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Addio al 2012, film dopo film

Come strenna per l'anno nuovo, vi regaliamo una veloce carrellata, mese per mese, di quello che abbiamo visto negli ultimi 12 mesi. Un modo per riflettere su quanto di buono c'è stato prima di tuffarci in una nuova stagione esaltante

Il 2012 del cinema va incontro a uno strano destino. Molti, infatti, lo considereranno un anno senza grandi titoli da ricordare, una stagione cinematografica passata nelle nostre sale italiane un po' in sordina. Forse è vero, per metà: rispetto a recenti annate clamorose, negli ultimi dodici mesi contiamo meno pellicole in grado di ambire alla fatidica definizione di "pietra miliare". Ma è altrettanto vero, e il lettore attento lo potrà capire da sé andando a scorrere il tabellone dei voti della nostra rivista, che la quantità delle opere degne di nota è comunque impressionante. Pochi capolavori? Forse. Ma una miriade di piccoli e grandi gioielli disseminati lungo il percorso. Per questo, ancora una volta, ci sentiamo di dire che, nonostante la crisi e il caro-biglietti, l'avventura nel buio delle sale è valsa la pena anche stavolta. Proprio per la mole di titoli che meriterebbero di essere citati, facciamo subito una premessa a questo mero elenco ragionato: questa guida non ha l'ambizione di essere onnicomprensiva. È solo un percorso indicativo a quanto di buono abbiamo visto nel 2012, da gennaio a dicembre, e che consigliamo di recuperare ai nostri affezionati avventori.

 

GENNAIO

L'anno si apre subito con un grande nome. Tocca a Clint Eastwood, infatti, aprire le danze con il suo mastodontico biopic su J. Edgar Hoover, lo storico capo dell'Fbi, diviso tra il fare la storia dell'America moderna e il nascondere delle gigantesche ombre della propria vita privata. Ad Eastwood la magniloquenza riesce ancora una volta benissimo. E proprio come con "Changeling", anche per J. Edgar la critica non sarà benevola all'unisono. Ma la spericolatezza del ritratto d'insieme di un Paese che ancora tenta di costruirsi è invece appassionante e di un'onestà disarmante.
E sbarca per la prima volta presso lidi anglosassoni quel Tomas Alfredson, principe delle nevi svedesi, già apprezzato con quel "Lasciami entrare" che aveva ridefinito il concetto di horror dei sentimenti. Con La talpa, il cineasta scandinavo adatta un romanzo del mai troppo lodato John Le Carré ambientato nei servizi segreti britannici. E mette in scena una spy story dai toni soffusi e "umanisti", mettendo da parte la ricerca spasmodica della tensione per puntare soprattutto sulla definizione dei personaggi, così poliformi e impegnati a districarsi in un'epoca piena di incertezze. Il film, forse, perde troppo ritmo proprio per eccesso di ambizione, ma conferma il talento, visivo e narrativo, di Alfredson.
Sempre dalla Mostra di Venezia del 2011 arriva anche Shame di Steve McQueen, film che regala a Michael Fassbender la Coppa Volpi, e che impone prepotentemente all'attenzione mondiale l'estetica del giovane autore inglese, qui alla sua seconda regia (e la sua prima opera arriverà da noi sempre in questo 2012). La pellicola è un intenso ritratto, livido e malinconico, di un uomo alle prese con una doppia battaglia: quella contro un insostenibile senso di solitudine e quella contro una metropoli nemica, tanto amata eppure tanto severa verso chi non riesce a integrarvisi. Il tutto utilizzando l'erotismo malato del protagonista come sintomo e al tempo stesso malattia attraverso cui il malessere dell'uomo borghese, apparentemente di successo, si manifesta in tutta la sua drammaticità.
Meno entusiasmante, certo, ma comunque meritevole di segnalazione è The Help, di Tate Taylor, commedia agrodolce sulla mancata integrazione razziale, basata principalmente sul canovaccio tradizionale di una passione (stavolta è quella letteraria) che unisce persone di razze diverse. Il film in America è stato un successo clamoroso, forse eccessivo. Mentre da noi si fa ricordare più che altro per l'Oscar alla non protagonista Octavia Spencer.
Nel primo mese dell'anno l'Italia è rappresentata da un'opera ostica e completamente fuori da qualsiasi possibile definizione: è Sette opere di misericordia, dei fratelli De Serio, storia surreale e controversa del rapporto tra una giovane clandestina e un anziano saggio e misterioso.
L'arte di vincere di Bennett Miller, invece, è un mirabile esempio di quanto la Hollywood più tradizionale riesca ancora a produrre e mettere in scena racconti solidi e di impianto classico basandosi su poche ma mai discusse certezze: una sceneggiatura brillante e un cast di grandi interpreti in forma smagliante. Travestito da film sportivo, "Moneyball" ripresenta in una chiave divertente uno dei temi più cari al cinema a stelle e strisce, quello dell'uomo in caduta libera che trova il coraggio per inventarsi qualcosa di rischioso per risollevarsi.
Arriva invece dalla Pixar Brad Bird, il regista chiamato a dirigere l'ultimo capitolo della saga dell'agente Ethan Hunt, Mission: Impossible - Protocollo fantasma. Lasciato da parte tutta la riflessione sul senso di un cinema d'azione che riflette su se stesso e sulle sue infinite possibilità, linea di pensiero seguita dai predecessori Brian De Palma e John Woo, Bird si lancia in una fantasmagorica giostra di momenti spettacolari, forse tralasciando una maggior cura nella coerenza narrativa. Ma il divertimento è assicurato.
E chiudiamo ancora con l'Italia, con una delle sorprese inaspettate, ACAB di Stefano Sollima, primo lungometraggio del bravo regista proveniente dalla serie tv "Romanzo criminale" ed esempio di un cinema a metà fra l'impegno civile e la spettacolarità di una messa in scena che non rinuncia a guardare oltre le abitudini tendenti al ribasso del cinema italico. Il risultato, quanto mai eterogeneo, è comunque un segno di ripresa, anche da un punto di vista tecnico, della nostra cinematografia. E siamo solo all'inizio, dato che, diciamolo subito, se c'è una cosa che può riassumere questo 2012, questa è lo stato di grazia delle nostre pellicole.

