La prematura scomparsa di Elio Petri aiutò a farne uno dei registi sommersi dopo la fine della stagione più politicamente impegnata del nostro cinema. Indaghiamo la filmografia del regista romano, personalità cardine della nostra storia cinematografica, che ha saputo ragionare e intervenire sulle ferite aperte dell'attualità politica e sociale italiana, con uno sguardo originale e provocatorio
"Le facce - tutte - devono essere livide d'invidia
tumefatte dalla rassegnazione,
gonfie di rabbia inesplosa,
oblique per meschinità e furberia,
ispessite dalla eccessiva frequentazione
di programmi televisivi,
vuote per il deserto fatto nei loro occhi
dal sentimento della paura.
Esse, le facce, devono trasudare l'orrore,
l'irrazionalità, la cupidigia, il polveroso deserto
della grande orrenda città".
(Elio Petri)
Elio Petri, romano di nascita, intellettuale vicino all'ideale marxista, con le sue pellicole ha contrassegnato un'epoca, quella democristiana dei decenni 60 e 70. Nel suo cinema al vetriolo, essenziale e graffiante, si respira l'aria tesa del tessuto politico-sociale pre e post-sessantottino del nostro paese, accartocciato dalla dilagante protesta e dalle numerose stragi perpetuate in quegli anni.
Petri era un autodidatta che aveva interrotto gli studi e si era costruito intellettualmente grazie a intense letture. Come gran parte degli esponenti della Nouvelle Vague francese non aveva mai frequentato una scuola di cinema e si era formato vedendo molti film, portando avanti un apprendistato della durata di dieci anni nel mondo cinematografico: da critico a fondatore di cineclub, da collaboratore a diverse sceneggiature a documentarista. Il suo percorso iniziò come critico cinematografico del giornale L'unità, per poi successivamente approdare al cinema come collaboratore di Giuseppe De Santis nella pellicola Roma ore 11 (1951), film inchiesta che utilizza un dossier preparato dallo stesso Petri come base per la scrittura della sceneggiatura.
Il sodalizio con De Santis si protrarrà anche in seguito con la preparazione di altri dossier e altre sceneggiature tra cui Giorni d'amore (1954) e Uomini e lupi (1956).
Si iscrive al Pci alla tenera età di 17 anni per poi allontanarsene nel 1956, quando l'Urss invaderà l'Ungheria. Questo evento vide la netta opposizione del regista che criticò le scelte del paese sovietico e la linea accondiscendente del Pci: il risultato di tutto ciò fu il mancato rinnovamento della tessera del partito e un progressivo allontanamento.
Debutta dietro la macchina da presa con due documentari. Nasce un campione (1954) è un bozzetto bucolico girato tra Sant'Arcangelo di Romagna e Igea marina che racconta il desiderio di emergere di un giovane lavoratore romagnolo con la passione per la bicicletta. Gli farà eco I sette contadini (1957), altro corto documentaristico ideato in coppia con Cesare Zavattini. Qualche anno più tardi Petri dichiarerà: "Non mi piacciono i documentari. Mi fanno ridere. C'è il massimo della manipolazione, perché fingono di documentare quello che non è documentabile".
I suoi primi due cortometraggi imprimono una linea di demarcazione esile tra la finzione e il reale, sfuggendo a quella "manipolazione" attuata ad esempio nel cinema di Flaherty da "Nanook" a "L'uomo di Aran".
L'approdo alla fiction avverrà solo nel 1961 con L'assassino, grazie anche allo sviluppo di una rete di amicizie in ambito cinematografico: Mastroianni, Puccini, Zavattini. L'assassino mette in luce fin da subito un tipo di cinema strettamente legato alla cronaca, ma allo stesso tempo lontano da una mera tassonomia degli eventi. Echi di Nouvelle Vague emergono dalle immagini del regista romano, tanto che all'epoca si sprecarono i paragoni con Truffaut. L'uso distorto del flashback, i movimenti di macchina inusuali con l'uso insistente dello zoom, i toni ironici e l'humour nero sono solo alcune delle peculiarità di questo debutto. Da segnalare la partecipazione di quelli che saranno due attori-feticci del cinema di Petri, Salvo Randone (il commissario Palumbo) e Marcello Mastroianni (nei panni di Nello Poletti). Quest'ultimo, protagonista del film, è indiziato per un delitto che non ha commesso e, messo sotto torchio dalla polizia, sarà costretto ad ammettere altre colpe, prendendo coscienza di altre bassezze. Petri dovette adattarsi ai tagli imposti dalla censura per il modo in cui rappresentava criticamente i metodi della polizia.
Quello che mette in risalto Petri non è solo l'intreccio thriller, ma la rappresentazione di una classe borghese legata alla materialità e al desiderio assoluto di denaro e sesso. Non è solo l'immoralità del protagonista ad essere messa in dubbio ma tutto il sistema sociale basato su un rapporto che vede la terzità della legge farsi beffa del diritto del cittadino, e quest'ultimo, come in una catatonia eterna, diventare succube del mito borghese. Ma il moralismo pessimistico rintracciabile nella vicenda del film rispecchia un pensiero ironico e triste, relativo al gran vuoto lasciato dalla caduta di ideali collettivi, dalla perdita di vista di un orizzonte che non sia quello del ristretto tornaconto individuale.
