia la musica solenne di Bach e Mozart con i canti popolari russi, gli spiritual americani e la messa cantata congolese, in una ricerca di fusione tra l'immagine e l'intervento extradiegetico della banda sonora.
Il Vangelo secondo Matteo diviene così un'operazione di recupero del sacro della figura di Cristo scevra da ogni sovrastruttura di una Chiesa millenaristica, recuperando la parola evangelica originaria e rendendola contemporanea. Del resto l'operazione di Pasolini non fa che rafforzare la parola di un Gesù soprattutto uomo che porta messaggi rivoluzionari per il popolo e la cui morte sulla croce rende viva la sua parabola, lasciando in secondo piano la sua divinità costruita dalla Chiesa temporale.
La bellezza del film e il potere del suo messaggio fa del Vangelo secondo Matteo un successo di pubblico internazionale. Presentato alla Mostra di Venezia del 1964, vince il Leone d'Argento e soprattutto il premio O.C.I.C. (Office Chatolique International du Cinéma), dividendo ancora una volta gli opposti schieramenti politici in modo trasversale. Da una parte, il movimento cattolico di sinistra scorge nell'opera di Pasolini l'attualizzazione del messaggio cristiano, dall'altra parte la solidarietà di alcuni intellettuali marxisti che riconoscono la storicità della sottomissione millenaria delle classi sociali - metaforicamente rappresentati nella Palestina oppressa da una classe dirigente ottusa, sospettosa e collaborazionista con il potere dell'Impero Romano - di un sud dell'Italia povero ed economicamente depresso, affrontando un discorso storico di stampo marxista in continuità con le tesi de La Ricotta. In contrapposizione a questa fazione abbiamo ancora una volta l'attacco della Chiesa temporale conservatrice e dei neofascisti, che vedono come un insulto la rappresentazione della figura di Gesù operata da un personaggio controverso e scandaloso come Pasolini, ma anche della maggioranza del mondo politico di sinistra, che non comprende l'empatia per la figura del Cristo come figlio di Dio, espressa da un Pasolini riconosciuto intellettuale laico e dichiaratamente marxista.
Se sulla scia del Vangelo di Matteo Pasolini pensava di scrivere una sceneggiatura sulla vita di San Paolo, ma la crisi politica in atto colpisce anche l'autore che vede allontanarsi sia il ricordo della Resistenza antifascista sia le peculiarità di un mondo contadino. Il continuo progredire di una cultura di massa, consumistica, piccolo borghese, appiattisce e ingloba qualsiasi confronto di senso, anche quello religioso. Pasolini vede sempre più recise le radici storiche e antropologiche di una società fatta di gente innocente e umile nella sua visione poetica del mondo che inesorabilmente è fagocitato dalla modernità.
Il film successivo Uccellacci e uccellini (1966) è un tentativo di raccontare questo passaggio ideologico in chiave ironica. Lo stesso autore lo definisce un film ideocomico, dove è presente la rappresentazione della morte delle ideologie. Utilizzando la maschera clownesca di Totò e il nuovo volto di uno scanzonato e irriverente Ninetto Davoli (scoperto sul set de La ricotta, impiegato per la prima volta ne Il Vangelo secondo Matteo, diventa un altro attore feticcio pasoliniano), l'autore bolognese segue il lento girovagare per la periferia romana di padre e figlio. In questa peregrinazione picaresca, le due maschere sono accompagnate da un corvo - metafora dell'ideologia incapace di comunicare con i soggetti destinatari della sua azione e simbolo dello stesso regista, cioè d'intellettuale marxista. La morte dell'ideologia - dei partiti marxisti - è rimarcata da una sequenza documentaristica del funerale di Palmiro Togliatti, segretario storico del Partito Comunista Italiano, che diventa cesura storica di una nuova fase in atto nella società italiana.
Uccellacci e Uccellini è un film di passaggio, dove il senso del sacro e di una religiosità semplice e corporea è rappresentata dal lungo inserto dell'episodio dei frati Ciccillo e Ninetto (interpretati sempre da Totò e Davoli) che, compagni di San Francesco, cercano di evangelizzare gli uccelli, portando la parola del Cristo tra i passerotti e i falchi. Senza riuscirci, per la verità, visto che alla fine anche se il messaggio di amore è recepito, un falco ucciderà e mangerà lo stesso un passero. Preludio del finale dove il corvo è cucinato e mangiato da Totò e Ninetto (di cognome Innocenti - nomen omen in questo caso): l'ideologia è digerita e assimilata nel corpo piccolo borghese, dissolvendone ogni carica rivoluzionaria.