FEBBRAIO
Anche se gli Oscar del 2012 hanno premiato un film francese, uscito nelle nostre sale sul finire dell'anno precedente, i primi mesi dell'anno sono da sempre monopolizzati dalle pellicole hollywoodiane che puntano decisamente ad essere protagoniste della notte delle statuette. Non sfugge alla regola febbraio, che parte subito forte con il nuovo film di Martin Scorsese, quell'Hugo Cabret che, oltre a rappresentare il primo esperimento 3D per il cineasta americano, è anche una tenera e commovente storia sulle origini del cinema, sulla caduta di un sogno, poi resuscitato infinite volte. Attraverso i ricordi del grande Georges Méliès, Scorsese regala una vera e propria favola dal fascino disneyano.
David Fincher, invece, autore di una generazione successiva, si cimenta con uno dei più grandi casi letterari degli ultimi anni, tornando a riadattare per il grande schermo, dopo un primo tentativo realizzato in Europa, la saga thriller di Stieg Larsson. Il suo Millennium - Uomini che odiano le donne preferisce sacrificare la parte più strettamente investigativa del romanzo, a favore di una suggestiva e meticolosa ricostruzione della Svezia settentrionale, così ambigua e respingente. È il punto forte, ma al tempo stesso la debolezza dell'opera. Arriva dalla Francia, invece, uno dei titoli che, nell'edizione 2011 del Festival di Cannes, aveva maggiormente attirato l'attenzione dei media.
Si tratta di Polisse, di Maiwenn Le Besco, racconto crudo e spietato delle avventure della squadra di protezione dei minori all'interno della polizia parigina. Abituati a un cinema transalpino ultimamente sognante e rocambolesco, stupisce invece la scelta stilistica della giovane regista che, al contrario, punta tutto sull'antispettacolarità del suo cinema.
Ha invece un'atmosfera tranquillizzante e classica come il volto del suo protagonista Paradiso amaro, l'ultima fatica di Alexander Payne. Scegliendo come location del suo film l'arcipelago delle Hawaii, l'autore di Omaha conferma, al tempo stesso, pregi e diffidenze che accompagnano il suo percorso: entrando nelle sue storie si ha come l'impressione di far ritorno in qualche lido sicuro, forse senza nessuna particolare sorpresa piacevole, ma accompagnati dalla certezza che il film scivolerà fino alla fine senza neanche un intoppo. Aiutato poi dalla maschera di George Clooney, perfettamente a suo agio nei ruoli agrodolci, il regista di "Sideways" continua nella sua impresa di raccontare grandi drammi attraverso piccoli eventi.
Non conosce certo limitazioni, dal canto suo, Steven Spielberg: il suo War Horse conferma la sua vocazione alla magniloquenza. L'opera, considerata al momento della sua uscita un episodio minore dell'ormai monumentale filmografia spielberghiana, è invece una sincera riproposizione di uno dei temi centrali dell'opera omnia dell'autore: ancora una volta ci troviamo di fronte all'innocenza e alla purezza dell'adolescenza che fa i conti con gli orrori del mondo e, per sopravvivere, deve trovare dentro sé la forza per atti di eroismo insperato. Insomma, stupisce per la sincerità dell'opera vedere come Spielberg, nel 2012, ancora creda fermamente nelle sue granitiche certezze.
Disturbante, angosciante e mozzafiato è invece la storia raccontata da Lynne Ramsay in ...e ora parliamo di Kevin, anche questo film presentato in concorso a Cannes. Basato sull'interpretazione stupefacente per adesione al personaggio di Tilda Swinton, la pellicola narra di una donna che, a causa di un rapporto con il proprio figlio che definire conflittuale è poco, tende ad annientarsi nel tentativo proprio di comprendere perché il suo ragazzo le sia infine risultato così indecifrabile. Tra incomprensibili cadute di stile e momenti di grande potenza espressiva, il film si lascia comunque ricordare per il coraggio di una messa in scena ellittica che non lascia niente fuori dallo schermo.
Sotto silenzio è poi passato nelle nostre sale il fantascientifico In Time, di Andrew Niccol, già autore di "Gattaca" e sceneggiatore di "The Truman Show". Oltre alla singolare scelta del protagonista, la popstar Justin Timberlake, Niccol si distingue per una originale concezione del mondo che porta avanti con tenacia: quella di una società ormai persa tra i mille rivoli dei problemi quotidiani che portano l'essere umano ad affondare, letteralmente smarrendosi nel proverbiale "bicchier d'acqua". E continua anche il mistero di Steven Soderbergh, ormai prolifico come non mai, capace di sfornare almeno due film all'anno.
Nel 2012 scegliamo di citare Knockout - Resa dei conti, una delle sue più indefinibili esperienze filmiche. Da una parte parrebbe un classico e scontato cedimento al cinema più commerciale, da thriller d'azione quale sembra a una prima, distratta osservazione. Ma poi, una riflessione più attenta impone di ricordare che l'autore statunitense è uno dei più intelligenti rimasticatori di cinema attualmente in attività, capace di rileggere, attualizzandoli all'epoca in cui si gira, tutti i genere che il cinema conosca. E non sfugge alla regola anche questa divertente "fuga dall'impegno".
E per concludere questo mese, contro ogni previsione, includiamo nella guida ragionata anche il nostro Roberto Faenza che, con il suo Un giorno questo dolore ti sarà utile, si lancia in un ambizioso "piccolo romanzo" di formazione Oltreoceano, di sincera e sentita adesione al materiale letterario di partenza, il best seller di Peter Cameron. Pur con tutte le incertezze e le ingenuità solite di un regista molto, forse troppo, emotivo come Faenza, il film funziona e merita una visione.

MARZO
Con un clamoroso ritardo rispetto all'uscita in patria, e nell'indifferenza generale, esce anche da noi 50 e 50, uno dei film più amati della stagione nel circuito indipendente americano. Si tratta del secondo lungometraggio del giovane Jonathan Levine e mette in scena uno script di Will Reiser, largamente autobiografico, sulla scoperta del cancro da parte di un giovane e sul suo tentativo, con l'aiuto delle persone amate, di esorcizzarlo. Pur non risparmiando nulla allo spettatore, la pellicola regala leggerezza e commozione non certo a buon mercato e segnala Joseph Gordon-Levitt, semmai ce ne fosse stato bisogno, come una delle stelle nascenti del cinema contemporaneo. Una bella notizia giunge poi dall'Italia: è tornato Carlo Verdone! Lasciando, finalmente, da parte le sue ambizioni di porsi all'interno di quel filone tra il sentimentale andante e il ritmo da fiction televisiva, l'autore romano torna a far ridere sul serio mettendo in scena una commedia su tre padri separati che tentano di sopravvivere come possono in tempi di crisi.
Tralasciando un finale fin troppo tirato per le lunghe, dove l'ultimo Verdone torna a fare capolino, Posti in piedi in paradiso è comunque una solida farsa dove gli attori tirano fuori il meglio della loro vis comica. Non solo il regista-interprete, dunque, ma anche un insospettabile Pierfrancesco Favino, una svampita Micaela Ramazzotti e, soprattutto, un incontenibile Marco Giallini, che si cala in un personaggio con cui chiaramente fa il verso, contemporaneamente, ai cialtroni di Vittorio Gassman e di Alberto Sordi.
E mentre applaudiamo Verdone, ci stupiamo per un ritorno in grande stile: dopo una serie di episodi non troppo felici della loro filmografia, i fratelli Taviani, con Cesare deve morire, non solo trionfano alla Berlinale portando a casa l'Orso d'oro, ma realizzano, dall'alto della loro veneranda età, uno dei lavori più spericolati e sperimentali di tutta la stagione. A metà fra documentario e finzione, il film mette in scena il dramma tratto da Shakespeare "filtrato" dall'interpretazione dei detenuti di Rebibbia. Una scelta, quella del documentario che riprende la finzione, coraggiosa e degna di massima stima.
Parla, indirettamente, di sessant'anni di storia A Simple Life di Ann Hui, commovente e semplice ritratto di una famiglia cinese attraverso la vita di una governante che, fino all'ultimo discendente, resta fedele ai suoi datori di lavoro. A parte la monumentale interpretazione di Deannie Yip, l'opera è una bellissima lezione di vita.
Molto più politicamente scorretta, ma forse più aderente ai nostri costumi occidentali, è invece il dramma tragicomico vissuto dalla straordinaria Charlize Theron in Young Adult, ultima fatica di Jason Reitman, tornato per l'occasione a lavorare con la sceneggiatrice premio Oscar Diablo Cody. Nella provincia americana più profonda si sgretola il sogno di una vita ideale, di fronte alla disillusione e alle aspettative tradite. Uno dei più bei film targati Hollywood di questo 2012, distribuito in modo criminoso in Italia.
Tornando in Italia, segnaliamo per finire due titoli: L'arrivo di Wang, dei fratelli Manetti, conferma la creatività originale e preziosa dei due registi, pronti con pochi soldi a mettere in scena incubi e allucinazioni sorprendenti. Ma il loro merito è soprattutto un altro: quello di tentare, e quasi sempre riuscire, di tenere viva anche nel Belpaese, la tradizione di una cinematografia di genere che, negli ultimi decenni, era andata invece scomparendo.
Romanzo di una strage, di Marco Tullio Giordana, ripercorre invece, con stile livido e compassato, i frenetici momenti di quella calda Milano che portò prima alla strage di Piazza Fontana e poi alle morti di Pinelli e Calabresi. Con un cast in grande forma, il regista prosegue nel suo meritorio cammino di ricostruzione di questa malconcia Italia, partendo ancora una volta da uno degli episodi più neri.