In questo primo film di Petri, ritroviamo accenni e limpidi tratti di un fervore esistenziale filtrati nell'arco di un racconto che vuole stare alle "regole del gioco"; dove ciò che più colpisce è appunto l'attenzione a certi scorci e angolature (racchiusi nei flashback che rappresentano ricordi e rimorsi del protagonista), a certe brevi prospettive su una realtà marginale, di bisogni e desideri elementari. Una realtà sulla quale il boom getta riflessi spenti, squallidi, degradati, sovreccitata e affannosa, perduta dietro effimeri miti. Il mondo che si delinea ne L'assassino si colloca a monte di tanto apparente sconquasso, di tanto frenetico agitarsi a vuoto. Lo stesso antiquario protagonista della pellicola è in realtà un "poveraccio", il primo di una lunga serie, parente non troppo lontano del Bruno Cortona de Il sorpasso (1962), interpretato da Gassman: esemplare di un "miracolo all'italiana", impastato di avventurismo, di furbizia, di volgari espedienti.
Nouvelle vague, neorealismo, e la lezione appresa dal cinema di Rossellini e Antonioni, daranno sfogo a un misconosciuto capolavoro del cinema italiano: I giorni contati (1962). Salvo Randone interpreta il ruolo dello stagnaro Cesare, che, dopo aver assistito alla morte di un uomo per infarto, comincia a porsi delle domande sul senso della vita, decidendo di abbandonare il suo lavoro; tra l'atmosfera insieme concreta e metafisica, spunta un bilancio cupo della propria esistenza di fronte l'approssimarsi della fine. I toni esistenzialisti si mescolano con un frustante sentimento di solitudine che induce il protagonista a girovagare nei luoghi del suo passato o in posti per lui inusuali; recuperare il tempo perduto diventa priorità assoluta, ma la sua inafferrabilità costringe Cesare ad arrendersi alla logica di chi gli sta intorno, ritornando a lavorare. Salvo Randone è autorevole e convincente, domina il film in un monologo quasi costante.
Tutti gli altri attori fungono da satelliti rispondenti: si affacciano ai rovelli del protagonista al solo scopo di fornire un'ipotesi, un consiglio, una possibilità d'uscita dai tormenti per poi scomparire dalla scena. Se da un lato c'è una riflessione sulla morte quasi bergmaniana, dall'altro c'è l'influenza di film del calibro di L'eclisse del succitato Antonioni, uscito sempre nel 1962 e sceneggiato anch'esso in collaborazione con Tonino Guerra. L'alienazione dei fotogrammi iniziali (e finali), con l'esposizione della pellicola alla luce solare senza filtri, è destinata a rimanere uno dei punti più alti del cinema di Petri. Il film si costruisce nella dolorosa cadenza di un'elegia depurata di ogni miele possibile: un'elegia tanto scarna che a definirla ispirata a sobrietà sarebbe diminutivo. Smettere di lavorare per godere del piacere della vita prima che sia troppo tardi, ma per lo stagnaro è già troppo tardi. I giorni di vacanza sono un'inutile rincorsa della giovinezza, ogni strada intrapresa un vicolo cieco, ogni speranza una delusione; Cesare è rimasto irrimediabilmente indietro di qualche decennio. Perfino il modo di divertirsi della società che lo circonda non gli appartiene più. La breve vacanza è servita solo per aprire gli occhi sulla vita, irradiata dalla splendida luce solare, e per spegnere, a poco a poco, tutti i suoi sogni.
Le immagini del film risultano incise da un alto e puro sentimento, una devozione persino religiosa nei confronti di quel seme di vita che il vecchio Cesare porta dentro gli occhi, nelle pieghe della bocca, nel modo in cui lo vediamo seduto su quel tram semivuoto giunto a destinazione.
Elio Petri lascerà il segno anche nella commedia all'italiana con la collaborazione alla sceneggiatura de "I mostri" (1963), e la trasposizione del libro di Lucio Mastronardi Il maestro di Vigevano (1963), con Alberto Sordi nei panni del maestro Monbelli.
Sceneggiato da Petri insieme all'inossidabile coppia, Age e Scarpelli, Il maestro di Vigevano presenta Sordi nelle vesti del maestro Mombelli, uomo di lettere e umanista, (maschera da lui già indossata in "Totò e i Re di Roma") che oltre a combattere contro la farsesca stazza del preside e le manie imprenditoriali della moglie Ada (un'inverosimile Claire Bloom), sogna un ritorno alla vita rustica, per sfuggire ai suoi cavilli giornalieri cui però dovrà dar conto. Il terzo lungometraggio di Petri si ricollega a un altro film d'inizio anni 60, "Il boom" (1963) di Vittorio De Sica; il desiderio consumistico del decennio viene messo in scena da coloro che non possono permetterselo; c'è chi è costretto a perdere un occhio della testa e chi, invece, declina il suo ruolo di tutore didattico per interessi economici e maggior prestigio.