Girato in un bianco e nero dalle tonalità sfumate, Pasolini omaggia apertamente il cinema di Chaplin (fin dalla maschera di Totò che ricorda il Chaplin di Tempi Moderni), ma anche Federico Fellini, nell'episodio dell'incontro con i saltimbanchi, e di Rossellini, nella sequenza dell'episodio francescano. Pur se le singole sequenze restano di una forza politica non indifferente - su tutti il quadro dei poveri mezzadri senza più nulla, costretti a mangiare i nidi di rondini - e l'utilizzo di Totò consegna una maschera di umanità metastorica alla visione della realtà, il film non è pienamente riuscito proprio per questa frammentazione, che ne indebolisce il messaggio, e per l'ibridazione tra il registro comico e politico, troppo sbilanciato verso il secondo, depotenziando i personaggi di Totò e Ninetto.
Il senso religioso trascende in un mondo mitologico, in un cinema che diventa sempre più opera elitaria, ma ne troviamo ancora una traccia, sui registri dei film fin qui analizzati, nei tre cortometraggi inseriti in altrettanti lavori collettivi (lungometraggi a episodi che sono di moda negli anni 60 come operazioni produttive, dove si cercava di attirare il pubblico con il minimo sforzo, mettendo insieme autori affermati).
Il progetto di Pasolini era di comporre un film a episodi utilizzando la maschera di Totò, progetto abortito per la morte dell'attore napoletano. Rimangono di quell'impianto La Terra vista dalla Luna (1966, nel film Le Steghe) e Che cosa sono le nuvole? (1967, nel film Capriccio all'italiana). Contraddistinguono i due cortometraggi per la prima volta l'uso del colore in senso surrealistico (nell'accezione poetica e artistica e non storica) con una fotografia dalle tonalità sature e la rappresentazione del sacro all'interno di registri fiabeschi con morale finale. Se il primo può considerarsi un'appendice di Uccellacci e uccellini, ritrovando in una stessa versione Totò e Ninetto alle prese con la ricerca di una moglie-madre, il secondo spicca per l'originalità della messa in scena di un Otello rappresentato in un teatro di burattini.
La Terra vista dalla Luna ha tutte le caratteristiche dei primi film di Pasolini (ormai, un po' consunte), dove Silvana Mangano interpreta la moglie-madre sordomuta di Totò e Ninetto, con un che di angelicato e miracoloso - fin dalla trasformazione della baracca in un luogo vivibile e della sua morte accidentale e resurrezione. La morale per i poveri cristi a chiusura dell'episodio è che uno sia vivo o morto è sempre lo stesso.
L'eccessivo registro fiabesco de La Terra vista dalla Luna, è rielaborato in modo originale in Che cosa sono le nuvole?, piccolo gioiello che fa da contrappunto a La ricotta: lì era la messa in scena di un film nel film, qui abbiamo una rappresentazione teatrale, dove i confini della quinta e del proscenio si annullano con i burattini che si animano e l'interazione diretta del pubblico nella vicenda di Otello messa in scena in teatro. Totò, nella parte di Iago, e Ninetto Davoli, in quella del Moro geloso, rappresentano ancora una volta l'incapacità di reagire - pur consapevoli - a una storia condotta e decisa da altri (in questo caso dal burattinaio demiurgo interpretato dall'amico poeta di Pasolini, Francesco Leonetti). Solo l'intervento finale del pubblico - metafora della rivolta popolare - stravolgerà la storia già scritta, uccidendo Iago e Otello e liberando Desdemona (Laura Betti, altra figura della famiglia culturale di Pasolini). I due burattini saranno gettati nel cassonetto dei rifiuti e un Domenico Modugno, mondezzaio-traghettatore, li porterà alla discarica dove per la prima volta - usciti dalla gabbia teatrale di una vita fatta di ruoli scritti - vedranno il cielo e le nuvole, in un'epifania della bellezza del creato che rappresenta bene la visione poetica pasoliniana di questa parte della sua opera cinematografica.
Ultimo esempio - in tutti i sensi - dei temi di questo cinema, lo abbiamo con La sequenza del fiore di carta (1968, nel film Amore e rabbia), dove Ninetto Davoli percorre via Nazionale a Roma e la voce di Dio lo chiama, restando ignorata, metafora dell'innocente ignoranza della Storia e del sacro - dove alla camminata del personaggio nelle strade caotiche della capitale sono sovraimpresse immagini documentari di eventi politici e sociali che ricordano l'operazione de La rabbia. Il cortometraggio rielabora la parabola del "fico innocente" del Vangelo di Matteo, che viene reso sterile dalla rabbia divina, proprio perché nessuno può più permettersi di restare inconsapevole di fronte ai mali del mondo. Il corto è un'opera secondaria nella cinematografia pasoliniana, un lavoro che non aggiunge nulla e resuscita temi ormai superati dallo stesso Pasolini in opere ben più mature e compiute dello stesso periodo, dove gli interessi del poeta sono ormai verso le terre lontane della mitologia classica.