APRILE
Tarsem Singh, visionario pazzo e spudorato, ha ormai scelto Hollywood in pianta stabile per le sue scorribande audiovisive. E nella primavera di quest'anno si è ripresentato con questa nuova versione di Biancaneve dei fratelli Grimm. E nonostante da un autore così rivoluzionario nella cura dell'immagine ci si aspetti sempre chissà quali innovazioni, stupisce (in positivo) il modo in cui il suo stile barocco e sregolato si sia ben amalgamato alla più classica delle fiabe.
In Italia, intanto, esce I più grandi di tutti, secondo lungometraggio di Carlo Virzì, opera, per la verità di scarsa rilevanza, soprattutto a distanza di mesi dalla sua uscita, ma degna comunque di una menzione per due motivi: per un grande cast, che salva anche le parti di sceneggiatura più improponibili, e per la scelta da parte del meno noto dei due fratelli toscani di cercare una chiave nazional-popolare per raccontare il rock al cinema, terra ancora poco battuta dai nostri autori.
Qualche volta risulta possibile citare in un elenco di film "migliori" anche qualche oggetto puramente ludico, com'è quel Battleship di Peter Berg, uscito sempre ad aprile: un gigantesco adattamento da uno dei più celebri giochi da tavola fatto di ogni possibile trovata per rendere roboante quello che, prima della crisi, avremmo definito un vero e proprio blockbuster movie, nulla probabilmente per cui lanciarsi in lodi sfrenate, ma il classico prodotto di intrattenimento scritto, girato e interpretato con la dovuta professionalità.
Da Berlino, dov'era stato presentato in anteprima, è poi giunto sui nostri schermi il controverso Diaz di Daniele Vicari, ricostruzione (fin troppo) accurata dei fatti che animarono la drammatica notte alla scuola genovese dove forze dell'ordine e manifestanti no global si scontrarono, lontano dalle tensioni di piazza. Una nottata venuta dopo la morte di Carlo Giuliani e di cui Vicari tende a dare un quadro il più possibile veritiero. L'apparente manicheismo è (purtroppo) lo specchio di ciò che realmente accadde, una gigantesca sospensione dei diritti costituzionali a scapito dei più deboli di turno. Vicari, che si è preso anche molte critiche per l'operazione, gira con grande onestà e, soprattutto, rende artisticamente, e non solo eticamente, interessante il suo lavoro grazie a una meticolosa trasformazione di quelle ore insozzate di sangue in un film d'azione a ritmo serrato.
A distanza di non troppe settimane, torna anche sul grande schermo Scorsese, stavolta con il suo documentario George Harrison: Living in the Material World, un monumentale lavoro di ricostruzione sulla vita dell'ex Beatles, basato su materiale inedito e con uno specifico obiettivo: avvicinare una lente d'ingrandimento sui misteri più "interiori" di un grande musicista e della sua carriera a correnti alternate. Scorsese è uno dei più grandi documentaristi viventi perché riesce sempre nell'intento che si prefigge: aiutare lo spettatore a farsi un'idea su ciò che gli viene raccontato.
Gianni Amelio, dopo mille traversie dovute alla sua "contesa" con la casa di produzione de Il primo uomo arriva infine nelle sale italiane fra mille dubbi e attese. L'adattamento dell'omonimo romanzo di Albert Camus risulta, a visione avvenuta, un corpo semiestraneo rispetto alla filmografia del grande regista calabrese. Da una parte si riconferma la sua vocazione a un'immedesimazione con le vicende narrate, ma dall'altro pare mancare (forse volutamente) quell'impronta così marcatamente realista tipica dei suoi capolavori precedenti. Sospeso fra la variazione sul tema e invece una rivoluzionaria inversione di rotta, l'opera si fa comunque ricordare.
Poi, all'improvviso la sorpresa. Con 26 anni di ritardo esce, grazie all'impegno della Lucky Red, Il castello nel cielo, uno dei più amati film d'animazione firmati dal genio Hayao Miyazaki. Qui poche righe parrebbero più che altro oltraggiose per spiegare la grandezza dell'opera, ma basta, all'occasione, rammentare quale stupore può provocare la visione del film sul grande schermo anche dopo tutto questo tempo dalla sua realizzazione, vuoi per l'incredibile perizia tecnica nei disegni animati, vuoi per la straordinaria abilità registica del maestro giapponese, capace di fondere così mirabilmente poesia pura, metafora efficace del mondo moderno e pura azione e divertimento, come si conviene a un grande film di avventura. Laputa, la magica isola sospesa, è tutta in questo prodigioso compromesso.
Uno dei film più attesi dell'anno è The Avengers, la reunion degli eroi della Marvel in un'unica pellicola diretta da Joss Whedon. Un'esplosione sensoriale unica, certo, venata di sana autoironia oltre che di un gusto per l'azione più scoppiettante. In realtà ci si sarebbe attesa un'armonia più funzionante fra tutti i caratteri buttati nella mischia ma, in attesa di eventuali nuovi episodi, il fantasy muscolare e pirotecnico del nuovo millennio trova nel film di Whedon una nuova occasione di rinnovamento.
Era il 2008 quando al Torino Film Festival veniva presentato l'esordio cinematografico del videoartista Steve McQueen. Quattro anni dopo, grazie anche al successo di "Shame", le sale italiane accolgono la sua opera prima, Hunger, straziante e drammatico biopic sulla vita e sulla morte di Bobby Sands, attivista repubblicano nordirlandese, punta dell'iceberg di una protesta carceraria dei prigionieri che chiedevano lo status di detenuti politici. Sands, cui presta il volto e soprattutto il corpo un incredibile Michael Fassbender, si lasciò morire al termine di un estremo sciopero della fame. McQueen sceglie quanto di più diverso dal suo abituale stile visivo per cominciare l'avventura nella settima arte. Lo fa mettendo in scena un dramma sia carcerario che politico, bandendo dalla storia ogni cedimento a una drammatizzazione eccessiva degli eventi. E rende indimenticabile la visione di questa preziosa opera.