Il maestro di Vigevano rappresenta uno "snodo" nella carriera di Petri, messo alle strette dal fallimento della Titanus e passato sotto la produzione di Dino De Laurentiis. Petri esplora il terreno del suo narrare e si avvede che troppo poco spazio vi si dà alle impennate (di polemica, di sarcasmo) cui sarebbe incline la sua rabbia "rivoluzionaria".
Petri subisce l'indecenza della battuta in un film frastornato dalla brutale invadenza di Sordi, ma va a segno lucidamente almeno due volte: Mombelli, impegnato in una nervosa discussione con Ada, si ferma di colpo e "vede" la moglie avvolta in una sontuosa pelliccia; nell'altra scena il maestro, aggredito dal preside per essere giunto in ritardo, lo abbranca per il bavero e lo umilia atrocemente, prima di ripiombare dal sogno alla vita.
Il regista costruisce una "realtà" differente che gli servirà negli anni a seguire per modellare i "risvolti" segreti di personaggi mediocri come il poliziotto (Indagine su un cittadino), come l'operaio Lulù Massa (La classe operaia va in paradiso), come il macellaio (La proprietà non è più un furto), come i comprimari di Todo Modo. La follia, che diventa sinonimo di grottesco, si insinua nel film con la materializzazione dei sogni del misero insegnante vittima della scuola, della moglie, dei colleghi, della volgarità dei nuovi ricchi. Il maestro di Vigevano è solo in parte un film di Petri; più spesso è il film di un attore, di due sceneggiatori affogati negli abissi della commedia all'italiana, di un musicista corrivo e di un produttore alla ricerca del profitto. Petri tenta di costruire una sua storia e il film in questione è solo una maniera per affinare gli strumenti, una lotta contro gli ostacoli e le trappole, un'introduzione alla scoperta di se stesso.
Petri sperimenta la fantascienza sull'onda dei B-movie di Antonio Margheriti, con La decima vittima (1965), trasposizione del racconto di Robert Sheckley. La decima vittima, primo film a colori di Petri, è l'agile e crudele storia di una caccia all'uomo. Di una caccia legale, autorizzata, enfatizzata e pagata dalla pubblicità. Una caccia concepita come un olocausto limitato, dopo la quarta guerra mondiale, per scongiurare l'annientamento totale; una valvola di sfogo per l'uomo con la vocazione alla violenza. Oltre alla funambolica acconciatura ossigenata di Mastroianni, c'è un lavoro macroscopico sulla scenografia, a partire dalle ambientazioni, che strizzano l'occhio alla pop-art, fino ai costumi avveniristici indossati da Elsa Martinelli e Ursula Andress. Piero Poletto autore delle scenografie de "I diafoni vengono da Marte" e "Il pianeta errante" (entrambi diretti da Margheriti) segna il punto di cesura, almeno sul piano di décor, tra il cinema d'autore e i B-movie.
Petri snatura la storia originale tratta dal racconto, ma è a sua volta tradito dal final cut supervisionato dal produttore della pellicola, Carlo Ponti, che ne modifica la conclusione andando contro le intenzioni del regista. La tecnologica caccia all'uomo (il valore di una vita) e la pace sociale sulla quale si regge un nuovo potere mondiale è un tema che ritornerà spesso, in sembianze diverse, nell'opera di Petri, ovvero nella messa in discussione dell'individuale contro il sociale. Pur non esente da difetti La decima vittima rappresenta un progetto ambizioso e desueto del cinema italiano che merita di essere apprezzato più di quanto fu gradito all'epoca. Il fascino sgargiante di quest'opera in technicolor ne ha determinato una lettura in termini di moda, come se si trattasse di un inno al glamour, al design, agli oggetti più in voga. Ma a ben guardare, con La decima vittima Petri intende prendere di mira proprio queste realtà, le nuove merci, i desideri "all'americana", la nascente e vacua ansia di consumo.
Tra il racconto di Sheckley e il film sono passati undici anni saturi di delusioni crescenti, dal boom alla grande corruzione, che non potevano che allargare e accrescere la tendenza utopistico - negativa di Petri. Il sottogenere fantascienza, cosi come il sottogenere poliziesco, al cinema come in letteratura ha sempre fornito validissimi spazi nei quali cuocere l'attualità, la riluttanza e l'attesa di non aspettarsi nulla di buono dal futuro. La decima vittima è una favola più irta di riferimenti all'attualità di una cronaca o di un'inchiesta giornalistica.
A ciascuno il suo (1967), thriller tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, segna un punto di non ritorno nel cinema del regista romano. L'intricata matassa che sta alla base della sceneggiatura, viene snocciolata scena dopo scena, donando allo spettatore un'ansia soffusa, solamente accennata, celata nei volti criptici dei personaggi siciliani, nell'uso del teleobiettivo e della lunga focale. C'è sempre qualcuno che spia, c'è uno sguardo che scruta la superficie di quel mondo impenetrabile. Cinema critico nei confronti della religione, dello stato, A ciascuno il suo, è anche l'inizio della fortunata collaborazione del regista con lo sceneggiatore Ugo Pirro e con l'attore Gian Maria Volonté qui nei panni del professore Laurana, "un intellettuale politicamente e sessualmente incompetente" dirà Petri.