4. Recupero degli archetipi e nostalgia mitologica
Con Edipo Re (1967) Pasolini si allontana sempre più da un cinema popolare e s'inoltra nella scelta conscia di un cinema elitario, in contrapposizione con la cultura di massa dilagante e imperante intorno a sé. Con Edipo compie due operazioni parallele e intrinseche: da un lato, il recupero di un mondo passato, mitologico, preborghese come lui stesso andava affermando; dall'altro, affrontare l'archetipo del complesso edipico, che in modo poetico tratta l'aspetto autobiografico dei suoi difficili rapporti con la figura paterna.
Edipo Re si può suddividere in quattro parti.
Il prologo di 11', ambientato nei primi anni del 900, dove assistiamo alla nascita di Edipo in una Tebe metaforica, sita in un'Italia dal paesaggio idilliaco, bucolico, dove inizia da subito il conflitto con il padre ufficiale di carriera che vede nel bambino un ostacolo al suo potere di possesso, compreso il rapporto con la moglie.
La prima parte, dopo uno scarto temporale, ci porta in un paesaggio arido e desertico, in un passato mitologico e metastorico. Vediamo il passaggio dalla culla all'abbandono di Edipo infante in mezzo al nulla e all'adozione da parte del re di Corinto. La fabula continua in modo lineare nei punti cruciali dello sviluppo del personaggio: il viaggio all'oracolo di Delfi, con la predizione delle sue future disgrazie, il suo girovagare nel deserto, l'incontro con il re di Tebe (suo vero padre) e il suo assassinio; l'arrivo a Tebe e la messa in fuga della Sfinge e il matrimonio con la regina (sua vera madre).
La seconda parte, più vicina alla tragedia di Sofocle, in cui Edipo scopre la verità del suo stato e del destino cui non è riuscito a sfuggire e per la disperazione, dopo il suicidio della moglie-madre, si acceca.
Infine l'epilogo, di nuovo nel presente, in un'Italia degli anni 60 del secolo scorso, in cui Edipo cieco suona il suo flauto malinconico e senza speranza in una società il cui mito è andato perduto.
Edipo Re racconta il conflitto tra modernità del presente e passato mitologico. Una memoria archetipitica duratura nel tempo che viene omologata in un presente superficiale e consumistico, incurante dei reali valori dell'esistenza umana. Ma Edipo è anche il più autobiografico dei film pasoliniani. Se ne Il Vangelo Secondo Matteo, c'è l'identificazione della figura materna con la madre di Gesù, qui è messa in scena ed elaborata freudianamente la figura del padre che diventa simbolo del conflitto tra passato e presente. Ed Edipo cieco è la metafora della cecità della civiltà occidentale contemporanea, rappresentata dal poeta che letteralmente non vuole più vedere la realtà che lo circonda, o meglio non riesce a reggerne lo sguardo reso impotente e caduco.
Edipo Re è tra i film più riusciti di Pasolini ed esempio anche dell'evoluzione dell'autore. Assistiamo a una ricerca del paesaggio rappresentante un luogo metastorico, ancora incontaminato dalla società consumistica, che il regista trova in Marocco. Pasolini si affida al lavoro di Danilo Donati per inventare costumi che ispirino una società arcaica e fuori dal tempo e alla fotografia di Giuseppe Ruzzolini per trovare colori omogenei e pastosi, con un uso della luce accecante, per rendere la messa in quadro stilisticamente omogenea con il messaggio esplicitato da una sceneggiatura rielaborata sulla tragedia sofoclea.
Questo suo nuovo percorso alla ricerca del mito per confrontarlo con la modernità, Pasolini lo rende ancora più esplicito in Medea (1969).
Ispirato liberamente all'opera di Euripide e al mito di Giasone, Pasolini sfrutta le differenti fonti per costruire un'opera che diventa un manifesto poetico del confronto-scontro tra mito e modernità, tra passato misterico e presente razionalistico, tra Terzo Mondo e civiltà occidentale. La figura di Medea, figlia del re della Colchide, diventa così il simbolo di una civiltà antica, agricola, legata a una religiosità panteistica, dove il rapporto tra sangue e fertilità è riconfermato anche tramite sacrifici umani, in una sorta di comunione tra l'umanità e la natura. Il suo innamoramento per Giasone, l'abbandono della Colchide, il ratto del vello d'oro e il seguire l'amato, mettono in scena il travaglio di una donna che comunque non riesce a integrarsi nella società occidentale.
Tutto il film si basa sul tema dell'integrazione del mito nella società moderna. Pasolini a questo punto ormai è disilluso su questa possibilità di sintesi tra due mondi: quello del passato irrazionalistico e quello del presente empirico. Nel confronto tra i due mondi il primo perisce e lo stesso Giasone, pur allevato dal centauro Chirone, crescendo, perde la memoria della sua infanzia mitologica. Lo stesso centauro è rappresentato sia nella sua parte mitologica sia come uomo, metafora della compresenza dei due mondi. Il tradimento di Giasone, che vuole sposare la figlia del re di Corinto, porta Medea alla sua sanguinaria vendetta: uccide con un sortilegio la promessa sposa di Giasone, assassina i suoi due figli e in un autodafé finale si suicida, avvolta nelle fiamme in un urlo barbarico, forma d'incomunicabilità tra i due mondi.
