Inaspettato ma perfettamente in sintonia con il percorso cinematografico del suo autore, "Felice chi è diverso" di Gianni Amelio arriva nelle sale italiane a breve intervallo dalla prima internazionale tenutasi in occasione del suo passaggio, fuori concorso, alla 64esima edizione della Berlinale. Una scelta non casuale quello della platea berlinese, non solo per ciò che la capitale tedesca ha rappresentato in termini d'avanguardia, culturale e di pensiero, ma soprattutto per la volontà di ragionare sul tema dell'omosessualità prendendo le distanze dal sensazionalismo e dalla retorica che quasi sempre accompagna al dibattito casalingo. Un divario che Amelio traduce anche in termini cinematografici, attraverso la raccolta di testimonianze di un gruppo di figure eterogenee, ma unite dall'esperienza di una diversità vissuta nel medesimo contesto di ignoranza e non accettazione, ma soprattutto raccontata dalla prospettiva di chi ormai, avanti con gli anni, può voltarsi indietro senza il rischio di rimanere ferito dal ricordo dell'antico oltraggio. Così ad alternarsi davanti alla macchina da presa troviamo una serie di personalità che si fanno notare per attitudini opposte, ma ugualmente in grado di accostare il nodo cruciale delle rispettive esistenze alla lucidità di chi ha imparato a gestire le emozioni, comunque presenti in un tono generalmente pacato, e dolcemente malinconico. Conosciamo quindi l'istrionismo contaggioso di un grande dello spettacolo come Paolo Poli, disinvolto nella testimonianza dei suoi amori corsari, accostato alla schermaglia divertita di chi stenta a proferire la terminologia del proprio orientamento sessuale, con brandelli di Storia che non risparmiano neanche la politica degli anni 50 e 60, quella degli Andreotti ("bisessuale") e del ministro Sullo ("costretto a un matrimonio di faccciata), omologata, secondo le parole dell'ottuagenario Aldo Sebastiani, dalla presenza sia a destra che a sinistra di omossessuali chiamati a svolgere funzioni di primo piano nel governo del paese.
Classico nella forma, che si sviluppa su un impianto narrativo fatto di interviste "in diretta" alternate a materiali d'archivio, "Felice chi è diverso" non manca invece di quelle caratteristiche che gli permettono di figurare senza alcun problema a fianco dei lavori migliori del documentario italiano. A dirlo è soprattutto il fatto di rispecchiare quello spostamento verso la "biografia dell'esistenza" che ha segnato i lavori di registi come Alina Marazzi e Pietro Marcello, e che ha portato a mettere in primo piano l'incertezza ed il dubbio rispetto all'assolutismo assertivo del documentario preesistente. Amelio, da sempre autore di un cinema in cui l'elemento personale ed autobiografico non è mai a se stante, ma nasce da una riflessione sui fatti della Storia ("Colpire al cuore" "Lamerica" ) e dal confronto con la società contemporanea ("
Il primo uomo") si conferma anche in questo caso, facendo coincidere la stesura del suo film con la decisione di rendere pubblica la propria omosessualità. Ecco allora che le escursioni temporali in epoche di oscurantismo bigotto e militante-spezzoni di varietà televisivi che alludono ad una realtà conosciuta ma rimossa-, sommate ad un presente di accettazione personale - quello dei protagonisti, vittime mai astiose nei confronti del pregiudizio e della persecuzione- diventano uno strumento di comprensione che, lungi dal ritenere la questione ancora conclusa, offre allo spettatore uno spaccato di normalità che smentisce gli stereotipi pittoreschi e stravaganti usati per ghettizzare la diversità all'interno dell'aneddotto e del fraintendimento. Intenzionato a rappresentare l'omosessualità come possibile espressione della condizione umana, e non come il riflesso e la mediazione di un particolare momento storico, Amelio utilizza il reperto archeologico (stralci di giornale, fotografie private, cartoline ed estratti televisi) ripulendolo da riferimenti temporali, ed utilizzandolo per ricostruire un' antropologia dello sguardo capace di farci sentire il peso di quell'ingiustizia. Poi non contento, costruisce una dicotomia visuale che si serve di immagini di segno opposto per fornirci il suo punto di vista: così la sensazione rassicurante e protettiva offerta dagli intervistati, filmati in un ambiente casalingo, con una staticità posturale eccezionalmente interrotta dalla ripetitività di gesti senza importanza, lascia il posto alla precarietà della sequenza finale, in cui il primo piano dell'adolescente che confessa senza imbarazzo la propria diversità, è inframezzato dal campo lungo che lo ritrae intento a camminare senza una meta precisa. Ed è proprio alla poesia del disegno complessivo affidato all'indeterminatezza del paesaggio, minacciato da un possibile temporale, ed ai passi affaticati dalla pendenza della strada, che Amelio consegna il compito di var volare in alto i termini di un discorso distante dalla sua risoluzione.
09/03/2014