Laurana è un professore che viaggia tra il suo paese natale e Palermo, dove insegna letteratura italiana al liceo. Il suo nomadismo sintetizza la condizione critica dell'intellettuale ansioso di evadere dalla provincia borghese, ma anche estraneo e solitario, perso nel suo mondo, incapace di capire cosa accade sotto i suoi stessi occhi. Petri e Pirro uniscono alla scrittura pudica e coscienziosamente scettica di Sciascia, l'eruttività verbale e liberatoria di Dostoevskij: la passione per l'intreccio misterioso, il rapporto tra l'individuale e il sociale, come se questo poggiasse su una base criminosa, riconosciuta da tutti, ma da tutti rimossa. L'"investigatore", un intellettuale inquieto, non informa la polizia dei suoi sospetti e delle sue scoperte fino al punto di ignorare lo Stato perché non ha fiducia in lui, perché non crede che lo Stato si identifichi con la democrazia e cade quindi nella trappola della sua contraddizione, delle proprie contraddizioni, quelle che sono tipiche della società italiana. Il professore Laurana si fa coinvolgere in qualche modo in un doppio crimine apparentemente passionale e abbandona il suo ostracismo intellettuale per scoprire i colpevoli. Ma il "cavaliere" investigatore lotta contro i mulini a vento perdendo di vista la realtà di un tessuto connettivo onnipresente della società italiana: la "realtà" raggruppata all'ombra della mafia.
L'indolenza collettiva di questa "onorabile società" viene mischiata da Petri con una sensualità che si scopre in forme intraviste, in gesti erotici o in vesti nere. Sciascia, Petri e Pirro si ritrovano a intervenire sulla società italiana, quella della mafia, non intesa come fenomeno storico, ma come elemento determinante della passerella socio-politica sicula e italiana.
Ormai giunto al quinto lungometraggio, Petri si riconferma acuto osservatore dei movimenti sociali e intellettuale di prestigio. Un tranquillo posto di campagna (1968) è un felice esperimento, sembra quasi far coppia con il precedente La decima vittima. Leonardo Ferri (Franco Nero) è un pittore pop che in cerca di ispirazione abbandona il caos cittadino per rifugiarsi in una vecchia villa abbandonata dove scoprirà la misteriosa uccisione di una contessina ninfomane avvenuta anni prima.
Abilmente diviso tra sogno e presente diegetico, Un tranquillo posto di campagna è un'allegoria sul ruolo dell'artista nella società contemporanea, confuso, amareggiato, e perso in una fitta nebbia di false credenze, d'ideali che si frantumano. Nel film le tele dipinte dal personaggio di Franco Nero sono state realizzate dall'artista americano James Dine. La pop art è l'ultima e più violenta rivoluzione artistica, il tentativo disperato di tornare alla realtà afferrandosi agli oggetti. Il protagonista è un uomo che sta bene, che conduce una vita tranquilla, che appare bene integrato nella società in cui vive, ma è proprio questa integrazione a procurargli le prime insoddisfazioni e a provocare i primi impulsi di ribellione, fino a consigliargli la fuga.
Un tranquillo posto di campagna è la ricostruzione della personalità del pittore che scopre drammaticamente la morte dell'idea romantica di arte, parla della sua crisi personale, della caduta di fiducia nella rappresentabilità del reale. La prima metà del film descrive la nevrosi di Leonardo con l'andamento spezzettato, vicina ai film di Antonioni cosiddetti dell'alienazione. Quanto però in Antonioni resta esistenziale e contemplativo qui diviene accelerato e schizoide: il film partecipa alla follia del protagonista e le macchina da prese si muove lungo prospettive incongrue e sussultanti, che aderiscono quindi al sentimento contrastante e alla nevrosi di Leonardo. Nella seconda parte del film Petri rientra nell'alveo della narrazione tradizionale, perdendo in parte la dismisura stilistica e l'isterismo mimetico che aveva marcato nella prima parte. L'artista derubato del proprio plusvalore (Marx) va incontro la nevrosi (Freud) e a nulla serve il ritorno alla natura (Rousseau). Non si fatica quindi a scoprire che, seppur in un'opera non centrale e posizionata tra due film smaccatamente politici (A ciascuno il suo e Indagine), ancora una volta la politica e il sociale conducono il gioco.
Nel 1970 esce nelle sale Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, il film di maggior successo di Petri, vincitore dell'Oscar per il Miglior Film straniero e del Gran Prix della giuria del festival di Cannes. E' il primo capitolo di una trilogia della nevrosi ideata insieme a Ugo Pirro. Le stragi, gli atti sovversivi, le rivolte studentesche e, soprattutto, l'acuirsi delle tensioni politiche in quegli anni, sono la linfa vitale della pellicola.