Pasolini dirige un'opera rarefatta, ricchissima di simbologie, con un continuo gioco di contrapposizioni: la solennità e violenza delle cerimonie della Colchide contro la vita ordinaria e colorata di Corinto; il paesaggio desertico e pieno di sentieri e caverne dove la circolarità e le linee sinuose della Colchide (trovate in Cappadocia) si contrappongono alle linee rette dei ricchi edifici di Corinto (riprese dal Campo dei Miracoli a Pisa); il pensiero e l'azione legata sempre a riti di antica sacralità di Medea si frantumano nel muro della razionale spensieratezza e superficialità di un Giasone in continuo movimento.
Il regista bolognese nuovamente - come aveva già fatto in Edipo Re e in altre pellicole - utilizza attori professionisti e volti presi dalla strada e nei villaggi. In questo caso Medea viene scritta fin dall'inizio pensando a Maria Callas che dona al personaggio quella profondità e antichità di sguardo in cui la parola diventa superflua, scelta per la sua storia personale di greca dalle origini contadine che diventa borghese e diva del bel canto amata in tutto il mondo. La storia personale della Callas rappresenta per Pasolini il personaggio di Medea, sradicata dal suo mondo barbarico e immersa nella civilizzata Corinto. Nel pessimismo pasoliniano di questo periodo, Medea è il simbolo del passato arcaico che è distrutto e distrugge, nell'impossibilità di una sintesi e assimilazione in un presente moderno.
Tra Edipo Re e Medea, la furia creativa di Pasolini non ha mai fine.
Oltre a girare uno dei suoi capolavori, Teorema (e a scrivere anche il romanzo omonimo), mette in scena Porcile, tratto da due sue tragedie, e il già citato corto La sequenza del fiore di carta. Ma soprattutto, legati ai temi trattati in questo capitolo, abbiamo due pellicole sperimentali: Appunti per un film sull'India (1968) e Appunti per un'Orestiade africana (1969).
I due film sono opere che in origine dovevano far parte di un progetto molto più ampio, "Appunti per un poema del Terzo Mondo", che l'autore aveva in mente di realizzare girando in Africa, India, nei Paesi Arabi, in America Latina e nei ghetti neri del Nord America, ma abbandonato quasi subito. Nella sua ricerca di una società che ancora non è intaccata dal consumismo di massa occidentale, Pasolini vede nelle popolazioni ai margini del sistema produttivo e nelle nascenti nazioni del Terzo Mondo una speranza di trovare delle possibilità di una nuova società; in un altrove apparentemente incontaminato.
Gli Appunti di Pasolini non sono né documentario né finzione, ma film ibridi che racchiudono entrambi i registri, sono film di ricognizione dei luoghi dove ambientare futuri film. Questo sistema di messa in scena fa dei due Appunti una trasposizione in immagini della tecnica della sceneggiatura. Per Pasolini la sceneggiatura è "una struttura dotata della volontà di divenire un'altra struttura" (5), cioè una tecnica autonoma ma con lo scopo di divenire altro, un'opera d'immagine in movimento. Traslando il concetto, anche gli Appunti sono film autonomi che nascono per divenire altro. Come le sceneggiature pasoliniane che vivono anche come opere a se stanti, così questi film-saggi sono autosufficienti in sé.
Lo stesso Pasolini, alla fine, si rende conto che Appunti per un'Orestiade africana, che aveva come scopo quello di creare un film tratto dalla trilogia Orestea di Eschilo, ambientata in Africa con tutti attori africani presi dalla gente del luogo, è già l'Orestiade che aveva in mente: monta sequenze di documentari originali con intere sequenze girate con una messa in scena curata nei minimi dettagli e un uso accorto della camera a mano.
Stessa operazione compiuta con Appunti su un film sull'India, dove mette in scena l'idea di una storia tratta dalla cultura popolare indiana, un maharaja che offre il proprio corpo a dei tigrotti affamati e la relativa diaspora della famiglia - moglie e tre figli - che a loro volta perdono tutto. Entrambe le opere raccontano il passaggio e la convivenza tra un mondo mitologico e una civiltà millenaria che si affaccia alla modernità.
Film elitari, prodotti per essere venduti alle televisioni, ebbero grandi difficoltà distributive e soprattutto l'Orestiade è rifiutata sia dalla televisione italiana sia da quella francese, dopo che entrambe avevano firmato contratti. Il Pasolini che dà "scandalo", è prima di tutto un personaggio scomodo, da trattare attentamente da parte dell'establishment del potere borghese e l'ostracismo nei suoi confronti si esplicita anche con improvvise retromarce su opere finanziate e realizzate.
