De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l'ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento[...] E se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di De Sica è l'Italia del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria. Giulio Andreotti
Altre volte abbiamo parlato della concezione del mondo ingenua, spaventata e mitica che si ritrova anche nelle opere più efficaci del cinema realista italiano. Umberto D conferma questa osservazione. Pietro Ingrao
Che senso ha un film come "Umberto D", a sette anni da "Roma città aperta", con la crisi del neorealismo proclamata "ufficialmente" l'anno prima dalla stessa sinistra - cui tali film vengono accostati, a volte un po' a sproposito - con un articolo della rivista "Vie Nuove", e con l'Italia che si sta rapidamente avviando verso il boom economico? Dal punto di vista commerciale il successo è precluso. Ormai ogni anno giunge dall'America anche il triplo dei film prodotti in Italia nello stesso lasso di tempo, anche più di quanti realizzati negli Usa nella medesima annata (c'è il recupero di film anteguerra precedentemente bloccati da un embargo), sarà da lì a pochi anni la volta delle epopee mitologiche degli Ercole e i Maciste, i cachet dei divi sono in prepotente ascesa e la televisione incombe.
Il senso originario va dunque cercato anzitutto nelle condizioni materiali ancora estremamente complicate cui le categorie che non hanno potuto trarre vantaggio da quindici anni di inflazione galoppante sono costrette, nel decennio del dominio assoluto del capitale sul lavoro. È quindi ancora un dovere morale sbandierare al vento i panni sporchi del Belpaese, piuttosto che nasconderli o lavarli in famiglia, come vorrebbe il sottosegretario Giulio Andreotti, gran sostenitore della rinascita del cinema italiano a patto che non sia politico: in quest'ultimo caso, la mannaia del divo Giulio si abbatte sui film e sui registi come il manganello della Celere di Scelba sui lavoratori in sciopero.
E il sesto film della coppia Vittorio De Sica-Cesare Zavattini si apre proprio con una manifestazione: dei pensionati, "i paria della nazione" secondo quanto si legge su uno dei cartelli. Umberto (dal nome del padre del regista) Domenico Ferrari - interpretato dal non professionista Carlo Battisti, nella vita professore di glottologia all'Università di Firenze - è con i manifestanti, a chiedere quell'aumento che gli consentirebbe di evitare lo sfratto, dalla camera in cui vive assieme al suo cane Flik, minacciato dall'odiosa padrona di casa. Nel proseguo della vicenda troviamo tutti i crismi della poetica zavattiniana del pedinamento e il consueto inimitabile sguardo di De Sica, più fulgido e profondo che mai.
Al centro, la vicenda umana del protagonista, persona anziana che cerca di affrontare con dignità e senza rassegnazione la miseria economica, il decadimento fisico, la solitudine esistenziale. L'unico rapporto lo ha con la servetta Maria (Maria Pia Casilio), il suo solo spazio è la camera, mentre fuori ribolle una Roma traboccante di gente produttiva, militari in licenza, amori che sbocciano. Umberto può al massimo raggiungere altri luoghi di cattività più o meno coatta, un'ospedale o un canile; i soldi non piovono dal cielo, chiedere la carità è troppo degradante. Gli autori dilatano il più possibile la sua agonia (ma l'episodio più celebre e riuscito di questo lavoro sui tempi del racconto è il risveglio della ragazza), svincolata il più possibile da una reale progressione drammaturgica. Le singole sequenze hanno vita a sé. Ma nonostante ciò - o proprio per questo - l'emozione monta a livelli insostenibili.
Tutto splendido, niente di nuovo. Ne siamo sicuri? È possibile, a nostro modesto avviso, che "Umberto D" tenti un cambio di coordinate, un passaggio d'epoca, da una realtà a un'altra. Mentre i problemi di mera sussistenza permangono, il mondo sta precipitando nell'incubo collettivo del conflitto nucleare. La guerra di Corea è in atto, Stalin è ancora vivo (e i russi stanno per annunciare la bomba H), i governi di unità nazionale sono finiti da un pezzo con l'espulsione delle sinistre, l'ingerenza degli Stati Uniti in Italia è ai massimi storici (anche, ribadiamo, con la valanga di film di Hollywood che invade le nostre sale), pure gli spazi di libertà per gli artisti sono erosi.
E addirittura un terzo (l'ultimo) del film è dedicato ai propositi suicidi del protagonista, che sfumano nella sequenza del treno (elemento ricorrente nella poetica di Zavattini, sceneggiatore di opere dal titolo eloquente come "Stazione Termini" e "Treno senza orario") citata anche da Satyajit Ray ne "Il mondo di Apu". È il suo cagnolino, non dunque un essere umano, a salvare la vita al protagonista. Mentre lo spazio circostante è occupato da bambini intenti a giocare: il futuro della società è in mano a loro, si spera ne facciano miglior uso di quanto gli adulti stiano facendo con il presente.
Film decisamente meno favolistico di quasi tutto quanto prodotto dagli autori, vede la sua ultima parte popolarsi di personaggi ostili in modo manicheo a Umberto, che chiudono le porte alla comunicazione e rifiutano sistematicamente di dargli aiuto, ed essere attraversata da tensioni decisamente palpabili, che mai subiscono un calo. Tensioni da Guerra Fredda? In un caso il riferimento è esplicito: "Secondo lei ci sarà la guerra?" "Mah", è dialogo che squarcia l'imbarazzato silenzio tra il protagonista e il "commendatore". Azzardiamo che tutto il film, o quantomeno l'ultimo terzo, vada in quella direzione. Delirio interpretativo? Il dibattito è aperto.
Realizzato grazie a un coraggioso produttore specializzato in imprese economicamente masochiste, Giuseppe Amato, incassa forse la metà (100 contro 200, ma secondo altre fonti "solo" 140 milioni) di quanto speso (i costi di produzione dei film neorealisti, tra riprese dal vero e in esterni e spostamenti di troupe, sono molto più alti di quanto si pensi) e risulta con "La terra trema" e "Francesco giullare di Dio" uno dei tre clamorosi flop del neorealismo italiano. Ma già all'epoca è amato da intellettuali come Pavese e Bazin. E oggi, oltre a segnalare il remake del 2008 con Jean-Paul Belmondo e Hafsia Herzi ("Un homme et son chien"), non possiamo che celebrarlo come una pietra miliare della nostra cultura. Che commuove ancora e commuoverà sempre.
22/03/2011