MAGGIO
Tra i titoli che più suscitavano curiosità c'è Hunger Games, la trasposizione firmata da Gary Ross del romanzo di Suzanne Collins. In attesa dei prossimi episodi, l'esordio cerca di mettere in scena con fantasia e creatività quel mondo allucinato fatto di spettacolarizzazione del dolore fino alla morte che è alla base del successo del libro. Nei panni della protagonista, poi, troviamo quella Jennifer Lawrence ormai lanciatissima nel mondo delle star hollywoodiane.
Da Berlino, dove si era accreditato come un favorito per l'Orso d'oro poi andato ai Taviani, giunge la pellicola di Ursula Meier, Sister, intensa e "fisica" storia di un ragazzo e della sua conturbante sorella. Complice la suggestiva ambientazione delle Alpi svizzere, il film segue con una macchina da presa ravvicinata le gesta diventate normali di due ragazzi alle prese con la sopravvivenza, in tutti i sensi essa possa essere concepita. E lancia Lea Seydoux come conturbante stella di prima grandezza del nuovo cinema europeo.
Gli appassionati di horror, invece, affollano le sale per vedere Quella casa nel bosco, diretto da Drew Goddard e scritto insieme al sodale Whedon. I due compari, molto bravi non solo nell'arte filologica della rilettura del genere ma anche nell'essere degli abili comunicatori al grande pubblico, presentano una sorta di "nuovo compendio" per il genere, in cui tutte le paure, le fobie, ma anche gli stereotipi e i luoghi comuni degli ultimi vent'anni vengono presi ed elevati a filo conduttore della storia. L'opera, che a livello teorico rappresenta di certo un momento decisivo, nella messa in scena appare invece molto più classica di quanto si potrebbe pensare a una prima distratta visione. E il dazio da pagare ai maestri del passato, in fin dei conti, sembra più evidente del previsto.
Un regista strano è Lasse Hallstrom, svedese ormai trapiantato in America e capace di regalare interpretazioni da Oscar a diverse star di prima grandezza (primo fra tutti, il Michael Caine de "Le regole della casa del sidro"). Stavolta, con Il pescatore di sogni, firma una deliziosa commedia esotica ambientata in Yemen, una tradizionale parabola di riscatto e abbandono dei pregiudizi da parte dell'uomo medio in caduta libera. Nulla di eccezionalmente innovativo, certo, ma è bello ogni tanto guardare dei film che, pur senza alte pretese, portano a termine un racconto lineare e piacevole che tiene compagnia per la bellezza di personaggi e luoghi.
Dopo decine di opere fantascientifiche tutte incentrate sul binomio tensione-azione, lo sci-fi riscopre con Mike Cahill e il suo film d'esordio Another Earth il piacere di una messa in scena più intimista, più raccolta. In questo indecifrabile film, distribuito in Italia con largo ritardo, colpisce la sensibilità del come il mistero di una galassia oscura viene filtrato attraverso i sentimenti e le sensazioni dei protagonisti. Ne viene fuori un'opera gradevole e, a tratti, davvero emozionante.
Ricorda la fantascienza il titolo, identico al romanzo di origine scritto da Don DeLillo, della nuova fatica di David Cronenberg, Cosmopolis. Adattato per lo schermo con una sceneggiatura stesa, come ha confermato il genio canadese, in pochi giorni, il film da un lato si contraddistingue per la stretta aderenza alla trama originaria. E dall'altro conferma la mutazione genetica del cinema cronenberghiano, che prosegue, nonostante tutto, la sua analisi dell'evoluzione umana attraverso una trasformazione del suo cinema. Da carnale e disturbante, nel corso degli anni, l'arte di Cronenberg si è fatta sempre più fredda, compassata, psicologica. Per arrivare, come in questo caso, a un tripudio di parole e ragionamenti ad alta voce. Lo confermiamo ancora una volta: la scelta di cambiare pelle, ma non  sostanza, da parte del regista di "Videodrome", è una delle novità più stimolanti che il cinema ci abbia regalato recentemente.
A Venezia 2010 era transitato in concorso il quarto film di uno dei più originali registi russi in attività, quell'Aleksei Fedorchenko riproposto questa primavera al cinema con il suo straordinario Silent Souls, epopea condensata in soli 75 minuti sul passato e il presente di uno sterminato Paese. Sospeso fra momenti divertiti di inventiva puramente cinematografica e tragici istanti di commozione legati al tema centrale dell'elaborazione del lutto, quest'opera preziosa che parla di anime silenziose si staglia nel panorama del 2012 come una parentesi arrivata da un altro tempo, dove la contemplazione degli spazi sterminati e la riproposizione delle più antiche usanze costituiscono il metodo con cui Fedorchenko porta la Russia in giro per il mondo.
È invece un'Inghilterra molto periferica quella di cui ci parla Joe Cornish nel suo simpaticissimo Attack the Block - Invasione aliena, riproposizione aggiornata a un mondo globalizzato e razzista del solito canovaccio che vede un gruppo di adolescenti, soli e ignorati dal mondo adulto, combattere contro forze aliene carnivore e spietate. A differenza del "cugino" americano "Super 8", il film di Cornish è in realtà molto poco ironico e, al contrario, mette in scena la rabbia degli ultimi, desiderosi di un riscatto.

GIUGNO
L'estate si avvicina e arrivano i recuperi eccellenti, film transitati in diversi festival nell'ultimo anno e conservati dalle case di distribuzione nazionali per periodi della stagione cinematografica meno "rischiosi". Cominciamo con l'elenco. Partiamo da Take Shelter di Jeff Nichols, presentato al Sundance dello scorso anno e poi distribuito da noi oltre dodici mesi dopo. Il film, specchio dei tempi cupi che viviamo, è tutto nelle interpretazioni di Michael Shannon e di Jessica Chastain, che riescono a moderare gli eccessi della scrittura di Nichols in un quadro da fine del mondo dove solo un amore assoluto e totale può costituire la salvezza per essere umani normali alle prese con sfide apparentemente impossibili.
La guerra è dichiarata, seconda fatica di Valerie Donzelli, esce invece dopo essere stato già visto nei confini nazionali al Torino Film Festival 2011. Sinfonia pop per eccellenza, la ballata poliforme della Donzelli è un inno alla vita: partendo dal dramma di una coppia che affronta un male tremendo che colpisce il piccolo figlio, il film diventa un vero e proprio ottovolante di emozioni contrastanti, dove pianti e risate si mescolano in un mix di rara delicatezza.
Dagli Stati Uniti invece arriva il primo blockbuster per l'ombrellone, grazie a quel fenomeno comico che risponde al nome di Sacha Baron Cohen. Il dittatore, diretto dal fidato Larry Charles, è un'esplosione di comicità demenziale di grande classe. Sempre in bilico sul labile confine fra divertimento e volgarità, l'attore-autore americano lascia finalmente da parte le ambizioni per una satira tanto corrosiva quanto irritante e affida le proprie abilità davanti alla macchina da presa a un copione che punta decisamente sulla svolta comica. Per questo, il despota di Baron Cohen, che pure nella sua ingenua antidemocraticità mette alla berlina il sistema politico a stelle e strisce, è soprattutto un personaggio esilarante. Forse, ma è solo un'ipotesi, è proprio questa la commedia più divertente dell'anno.
Come abbiamo già avuto modo di scrivere, uno dei più spericolati e folli sperimentatori che abbiamo in attività in questo momento è il turco Nuri Bilge Ceylan. Il suo C'era una volta in Anatolia, estenuante viaggio nella notte alla ricerca di un cadavere abbandonato, diventa l'occasione per ribadire l'estremismo del regista de "Le tre scimmie". Ancora una volta decidendo di bandire dal suo lavoro le regole canoniche del cinema popolare, Ceylan imbastisce una riflessione di gruppo che nasconde, dietro un soffuso noir "esotico", l'ambizioso obiettivo della ricerca di una definizione alla condizione umana. Che ci sia riuscito o meno, è lo spettatore che deve dirlo. Resta, però, il coraggio di un cinema unico e irripetibile.
I fratelli Manetti, come abbiamo già avuto modo di dire, sono uno dei patrimoni del cinema italiano più preziosi che ci siano. Il motivo è confermato da questa loro seconda scorribanda in pochi mesi. Paura è un horror sadico e iper-violento dove l'arte della costruzione della tensione e la scrittura degli snodi narrativi viene portata a livelli davvero alti. È un peccato che i due registi non vengano notati né dal grande pubblico, né da qualche investitore straniero. Perché il loro modo di concepire il cinema di genere, a metà tra il commerciale e l'artigianale, è davvero notevole.
Un titolo che siamo molto lieti di ricordare è Rock of Ages di Adam Shankman, altra pellicola dimenticata in fretta da pubblico e critica, ma sincero e accorato omaggio a un decennio della musica rock, quello degli anni 80, che simboleggia forse l'ultimo periodo in cui le star del palcoscenico mantenevano un'autenticità e un rapporto diretto con il pubblico che si è poi perso. Il musical di Shankman ha uno scopo ben preciso e la missione gli riesce: portare a compimento un'operazione-nostalgia dai toni non commiserativi, ma goliardici e speranzosi in un futuro migliore.
E sempre restando a parlare di musica al cinema, come non menzionare il bel documentario di Kevin MacDonald su Bob Marley? In 144 minuti Marley mostra tutto: la Giamaica, il reggae, la marijuana e i rasta. Nel prezioso documentario, gigantesco per durata ma non certo per pesantezza nella visione, c'è tutta la vita e, diremmo, il mito dopo la morte di uno dei simboli assoluti del Novecento.
Giugno si chiude con un film controverso: amato da alcuni, stroncato senza pietà da altri. Parliamo de Il cammino per Santiago, ultimo excursus dietro la cinepresa per Emilio Estevez che, dopo i fasti di "Bobby", ci regala una pellicola intima e riflessiva, aiutato dalla classe inimitabile di suo padre Martin Sheen, protagonista assoluto della storia. Nel percorso verso Santiago de Compostela, e negli incontri lungo la strada, c'è la voglia di riscoprire alcuni sani valori dismessi dalla società metropolitana. Tra ironia contagiosa e inaspettate amnesie nella regia, il film si lascia comunque guardare fino a un finale pacifico e conciliatorio.