Prima di passare a un'altra fase della sua opera che si estrinseca con la Trilogia della Vita, citiamo ancora il breve documentario Le mura di Sana'a (1971). In una sola domenica mattina, alla fine della trasferta nello Yemen, dove si erano girate alcune sequenze del Decameron, Pasolini crea un appello in forma d'immagini indirizzato all'UNESCO, sullo stesso stile dei Sopralluoghi in Palestina, per salvaguardare la capitale dello stato arabico, arrivata indenne fino ai giorni nostri. Anche grazie ad appelli di artisti come Pasolini, Sana'a viene in seguito dichiarata Patrimonio dell'Umanità. Ancora un gesto di coraggio da parte di un poeta che difende la memoria storica di una cultura millenaria contro l'avanzare inesorabile dell'industrializzazione di massa.
5. La Trilogia della Vita
Siamo al principiare degli anni 70 e Pasolini decide di dedicare una parte del suo lavoro a dare sostanza audiovisiva al lato giocondo e libertario della vita, il cui primo esito è Il Decameron (1971). L'idea iniziale è complessa e stratificata, doveva essere un film di almeno tre ore suddiviso in tre capitoli, ma nella versione definitiva le novelle prese in prestito dal poeta trecentesco sono nove e il corpus è diviso in due capitoli, scanditi da altrettanti episodi guida (Ser Ciappelletto e l'allievo di Giotto) e un epilogo (l'allievo di Giotto). Viene tagliato, invece, l'episodio di Alibech, inizialmente previsto. L'autore non si limita a trasporre in linguaggio cinematografico la licenziosità sboccata e beffarda di Boccaccio, ma la utilizza ai fini della propria poetica - Pasolini non è mai un pedante traduttore, ma ogni volta un infedele interprete. Seguendo, dunque, lo stesso modus operandi che l'ha condotto a umanizzare la figura di Cristo, sostituisce la più rarefatta Firenze con la scapigliata Napoli, così da rivoluzionare il parlato dei protagonisti (in dialetto napoletano) e renderli poveri e umanissimi cristi. A sostegno della coerenza del progetto, nella scelta delle novelle boccaccesche, Pasolini evita tutte quelle di ambientazione esotica e aristocratica, di modo che la risultante finale sia un universo coeso corroborato dalla atavica purezza e innocenza contadina. Il novelliere toscano ha affrescato un mondo gioioso e imprudente, immerso nel tempo della Storia; quello che il regista mette in scena, invece, è un Medioevo che non ha collocazione fenomenica se non come simbolo di un 'passato' gaudente tradito dal corso degli eventi.
La prima cornice è dedicata a Ser Ciappelletto (Franco Citti), un assassino e personaggio di dubbia moralità, il quale, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e che, invece, nella versione filmica viene rielaborato come uno dei tanti 'esclusi'. Sul piano estetico-formale è un episodio performante di composite suggestioni delle opere di Pieter Bruegel il Vecchio, che lo rendono un meritorio tableau vivant.
La seconda cornice, "l'allievo di Giotto", è un episodio quasi completamente reinventato e che ha come protagonista proprio Pasolini. Il personaggio interpretato deve affrescare la chiesa napoletana di Santa Chiara, ha di fronte a sé il muro bianco, e appena dietro, simmetrica, l'impalcatura. Si alternano i primi piani e la valenza simbolica della creazione dell'artista/autore, è già chiara e andrà a scandire l'incedere della pellicola. La sequenza della "visione" del Giudizio Universale ci regala un ennesimo tableau vivant che riprende il Giudizio giottiano della Cappella degli Scrovegni, se pur al centro anziché il Cristo veda la Madonna - sublime Silvana Mangano - con il bambino.
Nel 1971 Pasolini completa in nove settimane le riprese anche del secondo segmento della "Trilogia della vita", che, però, debutta soltanto un anno dopo al festival di Berlino, dove viene proiettata una versione della durata di due ore e venti minuti, e quindi più lunga di quasi mezz'ora rispetto a quella definitiva che ne conta centodieci. A dimostrazione di quanto la gestazione del film e in particolare del montaggio sia stata, in questo caso, particolarmente complessa.
I racconti di Canterbury (1972) nasce, quindi, come lavoro parallelo al Decameron, non solo perché si tratta della seconda declinazione della "Trilogia della vita", bensì per le svariate similitudini nella composizione dell'oggetto filmico dedotto, stavolta, dai Canterbury Tales. Di nuovo, il regista bolognese si avvale della lingua umida della classe popolare, seleziona attori non protagonisti ed elimina qualsiasi traccia moraleggiante propria di qualche racconto (nel Decameron epura la borghesia). Dal soggetto letterario che ispira I racconti di Canterbury vengono scelti otto dei ventiquattro racconti, inframezzati da brevi momenti in cui Pasolini interpreta Geoffrey Chaucer. Davanti l'occhio della cinepresa, il regista bolognese è di nuovo un artista impotente che vive lo scollamento tra sé e la realtà che lo circonda: in questo film il disinteresse dei pellegrini annoiati annichilisce i tentativi di narrazione di Chaucer e lo relega al suo scranno isolato; nel Decameron l'allievo di Giotto accarezza il bello ineffabile del creato e rimugina sulle possibilità di rinchiuderlo nell'arte.
