Molti lo scambieranno solamente per un film "sportivo", una pellicola sul baseball che arriva dagli Usa, di fatto irricevibile da qualsiasi altro pubblico al di fuori della patria. Non è così. A provarlo basterebbe la sequenza della partita decisiva, che qui è spezzata in un anti climax, fugace apparizione di ombre, osservata da un costernato Brad Pitt all'interno degli spogliatoi. "Moneyball" è un'opera speculare e gemella al "
The Social Network" di Fincher, non solo perché firmata da uno degli sceneggiatori (Aaron Sorkin) di quel film, ma poiché ne prosegue la disamina, complessa e pessimista, sulle tante sfaccettature del Sogno americano, sul progresso e l'avanzare del capitalismo. "Come si fa a non essere romantici con il baseball?" si chiede uno dei protagonisti del film. Eppure la pellicola di Bennet Miller (regista dell'ottimo "
Truman Capote - A Sangue Freddo") pare interrogarsi su un presente in cui il romanticismo e i sentimenti hanno abbandonato lo sport così come ogni altro ambito dell'agire umano.
"L'arte di vincere" dice il titolo italiano, ma forse sarebbe più corretto "La scienza di vincere", perché è proprio così che il general manager Billy Beane-Brad Pitt (ottimo), aiutato dallo scaltro analista Peter Brand-Jonah Hill (sorprendente in un ruolo sommesso e impacciato) cerca di mettere in piedi la sua squadra "perfetta". Con l'ausilio di un software per computer che calcola la percentuale di basi raggiunte da tutti i giocatori della Major League, Beane riesce a massimizzare le ristrettezze del budget della propria squadra, scandalosamente inferiore a quello di altri team, utilizzando giocatori aprioristicamente scartati e sottovalutati da altri per deficit fisici o comportamentali. E questo nonostante opposizioni e sberleffi di colleghi e amici. "Dobbiamo comprare vittorie, non giocatori" gli consiglia il giovane statista, e difatti Beane ha l'intuizione giusta, comprende che il gioco può essere frutto di un calcolo, di una previsione matematica. Nell'agire del GM degli Oakland's Athletics si nascondono i germi di un nuovo modo di intendere lo sport e il futuro, così come in quello di Zuckerberg e i suoi amici nerd, forse inavvertitamente e involontariamente, si profilava una nuova concezione del capitalismo globale. "Adattarsi o morire", come sentenzia Beane ad un certo punto. E le altre squadre hanno seguito il suo esempio a ruota.
Il film di Miller sfugge al contempo ai classici meccanismi del biopic, concentrandosi pochissimo sul lato umano e "privato" dei suoi protagonisti. Beane come il suo aiutante Brand sembrano vivere solo per il loro lavoro, costantemente impegnati sul campo da gioco o in angusti uffici trattando la compravendita di nuovi giocatori con altre squadre. Non ci è dato sapere molto sulla loro vita o il loro passato. Beane ha un divorzio alle spalle e una figlia che vede qualche volta, ma il suo volto rassegnato e i suoi occhi esplicano più di tante immagini. "Moneyball" è un racconto di formazione adulto e privo di sensazionalismi, in cui si impara a convivere con sé stessi e con il fallimento. Il fallimento nei propri affetti, nella propria carriera da battitore, il fallimento nel vedere la propria squadra perdere poco dopo aver assaporato il gusto della vittoria. "Sei un perdente papà" canta la figlia a Billy nel finale. Ma noi, come il protagonista, siamo consapevoli che la Storia e il presente, si sono formati anche grazie alle intuizioni di "perdenti" come Beane o nerd antipatici come Zuckerberg.
Proprio perché esigente e anti spettacolare "L'arte di vincere" potrebbe non incontrare né i favori del pubblico né quelli dell'Academy (è candidato a sei Oscar importanti), ma è una pellicola di rigore classico (bellissima anche la fotografia di Wally Pfister e le musiche intimiste di Mychael Danna, su cui svetta il brano "The Mighty Rio Grande" della band post rock
This Will Destroy You) che cresce sottopelle e resta.