LUGLIO
Aumenta il caldo, diminuiscono le opere meritevoli di segnalazione. Ma il compito di questa guida è di essere il più completa possibile e quindi, a parere di chi scrive, è impossibile dimenticare il ritorno dell'Uomo Ragno: The Amazing Spider-Man, il primo capitolo di una nuova trilogia, è lontano anni luce dall'eroe di Sam Raimi. Nel film di Marc Webb, semmai, è l'azione che conta, la ricerca di un intrattenimento estremo, mentre nei film interpretati da Tobey Maguire il protagonista aveva una profondità d'animo più in linea con la mente del creatore Stan Lee. Qui, invece, con l'aiuto di un 3D in verità anche confusionario, l'obiettivo è un "utilizzo" strumentale del fumetto Marvel per agevolare la creazione di un gigantesco giocattolo.
Torna nelle sale anche il grande Peter Weir, uno dei registi più sottovalutati del mondo, ingiustamente lasciato ai margini sia delle premiazioni che contano sia dei circuiti festivalieri più importanti. Il suo The Way Back, epopea avventurosa di un gruppo di fuggitivi scappati da un gulag, diventa una parabola filosofica alla ricerca di una presa di coscienza: il desiderio di riconquistare la dignità vince sulla paura della morte. Il tutto attraverso un tragico ed estenuante viaggio lungo la Transiberiana e il deserto di Gobi. E se anche un grande autore come Weir viene distribuito nelle sale con quasi due anni di ritardo, il campanello d'allarme sulla situazione del cinema contemporaneo si fa più rumoroso che mai.
Le nuove leve del cinema italiano registrano un altro esordio folgorante, quello di Alessandro Comodin con L'estate di Giacomo, piccolo gioiello distribuito in piena estate dalla Tucker. Una delicata storia di riscoperta del mondo da parte di un giovane operato all'udito è anche una nuova occasione, da parte di un regista alle prime armi, di mostrare tutto il talento di alcuni autori emergenti nel fotografare in modo fulgido e brillante il paesaggio italiano. Qui, sulle rive del Tagliamento, va in scena un piccolo romanzo di formazione, tra ingresso nel mondo adulto e contatto con il sentimento dell'amore.
Alzi la mano chi ha confidenza con il nome di Baltasar Kormakur, regista e attore islandese, ingaggiato da Hollywood per girare un remake di un suo film. Nasce così Contraband, action movie a metà fra New Orleans e Panama, incentrato sulla storia a incastro dell'ex contrabbandiere Chris e della sua famiglia in pericolo. Fra colpi di scena, rutilanti sequenze adrenaliniche e tensione crescente, il film è un interessante prodotto d'intrattenimento che non rinuncia a mantenere la qualità della messa in scena costantemente sopra il livello di guardia. Per questo, nel pieno dell'afa estiva, le gesta di Mark Whalberg potevano essere un'ottima alternativa al solleone.

AGOSTO
Ormai due anni fa, in una giornata della Mostra veneziana dedicata a John Woo, venne presentata questa sua ultima fatica di ritorno nella patria Cina. Dopo una parentesi hollywoodiana, destinata fra l'altro a riaprirsi a breve, il maestro dell'hard boiled made in Hong Kong torna a casa e lo fa con La congiura della pietra nera, diretto a quattro mani con il giovane Su Chao-pin. E, sorpresa per tutti, Woo non riesuma i suoi gangster esplosivi anni 80-90, ma regala un "wuxia" divertente e scoppiettante, tanto pieno di inventiva quanto di buchi logici. Ma visti gli intenti di partenza, resta comunque una visione piacevole da ricordare.
Supportato da Simon West, Sylvester Stallone inaugura, a ridosso del Ferragosto, la stagione di nuove uscire 2012-13 con I mercenari 2, secondo capitolo dell'assurdo e grottesco film d'azione che lo stesso "Rambo" aveva diretto. Aumentando la massa muscolare moltiplicata per il numero di duri che intervengono in scena, crescendo esponenzialmente il quantitativo di morti ammazzati lasciati lungo il sentiero, questa nuova avventura esalta le doti autoironiche degli interpreti. Lasciando da parte realismo, plausibilità e qualsiasi altro criterio oggettivo nella scrittura dello script, Stallone e soci si danno alla pazza gioia e danno il via a una caricatura di se stessi colma di battute cult e sparatorie funamboliche. Per combattere il caldo torrido con il fresco di una sala cinematografica, probabilmente, non ci poteva essere nulla di meglio.
O forse sì? Forse servirebbe un Christopher Nolan originale. Un nuovo, mozzafiato appuntamento con il regista britannico che ormai si è appropriato della definizione "blockbuster d'autore". Ed ecco che, come annunciato, la saga del cavaliere oscuro trova compimento con Il cavaliere oscuro - Il ritorno, terzo capitolo del reboot nolaniano sull'eroe mascherato di Gotham City. Non tutto, nella chiusura della saga, funziona per il meglio, alcune questioni restano irrisolte, altri punti interrogativi trovano addirittura nuovi dubbi invece che definitive soluzioni e, forse, anche la messa in scena dei caratteri non è accurata come nell'episodio precedente. Ma Nolan ha altro per la testa: vuole stravolgere Gotham ancora una volta, sorprendere tutti per l'abilità di fotografare la medesima ambientazione con tre stili completamente diversi. Dopo il nero di "Batman Begins", il blu profondo della sfida Batman-Joker, è il turno del bianco accecante, quello della neve fuori dai palazzi del potere e quello della luce accecante che colpisce tutti, buoni e cattivi che tentano di uscire dalle tenebre.
È anche La faida, a suo modo, un romanzo di formazione per immagini. E anche stavolta, nonostante la nazionalità statunitense del regista Joshua Marston, è l'Europa a ispirare questo tipo di racconto adolescenziale. Presentato a Berlino nel 2011, il film è un violento e coinvolgente dramma familiare che si fa strada fra le rovine di un Paese in disarmo come l'Albania, dove una legge tradizionale costringe i figli maschi a non poter abbandonare la casa paterna e dove una spirale di vendetta innescata da un omicidio si frappone tra due ragazzi che tentano la loro personale rincorsa alla felicità.
Ancora adolescenza, ma stavolta declinata nel suo ambiente scolastico, è protagonista di Monsieur Lazhar, il film canadese che in patria è stato amato almeno quanto "Le invasioni barbariche". Il regista, nonché sceneggiatore, Philippe Falardeau si impegna per sovrapporre due piani di osservazione, che si sovrappongono una volta che la macchina da presa varca l'ingresso in aula. Il dolore insopprimibile dell'insegnate algerino chiamato a sostituire una docente morta tragicamente si mischia all'elaborazione del lutto della scolaresca. E il gioco di rimbalzo fra la cognizione del dolore da parte di un adulto e da parte di un gruppo di giovani aumenta l'effetto di spaesamento davanti a un'opera ambiziosa e indefinibile.