L'ultimo segmento del trittico, Il fiore delle Mille e una Notte (1974), invece, richiede un procedimento di traduzione dell'ispirazione letteraria che si complica alquanto, riguardando un'opera totalizzante e stratificata come le Mille e una notte. La materia originaria ingloba influenze culturali disparate e autori (anonimi) diversissimi, emanazione di secoli di tradizione orale e scritta. Cosicché il lavoro che Pasolini si trova ad affrontare si discosta dai precedenti: abbandona la precisa divisione in capitoli, optando, considerata la vastità del corpus, per un gioco di racconti a incastro. E ancora, preserva il mood generale dell'opera, restandone più fedele; mentre ne I racconti di Canterbury (e prima ancora nel Decameron) la matrice letteraria viene reinterpretata in maniera strumentale al corollario poetico pasoliniano: "Devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore" - confessa il regista.
A interessare e accomunare tre scelte letterarie così lontane nel tempo è la possibilità espressiva della corporalità popolare che offrono. La scelta di un uso sfacciato e dionisiaco del sesso deriva dall'esigenza per il cineasta, invero, sempre più infelice, di quadrangolare ancora qualcosa di autentico. Non sarà dello stesso avviso, però, il comune senso del pudore che farà fioccare le denunce di oscenità per ognuna di queste opere, così orgogliosamente scabrose e traboccanti nudità impudiche.
La Trilogia della vita è dunque un viaggio ideale che ci conduce, dalla Napoli dei quartieri spagnoli alle mura di Sana'a nello Yemen, attraverso un'epopea di Amore e Morte. La ricerca spasmodica e affannosa dell'intellettuale di fermare il tempo e trattenerlo nel passato.
6. Il dolore e la morte
Il 1968, in un immaginario collettivo sospeso tra realtà e mito, è l'anno della speranza a portata di mano. Di contro, è l'anno in cui Pasolini rilascia un film disperato, Teorema (conosciuto già come dramma teatrale e libro). Il plot è semplice e scarno: si narra di come sia possibile corrompere l'ordinarietà di un gruppo famigliare dell'alta borghesia milanese, quando un giovanotto dall'aspetto aggraziato (Terrence Stamp), con la sua carica materica e subliminale, pulisce via la patina della finzione. Il "prima" e il "dopo" l'arrivo dell'Ospite e del consequenziale sconvolgimento emotivo nei protagonisti è sottolineato anche a livello stilistico; in principio è il bianco e nero, il silenzio, il cinema muto delle origini che serve ad articolare con l'audiovisivo l'artefatta plasticità della vita borghese, poi il colore, quando la missiva - "Arrivo domani" - condotta dal messaggero (Ninetto Davoli) giunge a destinazione. Ovvero, l'annunciazione che il 'mondo', in carne e spirito, sta per intromettersi a squarciare il velo di Maya.
Se è scarno il plot, il concetto di tempo e spazio è smussato fino a conservarne solo l'idea. L'autore è coerente con il suo lavoro: non vuole narrare nulla, se non narrare il Nulla, senza, però, interessarsi al sostrato eminentemente filosofico a differenza di - un nome a caso - Antonioni, perché quello di Pasolini è un cinema di vita, fatto di classi sociali e prima ancora di uomini, mai etereo e teoretico, è la prassi e il sangue della classe media coeva (e proletaria e sottoproletaria) che in Teorema diviene enunciazione di poesia. A proposito di spazio-tempo, l'autore non si limita a inquadrare la staticità dei protagonisti, 'fermi' nelle loro sicurezze, in un tempo immobile e uno spazio decontestualizzato (le sequenze di riprese del deserto che si succedono a immagini di una Milano irriconoscibile); bensì utilizza il personaggio dell'Ospite per abbattere le sovrastrutture sociali con la stessa facilità con cui può crollare un castello di carte: basta qualche cenno e, ad uno ad uno, i protagonisti, dalla "vergine educanda" alla "serva di razza bianca", sono attratti nell'unione sessuale con il giovane. Il ruolo del giovane di fascino etereo è alla stregua di quello di un'entità spirituale e/o poetica che introduce, in un quotidiano vacuo e soffocato dal convenzionalismo, la vivacità di un mondo emotivo autentico, che dà capacità di sentire, provare, desiderare ("Non sento nulla" dirà Monica Vitti altrove) e si suggella nell'amplesso, che più del significato carnale e provocatorio traduce una valenza simbolica, come unica forma di comunicazione possibile tra universi inconciliabili.