L'omicidio di una donna da parte di un alto ufficiale di polizia diventa pretesto per un'indagine sullo stato delle cose in Italia, su chi detiene il potere e se ne fa sfregio. Volonté incarna un personaggio voluttuoso perso nei meandri della giustizia e che non riesce a ragionare al di fuori di essa; sotto la maschera grottesca di rude e sprezzante tutore della legge, si nasconde una personalità fragile (i flashback con l'amante che fanno riaffiorare un complesso d'Edipo mai acuito). Le regole che crede di dover seguire e applicare finiscono per assillarlo, portarlo al collasso, all'impossibilità di rispettarle. Allora depista le indagini, lascia tracce che riconducano a lui come colpevole di un incidente "istituzionale", ma in quanto personificazione del potere è blindato, protetto da una cerchia di altri potenti. Il capo della sezione omicidi rappresenta il mito di un eroe anticrimine che diventa lui stesso il crimine che deve scoprire e punire. La scena paradossale in cui è obbligato a confessarsi innocente, anche se giocata sulla finzione, colloca l'eroe, che come Edipo è allo stesso tempo inquisitore e colpevole, a un livello di ambiguità totale, in un rovesciamento del giusto e dell'ingiusto. In questo senso la citazione kafkiana che chiude il film è del tutto adeguata.
La musica di Ennio Morricone, la fotografia di Luigi Kuilliver, e il montaggio di Ruggero Mastroianni danno lustro a quello che è un capolavoro della cinematografia italiana, film destinato a segnare un decennio istituzionalmente aspro, contraddistinto da una lotta serratissima tra le diverse fazioni politiche parlamentari ed extra-parlamentari. Il grottesco di "Indagine" confina con l'incubo e l'allucinazione, il realismo si disfa in una ragnatela mentale pregna di incubi. La legge è sfidata e infranta per poter essere affermata nella sua possibilità di riconduzione alla "normalità"; a questa normalità si contrappone colui che può anche non rispondervi senza essere sospettato: l'uomo di potere che deve indossare una maschera per sostenere il peso della sua posizione. Essere smascherati equivale quindi a essere liberati.
L'ambiguità della maschera di Volonté è divisa da pulsioni contrastanti: se da una parte si auto-compiace sadicamente del suo essere al di là della legge, dall'altra chiede il tranquillizzante ripristino che lo sottragga al peso di una maschera insostenibile. La maschera del capolavoro di Petri non si pone come "senso carnevalesco della vita" (come affermava Bachtin, questo tipo di grottesco è rintracciabile in alcuni film di felliniana memoria), ma si impone nel gioco del film come travestimento e come simulazione.
Documenti su Giuseppe Pinelli (1970) è un documentario diviso in due parti, le "Ipotesi" dirette da Elio Petri e l'episodio nominato semplicemente "Giuseppe Pinelli" diretto da Nelo Risi. I documenti furono prodotti dal Comitato cineasti contro la repressione che nacque all'indomani della strage di Piazza Fontana. Al comitato aderirono i cineasti più noti ma pochi girano dei "pezzi", pur assicurando il finanziamento dell'impresa. Le Ipotesi girate da Petri mettono in scena, con una serie di sketch, i probabili avvenimenti che comportarono la misteriosa defenestrazione dell'anarchico Pinelli, indagato ingiustamente per la strage di Piazza Fontana. Le ipotesi si basano sulle dichiarazioni dei poliziotti inquisiti e sono presentate da un gruppo di attori: Volonté, Montagnani, Diberti. L'ironia della sceneggiata assume toni amari nel volto scuro e rabbioso degli attori che inscenano le probabili dinamiche dell'accaduto.
La seconda parte del film diretta da Nelo Risi, traccia la figura del ferroviere anarchico intervistando la moglie, gli amici e i conoscenti. Sempre per conto del comitato, il duo Petri-Pirro, condusse un'inchiesta con la macchina da presa nella fabbrica Fatme. Durante una manifestazione un operaio fu licenziato. Proprio quell'operaio diede origine a Lulù Massa, il protagonista de "La classe operaia va in paradiso". I documenti su Pinelli ebbero una circolazione assai limitata e, paradossalmente, i filmati usufruirono di maggior diffusione in Francia.
La classe operaia va in paradiso (1971) è il primo film a "entrare" in una fabbrica e a studiarne quasi antropologicamente le dinamiche e le gerarchie. La catena di montaggio e il lavoro a cottimo avviliscono i corpi fino alla loro fisiologica mutilazione, e il manicomio sembra l'unica luce in fondo al tunnel. Lulù Massa (ancora uno straordinario Volonté) è un uomo-macchina, la sua casa è la fabbrica, il lavoro l'unico interesse; la famiglia è un microcosmo che fa da cornice, la casa un luogo dove riposare davanti un tubo catodico. L'uomo-macchina moderno ha scordato il senso della vita, lavora esclusivamente per i beni terreni, per arrotondare lo stipendio, non per arricchire l'anima ma per procurarsi vantaggi materiali. Quest'uomo è come se fosse già morto. Ha paura di innamorarsi, vuole solamente far del sesso con una sua collega, ma non vuole accollarsi nessuna responsabilità. Gli interessa soltanto soddisfare i suoi desideri materiali e carnali.