SETTEMBRE
Quante volte siamo stati abituati a guardare al mese post-estate come uno dei più ricchi di tutto l'anno solare? Il 2012, che come abbiamo avuto modo di premettere è stato un anno davvero singolare, ci stupisce anche per questo: parallelamente alla prima Mostra di Venezia targata Barbera, i titoli distribuiti nelle sale e meritevoli di una menzione in questa sede sono davvero pochi. A partire da Ribelle - The Brave di Mark Andrews e Brenda Chapman, ultimogenito della Pixar ambientato in una leggendaria e ipotetica Scozia. Anche la casa fondata dal genio di John Lasseter si confronta con il percorso della crescita e mette in scena una divertente avventura di una piccola principessa impegnata a rifuggire dall'autorità materna. L'estetica Pixar è sempre affascinante, le sceneggiature sono accoglienti come magioni familiari, ma qualcosa comincia a scricchiolare da un punta di vista strettamente creativo. È come se il sentiero in costante ascesa si sia arrestato a favore di realizzazioni meno rischiose e più redditizie.
Chi non ha paura di rischiare e cadere fragorosamente è Marco Bellocchio che, dopo un passaggio al Lido pieno di amarezza per la totale mancanza di riconoscimenti, porta nelle sale Bella addormentata, racconto a più voci sul dramma dell'eutanasia di Eluana Englaro. Attorno alla parte finale della vita della giovane che ha tenuto tutta l'Italia davanti alla televisione, il grande cineasta piacentino imbastisce una serie di tragedie familiari sul nodo centrale della concezione della vita e del rapporto con la religione. Su questi due pilastri, e come sempre nel suo cinema di onestà invidiabile, Bellocchio costruisce un film che dissemina dubbi e interrogativi, che da un punto di partenza totalmente laico rimanda allo spettatore il compito di dirimere le questioni più spinose.
E il mese si chiude con l'attesa distribuzione di Reality di Matteo Garrone che, al contrario di Bellocchio, ha avuto ben maggiore fortuna all'ultimo Festival di Cannes dove, in barba a ogni pronostico, ha portato nuovamente a casa il Gran premio della giuria. La storia è risaputa: il personaggio interpretato da Aniello Arena vuole entrare nella casa del Grande Fratello e per inseguire una realtà televisiva si allontana sempre più dalla realtà quotidiana. Garrone si diverte a spegnere la luce sulla testa di Luciano con gradualità, come se l'incubo pian piano sostituisse un sogno. Nel fare questo, il regista romano si compiace forse troppo, si prende molto tempo per alcuni virtuosismi formali che non aggiungono nulla all'opera, ma sorprende positivamente il suo cambio di registro, il suo talento nel virare improvvisamente da uno stile a un altro, da film a film.