Un'altra missiva arriva; e stavolta preannuncia la partenza dell'Ospite. Sconvolto quel microsistema fatto di normalità costruita ad arte, nessun equilibrio può essere riordinato, e i protagonisti, a ognuno dei quali è affidato un breve monologo, non potranno che prendere contatto con l'inconsistenza delle loro anime. L'Ospite li avrà così condotti verso il loro destino: Lucia comincerà frequentare giovani uomini alla ricerca dell'amato perduto, Paolo diventerà un artista inquieto raggomitolato nella riflessione sul senso dell'arte, Odette, atterrita e inerme, finirà in clinica, la serva tornerà nel suo paese natìo ad attendere la morte, Paolo, il pater familias, lascerà la fabbrica agli operai, spogliandosi di tutto e attraversando nudo il deserto. Quel deserto lì ad attendere fin dalle prime sequenze.
La vertigine provata dall'intellettuale che assiste all'estinguersi del 'senso del sacro' di fronte al successo di una società nuova ed estranea - e che in Teorema viene declinata con lirica disillusione - ritorna l'anno successivo. Nel 1969, difatti, arriva alla Mostra del Cinema di Venezia il film Porcile (1969), senza, però, che a onorarlo ci sia il suo autore, allora in aperto contrasto con il Festival. Diviso in due episodi, l'uno, ambientato in un passato remoto e girato ai piedi dell'Etna, vede un giovane scoprirsi cannibale e finire sbranato dai cani; l'altro, non meno crudo, racconta di una famiglia tedesca contemporanea, i Klotz di Godensberg, in cui il figlio Klaus mostra strane tendenze zoofile che lo condurranno a diventare cibo per maiali.
Qui il riferimento, più o meno diretto, è George Grosz, artista berlinese dei primi del Novecento che con il suo lavoro eversivo, violento e pornografico ha raccontato la crisi esistenziale della Germania post-bellica e di cui il regista riprende la figurazione dell'uomo degradato a maiale che diventa strumentale alla messa in scena di una umanità (e un ceto sociale) fuori controllo, e che pur di perpetrare un modello iconico fittizio, regredisce a una forma di triviale alienazione, vittima sacrificale delle proprie paure e dei propri limiti.
Ma la summa della riflessione pasoliniana intorno alla condizione belluina dell'uomo e del suo dolore, risiede altrove. In uno dei suoi lavori più estremi e rabbiosi, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Un film che nei fatti, però, vedrà il buio della sala dopo la morte del regista, avvenuta ancor prima di poter vedere completato il montaggio. Cosicché quando "Salò" verrà proiettato in anteprima al Festival di Parigi, il 22 novembre del 1975, il regista sarà già morto da tre settimane, assassinato lungo l'idroscalo di Ostia.
La genesi di quest'opera, come prevedibile, è problematica per via dei reiterati sequestri e delle traversie giuridiche subite, tra cui un procedimento penale a carico del produttore Alberto Grimaldi, finito con l'assoluzione. Alla base del lavoro vi è la lettura de "Le 120 giornate di Sodoma" del marchese De Sade, la cui trasposizione cinematografica è un progetto lasciatogli dall'amico Sergio Citti. La narrazione è aggiornata agli anni tra il 1944 e il 1945, nell'Italia della Repubblica di Salò, perché ad interessare la riflessione del regista, da intellettuale pragmatico, è l'anarchia del potere, anziché la dilatazione dei confini della perversione, come da testo originario. Della struttura, invece, viene preservata la divisione in capitoli, che, in questo caso, riprendendo i gironi danteschi, sono quattro: Antinferno, Girone delle manie, Girone della merda, Girone del sangue. I protagonisti, sempre quattro, configurano le diverse forme di potere: il Duca (potere nobiliare), il Monsignore (potere religioso), il Presidente della Corte di Appello (potere giudiziario) e il Presidente Durcet (potere economico). Si ritrovano in una villa dove, insieme a quattro ex prostitute e a dei prigionieri, figli o partigiani stessi, porranno in essere qualsiasi opinabile perversione.
Il lavoro formale, stavolta, è dei più raffinati: alla sceneggiatura collaborano Sergio Citti e Pupi Avati, la scenografia e i costumi riproducono la ricercatezza liberty, la musica è lieve e straniante (espressione del lavoro di Ennio Morricone, possiamo ascoltare anche i Carmina Burana).
È lontano anni luce e rinnegato l'autore della trilogia della vita: qui il sesso ha un afflato distruttivo, privo della dimensione del ‘piacere' al contrario è ammantato di simbolismo politico. È un atto obbligatorio vivido di bruttura che riproduce la dinamica dei rapporti di forza, un espediente metaforico volto a estrinsecare la sottomissione del più debole al Potere (i prigionieri carponi e al guinzaglio, sodomizzati e torturati). L'impulso di morte freudiano che incontra la dialettica servo-padrone e lascia atterriti per l'aberrante depravazione cui si sottopongono gli attori - non sempre inclini ad abbandonarsi al realismo, a dire il vero - che paiono manichini in uno spazio statico (prevalgono i campi lunghi negli interni, a differenza della sequenza in esterna eseguita con la camera a mano).