E' interessante notare come il desiderio di questa maschera sia sempre iperbolico: il lavoratore che massimizza le sue prestazioni lavorative, l'operaio in sciopero che non scende a compromessi neanche con i sindacati. La maschera grottesca di Lulù è accompagnata da un'inadeguatezza del soggetto infantile (dove l'infantilismo è marcato dalla voce a tratti piagnucolosa) al mondo adulto e alle "mediazioni" che lo caratterizzano. Petri ricostruì lo scontro sociale in atto nel nostro paese "usando" un personaggio e una storia, e dando a essa una sorta di "metafora intelligente". Un personaggio con la sua orribile casa piena di oggetti kitsch, permanentemente in conflitto tra il suo essere sociale e i suoi istinti piccolo-borghesi. Petri e Pirro misero a confronto questa figura con un'altra, altrettanto "segnata": il vecchio operaio Militina (Salvo Randone) ricoverato in una clinica per "alienati" che mostra di non capire ciò che sta accadendo, di non rendersi conto che il suo mestiere sta per essere stritolato dalle innovazioni tecnologiche. Dopo che la macchina gli trancia un dito, Lulù solidarizzerà con i gruppi extra-parlamentari, verrà licenziato, ma i sindacati riusciranno a farlo riassumere. Ma ormai Lulù è vicino alla pazzia: ai compagni nella fabbrica, Lulù parlerà di un muro da abbattere oltre il quale c'è il paradiso della classe operaia.
Il film presentato in anteprima al festival del "Cinema Libero" di Porretta Terme, provocò un acceso dibattito che vedeva esponenti della sinistra rimproverare a Petri di adottare una posizione riformista e rinunciataria, proponendo di bruciare le "pizze" della pellicola. Petri, dal canto suo, ritenne che il pubblico si fosse avvicinato al film con un approccio sbagliato, accecato dai pregiudizi che contraddistinguevano l'estrema sinistra di quegli anni. Il film fu apprezzato invece al festival di Cannes dove vinse Palma d'oro (ex-aequo con "Il caso Mattei" di Francesco Rosi).
Il rapporto conflittuale con la critica di sinistra prima, e con la Democrazia Cristiana poi, porteranno Petri a dichiarare amaramente: "Forse è giunto il momento di non fare più cinema".
C'è una propensione più teatrale nelle opere che seguiranno, a cominciare dall'ultimo film della trilogia della nevrosi: La proprietà non è più un furto (1973). Film ostico e perturbante al punto giusto, è una critica feroce verso il modello capitalistico occidentale e la sua base primaria, ovvero le banche, ovvero il denaro, ovvero la proprietà. "Chi possiede qualcosa, è. Noi, che non possediamo nulla, non siamo" dirà Total (Flavio Bucci), un ragioniere di banca allergico al denaro che disprezza, odia, brucia (come nel racconto "I distruttori" di Graham Greene). Ugo Tognazzi interpreta un macellaio ricco, che si diverte nell'accumulare beni e rimpiange solo di non essere immortale e di non poter dilapidare i suoi averi. Il macellaio non rispetta le regole (evade le tasse, ecc.) ma possiede tutto: case, appartamenti lussuosi, una macelleria che gestisce in prima persona, e una moglie priva di amor proprio che si piega facilmente al volere del marito, diventando solo un mero oggetto ("'na cosa"). Tutto ciò suscita l'invidia e "l'odio di classe" di Total che, a poco a poco, proverà a privarlo di tutti i suoi averi e a perseguitarlo.
E' un gioco fra tre ladri: chi lo è con la copertura del ruolo sociale (Tognazzi), chi lo diventa per "principio" o per un ideale (Total), chi lo pratica come tecnica raffinata (l'attore Albertone); il poliziotto è il quarto uomo, colui che deve il suo ruolo proprio i ladri (il discorso funebre di Paco l'Argentino - interpretato da Proietti - esplica bene questo concetto). Il proprietario è l'archetipo della società basata sull'appropriazione individuale e il ladro è il suo equivalente. Il ladro vuole semplicemente conquistare l'oggetto dei suoi desideri seguendo strade diverse da quelle della gente "onesta". Ladro e proprietario sono quindi due facce della stessa medaglia, entrambi sono coinvolti nella corsa al profitto; non sono diversi se non nei confronti della legge e degli organi interessati a farla rispettare. Per difendere i propri beni il proprietario può contare sull'aiuto delle forze dell'ordine. Total già dal nome definisce il tratto distintivo della sua maschera, con la sua aspirazione alla totalità: "Essere" e "avere" allo stesso tempo. Vuole distruggere la proprietà per un atto di volontà ma ricostituisce il procedimento del possesso come mezzo per definire la sua individualità.
I volti del film sono provati, alterati, rabbiosi; facce finte, sudate emergono come profili da uno sfondo nero, e l'azione perde verosimiglianza cosi come i personaggi, diventando un gioco di maschere che soppiantano un mondo senza volto. Il film non racconta una continuità drammatica ma giustappone delle situazioni che mettono in pratica la "rinuncia all'azione" brechtiana. Se La proprietà non è più un furto si rifà a Brecht, il film fa pensare anche all'espressionismo tedesco. Le luci volutamente "pop" segnano un tratto iperbolico che fa coppia con le forme allucinatorie - grottesche; il naturale implode per sfociare in una deformazione espressiva. Nella partita enigmatica fra i tre ladri non vi è l'ordine contrapposto al disordine, la legge contrapposta all'infrazione: non c'è opposizione duale fra il bene e il male. Abbiamo invece la costruzione di una teatralità espressionista con le facce che alterate nei loro contorni e nelle loro espressioni, diventano maschere.