OTTOBRE
Seth MacFarlane, il creatore dei Griffin, sognava di portare da tempo sullo schermo una storia tutta sua, magari proprio girando un lungometraggio d'animazione con protagonista una delle famiglie più irriverenti della storia televisiva. Invece, dopo tutto, ha scritto un racconto per attori in carne e ossa e si è divertiti a ibridarlo con il tocco fantasy della spalla di Mark Whalberg: l'orsacchiotto Ted, dopo tutto, non è altro che l'espediente con cui questo autore giocherellone non rinuncia neanche al cinema al gusto per un tocco di irrazionale. La commedia, che risulta ripulita da troppi eccessi e volgarità, è comunque una visione piacevole e per nulla scontata.
E ancor meno scontata è un'opera italiana, presentata in estate a Locarno. Parliamo di Padroni di casa, la nuova fatica dietro la cinepresa di Edoardo Gabbriellini, l'ex Ovosodo di Virzì che, in cabina di regia, tira fuori un estro e una cattiveria impensabili. Il suo noir, che rasenta i toni pulp, è ambientato nell'ameno Appennino toscoemiliano e, tra incomprensioni linguistiche e di comportamento, inscena la tensione e, a tratti, l'odio che si respira nel nostro Paese. Alla faccia della convivenza pacifica.
Ottobre è, tradizionalmente, un mese molto ricco per le novità al cinema. Ma quest'anno pare che la distribuzione abbia voluto sorprenderci anche con il recupero, con oltre un anno di ritardo, di Killer Joe, la commedia nera, il noir, il pulp movie, il thriller, insomma, l'indefinibile ritorno sul grande schermo di William Friedkin. Partendo da un lavoro teatrale del premio Pulitzer Tracy Letts, il regista de "L'esorcista" si diverte a ironizzare pesante sulla famiglia americana e su un ipotetico ceto medio in verità ormai dissolto. E lo fa con poche ma solide soluzioni: il suo film, che corre costantemente sul filo sottile che separa il kitsch dal cattivo gusto, è una straordinaria giostra di imprevisti, impreziosita dall'interpretazione incontenibile di Matthew McCounaughey.
In un tripudio di stelle hollywoodiane ci ritroviamo di fronte alla piacevole sorpresa di una nuova, delicata commedia di David Frenkel, recentemente affermatosi come specialista di quell'incrocio tra il registro brillante e quello lievemente drammatico. Con Il matrimonio che vorrei, l'autore si mette sapientemente da parte, lasciando ai due mostri sacri Tommy Lee Jones e Meryl Streep il compito di condurre in porto un film strettamente legato alla bravura dei due attori.
Non si mette altrettanto all'angolo, invece, Andrew Dominik che, dopo lo strepitoso "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford", torna a dirigere Brad Pitt, qui anche produttore, nell'action thriller Cogan - Killing Them Softly. Fortemente a rischio autocompiacimento, il giovane regista americano sfodera tutta la sua abilità e tutto il suo amore per i virtuosismi di macchina per mettere in piedi una sofisticata e grottesca storia di delitto e castigo.
In Italia, invece, Silvio Soldini continua a dipingere con mano ferma e leggera lo strano destino che porta le persone a destreggiarsi tra i problemi della vita quotidiana. In realtà lo fa da anni e, a nostro parere, continua ad essere fin troppo sottovalutato. Ma l'intelligenza delle sue sceneggiature, che costringono gli attori a recitare sempre sotto le righe per "raccontare" più che "interpretare" dei personaggi, si riconferma quest'anno con Il comandante e la cicogna, film grazie al quale arriva a collaborare con il regista milanese l'attore del mondo, ovvero Valerio Mastandrea.
Ma ottobre è anche il mese della Palma d'oro di Cannes, il film che sulla Croisette ha messo tutti d'accordo. Amour di Michael Haneke, oltre che essere una straziante storia della fine di un amore pluridecennale, è anche un colpo al cuore per tutti coloro che sono abituati al cinema del cineasta austriaco, detrattori e sostenitori. Aiutato da una coppia di attori, simbolo del cinema stesso, il regista bandisce dal suo dramma domestico i tic e i vezzi del suo modo di concepire la settima arte. Anche qui, è vero, non nasconde o censura nulla agli occhi dello spettatore, ma stavolta cala sulla vicenda un gesto di inaspettata pietà che, conoscendo invece il violento sadismo di Haneke, risulta ancora più emozionante se si pensa che capita proprio quando il regista ha deciso di trattare un tema, quello della vecchiaia, così intimo e universale.
Ironia della sorte: mentre Haneke vinceva la Palma d'oro con la parabola sulla fine della vita, Bernardo Bertolucci il Grande presentava in una sezione collaterale il suo nuovo Io e te, adattamento cinematografico di un racconto di Niccolò Ammaniti, tutto incentrato sullo scontro/incontro di un fratello e una sorella in una cantina di un palazzo del centro di Roma. Le due anime di Bertolucci si incontrano ed esplodono in questo sorprendente gioiello. Da una parte la sua incomparabile maestria, già messa in mostra in "Ultimo tango a Parigi", nel gestire con eleganza gli spazi interni, angusti di un appartamento: amplificata dalla costrizione fisica, l'emotività delle sue storie riesce a raggiungere puntualmente momenti altissimi. E poi, prosegue il viaggio del regista nei misteriosi sentieri dell'adolescenza, ancora una volta riscoperti qui come nei suoi ultimi lavori. Proprio come in "Io ballo da sola" e "The Dreamers" i giovani vengono fotografati in quel momento di "presa di coscienza", in cui il loro lato virginale cede il passo una consapevolezza dell'età adulta. Il tutto senza dimenticare quel tocco di romanticismo sfrenato che rende così inconfondibili le opere di Bertolucci.
Massimiliano Bruno è invece un guascone che si diverte con i disastri dell'Italia contemporanea. Ma se nel suo film precedente si prendeva gioco, prima di tutto, di quella borghesia romana che doveva far fronte a un repentino abbassamento del proprio tenore di vita, con Viva l'Italia, titolo quanto mai ironico, il giovane regista costruisce un affresco di tutto il marcio della Penisola. Con l'espediente di una famiglia allo sbando, e regalando qua e là momenti di vera commedia, Bruno in realtà sorride amaro sugli incorreggibili difetti del popolo italiano.
Il nuovo James Bond ha messo praticamente tutti d'accordo. Affidato a un regista che, al suo debutto al cinema, è già stato capace di vincere un Oscar, quel Sam Mendes di "American Beauty", Skyfall raggiunge vette di spettacolarità nelle scene d'azione mai toccate dai suoi predecessori. E a questo si aggiunge anche un originale nuovo modo di mettere in scena i personaggi della saga, più "tagliati", più descritti anche nelle loro emozioni più segrete. Ed è questo, forse, che rende l'ultima avventura dell'agente segreto più famoso del Regno Unito così nuova anche per gli affezionati di più lunga data.
Ricorda forse in modo fin troppo smaccato certi suoi antenati, ma non nascondiamo una certa, piacevole sensazione nel ricordare la visione di Un'estate da giganti di Bouli Lanners, teen movie tutto giocato sulla tradizionale chiave di lettura del viaggio o dell'avventura come metafora della crescita e del passaggio all'età adulta. Ancora una volta, proprio come nel memorabile "Stand By Me" di Rob Reiner, i ragazzini si mettono in marcia in un'estate da ricordare e i torni virano spesso dal comico al commovente.
Torna a ferire lo spettatore inerme anche Cristian Mungiu, il nuovo prodigio del cinema romeno già regista di quel "4 mesi, 3 settimane, 2 giorni" capace di conquistare una Palma d'oro. E stavolta, con Oltre le colline, oltre a conquistare il premio per la sceneggiatura,  al suo secondo lungometraggio regala alle sue protagoniste il riconoscimento al Festival per l'interpretazione femminile. E lo fa con un'opera che mette in discussione non solo il rapporto dell'uomo con la fede, ma anche il concetto stesso di fede come aiuto per un'esistenza migliore. La comunità religiosa messa in scena dà al suo autore l'occasione per una rappresentazione visiva che risulta come un vero pugno nello stomaco per lo spettatore. I detrattori di Mungiu non esulteranno certo, ma il suo cinema così violento ed espressivo risulta ancora ora più necessario che in passato.

NOVEMBRE
Una buona notizia arriva dal Giappone. Goro Miyazaki, il figlio del grande Hayao, forse, ha trovato la sua strada. Non sappiamo se lo studio Ghibli sia riuscito a rintracciare un degno erede del genio de "Il castello nel cielo", ma di sicuro con La collina dei papaveri suo figlio dimostra di avere una dimestichezza con la realtà maggiore che con il sogno. La sua storia d'amore ambientata nella Tokyo delle Olimpiadi, a cavallo fra tradizione e progresso, è un nostalgico e malinconico ritratto delle due anime del Sol Levante. Da una parte una cultura che non vuole farsi da parte per aprire la strada al futuro, dall'altro una comunità straordinariamente votata all'innovazione e al cambiamento. Per raccontare tutto ciò, la precisione e la meticolosità dell'animazione Ghibli sono dopo tutto gli strumenti migliori.
Fra melodramma senza limiti e un cinema sanamente trash si fa largo, con una distribuzione inconcepibile di pochissime sale, l'opera che piacque tanto al Tarantino presidente di giuria veneziana, Ballata dell'odio e dell'amore di Alex de la Iglesia, lo spagnolo specialista in commedie nere qui passato invece a un dramma scanzonato grondante sangue ai tempi della guerra civile spagnola. L'ambizione vola alta: attraverso la sconclusionata vicenda di due pagliacci di un circo reclutati a combattere, il pazzo de la Iglesia si lancia in una messa in scena debordante ed estrema dove violenza e comicità si intrecciano con risultati altalenanti. Ma, nonostante le bordate arrivatele da molta critica, l'opera è comunque un'interessante e toccante tentativo di fare del cinema che non abbia paura di salire così in alto da rischiare dei tonfi fragorosi.
Va invece più sul sicuro Ben Affleck e il suo nuovo lavoro da regista. Forse protagonista ai prossimi Oscar, Argo segue una tradizione solida della Hollywood anni 70: attraverso un cinema di genere congegnato come sistema ad alta precisione, gli autori americani possono ancora raccontare la loro versione della nascita di un Paese moderno. Scegliendo il caso dei diplomatici sequestrati a Teheran, Affleck sfodera una capacità di tenere viva la tensione narrativa per tutto il tempo, unendo l'impegno di un racconto storico con il divertimento per una pellicola che si può leggere anche come appassionante spy story.
Un nome da tenere d'occhio è sicuramente quello di Martin McDonagh, sceneggiatore e regista britannico che, aiutato da un cast stellare, allestisce una sontuosa commedia nera, dove il gusto per la battuta e per l'effetto sorpresa prende il sopravvento fin dai primi minuti. 7 psicopatici, infatti, è un'opera arguta e intelligente, basata sul ragionamento che McDonagh fa su ciò che al cinema è consentito o meno, su ciò che può considerarsi politicamente corretto o scorretto. E arricchendo la storia con un racconto corale a più voci, si diverte a interagire con lo spettatore in una serie di divertenti momenti "cult" riletti e stravolti per l'occasione.
Era difficile, ne siamo convinti, riuscire a trasformare in un film il bellissimo romanzo di Silvia Avallone, ma il documentarista Stefano Mordini riesce nell'intento e presenta una versione cinematografica di Acciaio rispettosa dell'anima dei protagonisti. D'altronde, raccontare un legame d'amicizia così forte da confondersi con l'amore metterebbe a dura prova anche registi ben più esperti. Aiuta, certo, a inscenare il dramma un'ambientazione suggestiva come una Toscana fatta di fabbriche che guarda all'orizzonte, rappresentato da un sogno di fuga che le due ragazze accarezzano da lontano.
Rama Burshtein da Israele presenta a Venezia La sposa promessa, che porta a casa la Coppa Volpi per la miglior attrice. Il film ha tutti i difetti di un cinema mediorientale che cerca di farsi capire al pubblico e alla critica occidentali, finendo, così, per banalizzare e omologare fin troppo le proprie tematiche. Ma questi intoppi vengono comunque riscattata dalla sapiente abilità di messa in scena della regista che, nel narrare il dramma di persone strappate alla felicità da un avverso destino, non le descrive in conflitto con le regole e le limitazioni della propria comunità, ma, più pacatamente, ne cerca di raccontare le azioni per tentare di conviverci. E questo ci sembra un pregio che va oltre i semplici meriti artistici.
E inseriamo, in chiusura di questo novembre altalenante, e contro ogni previsione, anche il nuovo Dario Argento, Dracula 3D, pazza ma esaltante riduzione del mito creato da Bram Stoker. Liberandosi da ogni necessità filologica e lasciandosi andare al gusto per la rappresentazione del gotico, il maestro (o ex?) del brivido italiano si lancia a rotta di collo in un film dalla sceneggiatura praticamente nulla, azzerando qualsiasi esigenza logica e si gusta solo il lato più visivamente fantasmagorico del conte-vampiro. Fra nudi femminili in abbondanza ed effetti speciali ridondanti e tragicomici, il festival dell'horror casereccio trova una sublimazione nelle trovate originali dell'autore di "Profondo rosso".