E ancora è un'opera estrema che accumula senza remore l'eccesso e lo fa in ottemperanza alle intenzioni del regista bolognese, sempre più pessimista e ostile a quelle trasformazioni della società che stavano pervertendo i ragazzi di vita e che lo allontanano come un corpo estraneo.
7. Epilogo
Agli albori degli anni 70 la produzione artistica di Pasolini non conosce freni, e dopo la lavorazione di Salò, il regista ha in mente di dedicarsi a un nuovo progetto, Porno Teo Kolossal, la cui ideazione risale ben alla metà degli anni 60. Purtroppo, come sappiamo, il 2 Novembre del 1975, Pasolini muore; prima ancora di poter iniziare a girare. Porta a compimento soltanto il lavoro di scrittura (a quattro mani con l'amico Sergio Citti) e contatta, a mezzo di una ormai conosciuta lettera, colui il quale ha previsto nelle vesti di protagonista, Eduardo De Fillippo. L'idea da realizzare ha la magniloquenza dei film più ambiziosi e la malinconia di un ultimo disilluso saluto: mettere in scena l'utopico peregrinare di due personaggi, il Re Magio Epifanio e il suo servo Nunzio, che, seguendo la Cometa (l'Ideologia), cercano di arrivare al Messia. Un viaggio fallimentare che li condurrà attraverso tre non-luoghi, "Sodoma" (è la Roma degli anni 50, associata a uno stadio preindustriale della società), "Gomorra" (Milano degli anni 70, la città fulcro del neocapitalismo) e Numanzia (è la Parigi del futuro, avvinta nella nebulosa tecnocratica).
Il paradigma che l'autore vuole concretare, sopraggiunto l'acme del suo pessimismo, è quello del crollo nicciano di tutte le ideologie, laddove finanche l'ultimo baluardo fideistico decade a desolante chimera.
Con la morte di Pier Paolo Pasolini, il mondo dell'arte ha perduto per sempre una personalità geniale, un talento globale e un'anima appassionata. Da intellettuale ha vestito di verità le ipocrisie della società italiana attraverso la grevità dei suoi corsivi, da cineasta ha rifondato di iperrealismo il cinema politico. Il suo percorso cinematografico ha lambito l'alto e il basso, la sacralità della ricerca spirituale e il materialismo del corpo; e ha armonizzato l'estetismo delle borgate all'esigenza di performare l'arte figurativa. L'allegorismo grottesco dei suoi film, strumentale a veicolare un messaggio di disillusione verso il presente e a denunciare il tradimento dei valori del passato, è stata la corona di spine deposta sul capo alla borghesia. Ad oggi non smette di far sanguinare.
Note
(1) Cfr. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 1991, ppgg. 167-187.
(2) In Pasolini su Pasolini - Conversazioni con Jon Halliday, Ugo Guanda editore, 1992, pag. 57.
(3) Vedere il documentario "La rabbia I, La rabbia II, La rabbia III... L'Arabia" di Tatti Sanguineti contenuto negli extra del dvd "La rabbia" di Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi, RaroVideo, a cura di Tatti Sanguineti.
(4) Cit. Conversazioni con Jon Halliday, pag.70.
(5) Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 194.
Bibliografia
Alessandra Spadino, Pasolini e il cinema inconsumabile, Mimesis, 2012
Tomaso Subini, Pier Paolo Pasolini, La ricotta, Lindau, 2009
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, Lindau, 2001
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro - l'Unità, 1995
Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio tascabili, 1994
Pasolini su Pasolini - Conversazioni con Jon Halliday, Ugo Guanda editore, 1992
Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 1991
Pier Paolo Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, 1989
Rinaldo Rinaldi, Pier Paolo Pasolini, Mursia, 1982
I capitoli dall'1 al 4 sono a cura di Antonio Pettierre; i capitoli dal 5 al 7 sono a cura di Francesca D'Ettorre. I voti sono l'espressione mediata delle valutazione dei due redattori.
Accattone (1961) 8
Mamma Roma (1962) 9
La ricotta (episodio del film "Ro.Go.Pa.G." poi "Laviamoci il cervello", 1963) 10
La rabbia (prima parte, 1963) 5
Comizi d'amore (1964) 5
Sopralluoghi in Palestina (1964) 6
Il Vangelo secondo Matteo (1964) 9
Uccellacci e uccellini (1966) 7
La Terra vista dalla Luna (episodio del film "Le streghe", 1966) 6
Che cosa sono le nuvole? (episodio del film "Capriccio all'italiana", 1967) 7,5
Edipo re (1967) 8
Teorema (1968) 10
La sequenza del fiore di carta (episodio del film "Amore e rabbia", 1968) 5
Appunti per un film sull'India (1968) 6,5
Appunti per un' Orestiade africana (1969) 7,5
Porcile (1969) 7
Medea (1969) 8
Il Decameron (1971) 6,5
Le mura di Sana'a (1971) 6,5
I racconti di Canterbury (1972) 6
Il fiore delle Mille e una notte (1974) 6,5
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) 7,5