La proprietà non è più un furto fu accolto negativamente dalla critica e dal pubblico e ancora una volta ci fu la proposta di bruciare la pellicola. L'indignazione di Petri fu dirompente, unita alla delusione per i continui attacchi ai suoi film e le continue incomprensioni che esse suscitavano. Durante le discussioni si trattava sempre di escludere, condannare o di stabilire "un'inquisizione". Il settarismo non era morto, la parola serviva prima di tutto a giudicare o a condannare. La "condanna", la diffidenza del pubblico di fronte questo film è dovuta al fatto che Petri compie un'operazione che infrange le regole del cinema "impegnato", ponendo in maniera brutale lo spettatore di fronte al suo stato di servitù.
Tre anni dopo esce Todo Modo (1976) tratto ancora una volta da un libro di Sciascia, dove Petri ha un solo scopo: danneggiare la Democrazia Cristiana, rea di aver restaurato un modello capitalistico irrazionale per l'Italia, di essere tornata a un modello politico pre-fascista basato sul parassitismo clientelare e corruttivo. "La tipologia trentennale del gruppo dirigente democristiano - ch'è ormai quella della commedia dell'arte - rimanda a personaggi tartufeschi, striscianti, topi di sagrestia, untuosi, dall'incedere femmineo, dall'eloquio faticoso e incomprensibile".
Un gruppo di notabili democristiani si riunisce in una specie di convento, l'eremo di Zafred, per dedicarsi agli esercizi spirituali. Questi esercizi ideati da S. Ignazio di Loyola consistono in folto programma di preghiere, meditazioni, esami di coscienza, riflessioni, prediche, cerimonie e altre simili discipline che il gruppo deve mettere in atto sotto la guida di un direttore spirituale.
L'esercizio spirituale si configura come un estremo tentativo di recupero dei valori religiosi che in passato avevano costituito il fondamento della fortunata politica del partito, che sta vivendo la sua massima crisi storica.
Se da una parte abbiamo "M.", ovvero il leader democristiano Aldo Moro (Volonté), teso a non sfaldare il già fragile partito cattolico, dall'altra abbiamo Don Gaetano (Mastroianni), un po' prete e un po' demonio, il cui scopo è quello di ricordare ai dirigenti del partito che senza la sua protezione, senza l'appoggio ecclesiastico, sarebbe compromessa l'efficacia politica e sociale del partito. "M." è semplicemente una personalità autoritaria, mentre Don Gaetano è l'autorità stessa.
Todo Modo è un film prettamente pasoliniano: nel senso che quel processo che Pasolini voleva fare e non poté fare, alla classe dirigente democristiana, lo ha fatto Petri. Un processo come esecuzione, un'ecatombe politica prima che fisica. La staticità narrativa, la ripetizione, il simbolismo, l'unità di tempo e di luogo, il rifiuto della psicologia, il procedimento per blocchi slegati: questi i caratteri distintivi del film di Petri.
Le analogie tra il "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini e "Todo Modo" sono innumerevoli a cominciare dall'ambientazione fredda, quasi meta-teatrale, un microcosmo astratto e senza tempo dove i corpi si dissolvono. La differenza sta nella mancata forzatura di mano di Petri. Lo stesso regista si rimprovererà il fatto di aver ceduto al buon gusto e alla "misura", processo formale assente nel film di Pasolini. Gli interrogativi di tipo razionale presenti in Todo Modo sono destinati a rimanere senza risposta quasi a creare un parallelismo con la vita politica italiana degli anni 60 e 70, piena di misteri che non avranno soluzione. Todo Modo sta alla politica, come "Ultimo tango a Parigi" sta alla sessualità. Petri non si è curato di recuperare un sentimento religioso, né di approfondire il tema della corruzione; il solo argomento che anima il film è l'odio verso la classe dirigente, presentato in una cornice apocalittica e grottesca.
Uscito nel periodo del compromesso storico, il film costituì un serio problema politico, in quanto sparava a zero sulla politica di avvicinamento tre Pci e Dc, ma diventò un caso deflagrante, un oggetto davvero intollerabile politicamente, dopo l'uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978.
Dopo Le mani sporche di Sartre, andato in onda in tre puntate sulla prima rete, Petri torna al cinema quasi forzatamente, non spinto da un'idea ben precisa e da un progetto solido.
Le buone notizie (1979), o chiamato alternativamente "La personalità della vittima", è un film privo di spessore, alienato ma non alienante, a tratti didascalico e poco lucido. Petri immagina la vicenda di un piccolo borghese (Giancarlo Giannini) impiegato in una società televisiva, che passa l'intera giornata dinanzi a sei televisori che trasmettono i programmi previsti per le prossime sei ore: un uomo che ha paura del buio, che legge un libro rimanendo sempre sulla stessa pagina, che è convinto di non piacere alle donne e cerca delle verifiche attraverso morbosi colloqui con una compagna d'ufficio, che ha una giovane moglie con la quale comunica con turpiloqui e con brevi amplessi. Quest'uomo che non riesce a esprimere un sentimento autentico, riceve un giorno una telefonata da Gualtiero (Paolo Bonacelli), un suo vecchio amico, che è convinto che "loro" vogliano ucciderlo, anche se non sa dare corpo e nome a questi "loro", né una ragione plausibile a tale ipotesi.