DICEMBRE
A Cannes era passato indolore, senza colpo ferire. Ma il nuovo film di Wes Anderson è uno straordinario romanzo d'avventura: Moonrise Kingdom ha il pregio della consuetudine. Ritrovare il cinema di Anderson è come tornare in una casa di vacanza dove si è passato dei bellissimi momenti e dove tutto sa di familiare. Nei suoi movimenti di macchina, nei suoi dialoghi tra il grottesco e il surreale, nelle sue storie così iperboliche ma anche così reali si nasconde la chiave di una vita parallela, che sembra autentica  (o almeno vorremmo lo fosse) e invece è possibile solo nei film, nei suoi film.
E mentre Anderson fantastica sul migliore dei mondi possibili, la premiata ditta Dayton-Faris (quelli, per intenderci, di "Little Miss Sunshine") cerca di portare l'immaginazione al livello del quotidiano. In Ruby Sparks, usando il ritornello del personaggio immaginario che "fa visita" al mondo vero, i due autori in realtà si limitano a un lavoro di routine. È infatti nei duetti tra i due protagonisti che si nasconde la forza del film, in una commedia sentimentale che, dietro troppi minuti di normalità, regala ogni tanto qualche inquadratura di sano e toccante romanticismo.
Non si fa certo condizionare dalla lunghezza dell'opera Peter Jackson, il più magico dei giocolieri in circolazione. L'attesa per chi lo ama era arrivata a farsi insostenibile, specie dopo l'annuncio del nuovo progetto. Ma la realizzazione de Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato, purtroppo, delude per quanto concerne il mancato coinvolgimento di quello spirito fiabesco che permeava il romanzo di Tolkien. Sembra, piuttosto, una sorta di recupero di quello stile, quei ritmi e quelle movenze che avevamo già visto ne "Il signore degli anelli". Il film si salva, indipendentemente da un 3D in effetti troppo confuso, per l'ineguagliata capacità del talento neozelandese di dare un senso a ogni sequenza di azione, ma ci auguriamo che, in vista dei prossimi appuntamenti di questa nuova trilogia, Jackson sappia farsi interprete di uno spirito più intimo legato al libro.
Una gradita sorpresa ce l'hanno fatta Giulio Manfredonia e Antonio Albanese. Il primo confermandosi regista capace di mettersi sì al servizio di star comiche di prima grandezza senza rinunciare a una personalità matura nelle scelte estetiche di messa in scena, il secondo, facendosi in tre in Tutto tutto niente niente, tira fuori una prestazione attoriale clamorosa al servizio di un teatro dell'assurdo dove i mali dell'Italia e della sua politica entrano in un circo colorato e kitsch, quasi come se si fosse in un'opera surrealista. E in questo modo i due segnano un deciso passo avanti rispetto al precedente "Qualunquemente".
Annunciato dai pubblicitari come una sorta di nuovo "Avatar", Vita di Pi di Ang Lee è una gioia per gli occhi. A parte l'uso del 3D, comunque molto più azzeccato e calzante di altre pellicole di quest'anno, l'opera del regista de "La tigre e il dragone" è un tripudio di colori, accostamenti audaci e provocazioni all'occhio dello spettatore. Il livello di coinvolgimento estetico e formale raggiunge picchi davvero notevoli e pone il film, sul piano dell'uso degli accorgimenti tecnici, su un ideale podio del 2012. Quello che, in parte, viene a mancare è una coerenza dal punto di vista narrativo. Lee, preso com'è da un armamentario sontuoso di effetti speciali visivi e sonori, affastella insieme una sterminata serie di metafore e tematiche soltanto accennate. Certo, il film, nel buio e nella comodità di una bella sala, si fa sicuramente apprezzare.
E siamo lieti di aver dato una possibilità di stupirci a Susanne Bier, la regista danese troppo spesso accusata di fare un cinema strappalacrime indirizzato a un grande pubblico popolare e, per questo, tacciata di imbrogliare giurie e premiazioni con una sua solo apparente arte autoriale. La realtà è che, nel fondere obiettivi alti e registri bassi, la Bier è molto brava e in Love Is All You Need costruisce un clima di tensione emotiva crescente, alternando sapientemente momenti di pura commedia a momenti di struggente dramma. Stavolta, avvalendosi anche della simpatia di una star come Pierce Brosnan, lo fa con il tocco delicato e compassionevole che ci ha ricordato alcune scorribande sentimentali di Jonathan Demme.
L'ultimo film di questa parziale rassegna è anche l'ultimo uscito in questi dodici mesi: La bottega dei suicidi di Patrice Leconte segna il debutto del francese nell'animazione, con una controversa storia di ottimismo e fascinazione per la morte. In una città dove la gente triste ha un luogo cui rivolgersi per farla finita, l'arrivo di un nuovo nati cambia l'approccio alla vita dei protagonisti. E così, fra citazionismo colto e umorismo nero il cartoon risulta infine un raffinato elogio dell'ottimismo ma anche un malinconico ritratto della difficoltà di "andare avanti". Peccato che i censori italiani non abbiano capito l'intento di Leconte e abbiano tentato, assurdamente, di vietare il film ai minori di diciotto anni. Ma davanti a una sollevazione popolare, anche l'ultimo divieto inspiegabile dell'anno è caduto miseramente.





Addio al 2012, film dopo film