Questa vicenda enigmatica, densa di impalpabili ma concrete minacce, acquista senso solo attraverso la cornice in cui è racchiusa, cioè attraverso le "buone notizie" diffuse dai televisori che trasmettono nell'ufficio del protagonista: notizie di blackout, di uccisioni di magistrati, di moti di piazza, di decessi per inquinamento, di incertezze sulla situazione economica, di veicoli fermi per mancanza di benzina e gasolio con autisti inferociti. La realtà, fuori dal piccolo schermo, ci mostra una Roma attorniata da cataste di immondizia, gente litigiosa, cani aggressivi, giovani e vecchi drogati. La violenza del globale, l'assenza di confini preannuncia il mondo globalizzato prossimo venturo. Questa grottesca satira della televisione e del suo potere di condizionamento intellettuale e morale è divisa tra realismo e metaforizzazione del reale (elementi già presenti in altri film, ma qui portati all'estremo), la sua aggressività formale rimane in superficie dando un'interpretazione parziale e forzata dei problemi affrontati.
Un'opera sarcastica e amara che riflette sulla società dello spettacolo in cui la vita e la realtà sono annullate dalla simulazione di se stesse. La decostruzione del racconto, una sorta di esperimento à-la Deridda, è anche una decostruzione di idee. Petri rende tangibile la sua disperazione con un film volutamente sgradevole. "Nella società dello spettacolo, non c'è più lo spettacolo della vita. C'è solo lo spettacolo che la società preordina, programma, elabora per darti l'impressione che tu vivi, mentre tu non vivi più da molto tempo. Io credo che la realtà non ci sia più [...]. Io credo che la nostra sia un simulacro di vita".
Chi illumina la notte era l'ultimo progetto mai portato a termine (ci rimane soltanto la sceneggiatura) a causa della precoce morte del regista. Prima di lasciarci, Petri spedirà tre lettere "orali", dettate al registratore, a Giuseppe De Santis rievocando alcune tappe della sua vita. In quelle parole c'è il manifesto intellettuale, una vita vissuta tra il fascismo opprimente dell'infanzia, la disillusione politica e il cinema italiano che precipitava sempre più giù, che diventava "un elefante castrato". Il vuoto che si creava intorno a lui lo stringeva, i vecchi "compagni di strada" che appoggiarono il suo cinema degli anni 60 e criticavano quello "reazionario" dei 70, lo gettavano nel più profondo sconforto.
Per il Pci i film successivi a A ciascuno il suo e a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto non potevano più fare gioco, non portavano più acqua al cinema civilmente impegnato, costituivano invece un problema di gestione ideologica del messaggio e, proprio come succedeva in Unione Sovietica, si fecero passare come incomprensibili o esteticamente velleitari.
Petri non faceva cinema politico ma cinema del politico con la messa in scena delle maschere del reale politico, portando avanti un discorso lontano da una fissazione simbolica ma in continua perdita di senso, debitore del disorientamento ideologico che andava serpeggiando negli anni 70.
In una delle tre lettere a De Santis, Petri scrisse: "Vorrei chiarire con te che cosa? Prima di tutto forse proprio questo: perché tu sei un punto di riferimento? E poi, forse parlarti di me, sentire che parli di me, di te, cioè forse ottenere con un uomo che io considero importantissimo nella mia vita un definitivo chiarimento. Su che cosa si poteva essere, su che cosa si poteva divenire, su che cosa poteva divenire la nostra società e perché ci siamo sperduti. Ossia, perché non ci vediamo più? Poiché il problema è proprio questo Peppe: noi non ci vediamo più".
Il destino dell'aritmetica vuole che Elio Petri morisse a 53 anni, la stessa età di Cesare, lo stagnaro de I giorni contati, divenuto involontariamente il film-testamento dell'autore romano. La lucidità inquieta che contraddistinse la sua attività va di pari passo con quel senso di offuscamento e di perdita di punti di riferimento cui il cinema, e più generalmente tutta la società italiana, andava incontro. Le maschere iperboliche che i film di Petri ci hanno regalato sono un gradiente fondamentale per scovare "gli scheletri dentro l'armadio" di personaggi di dubbio rigore. Paradossalmente la maschera serve a Petri per s-mascherare la realtà, restituendola in forme espressionisticamente spigolose.
• L'assassino (1961) 7,5
• I giorni contati (1962) 8,5
• Il maestro di Vigevano (1963) 5,5
• La decima vittima (1965) 7,5
• A ciascuno il suo (1967) 8
• Un tranquillo posto di campagna (1968) 7
• Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) 9
• Documenti su Giuseppe Pinelli - "Ipotesi" (1970) 5.5
• La classe operaia va in paradiso (1971) 8.5
• La proprietà non è più un furto (1973) 8
• Todo Modo (1976) 7
• Le buone notizie, ovvero la personalità della vittima (1979) 5