Del presente in senso stretto non si può parlare che è già passato.
Detto in maniera più brutale, il presente è soltanto apparenza.
L'identità di una persona, le sue aspettative, le ipotesi sul futuro, compreso il tempo che verrà dopo la morte, attingono dall'esperienza, dalle sue origini più profonde.
Senza conoscere le sue origini, l'essere umano non può fare a meno di perdersi. La verità sta nel passato e il futuro è una strada che ci ricongiunge ad essa.
"Silent Souls" si apre con l'inquadratura di un uomo, di spalle, che pedala in mezzo al bosco diretto verso casa, una gabbia con due uccellini ("zigoli" è la traduzione di "Ovsyanki", titolo originale del film) fissata sul portapacchi della bici.
Poi una soggettiva ci pone di fronte la strada che ha appena percorso, come se gli occhi di quegli uccelli ci offrissero la possibilità di assistere al passato, nel momento stesso in cui l'uomo, e noi insieme a lui, procediamo nella direzione opposta.
Senza sapere né quando né perché, Aist Vsevolodovich (Igor Sergeev), ha cominciato a chiedersi da dove viene, a ricercare nelle origini del suo popolo (i Merja, un'antica tribù ugro-finnica), il significato della sua esistenza.
"Se la tua anima soffre, scrivi delle cose che vedi intorno a te."
Seguendo il consiglio ereditato da suo padre, Aist scrive le sue memorie, raccoglie parole, nomi, frammenti di canzoni, ricompone il suo paese (Neya) in un collage di foto scattate come a voler sottrarre quei luoghi dall'oblio del tempo.
Quando il suo amico Miron Alekseyevich (Yuriy Tsurilo), gli chiede di accompagnarlo lontano dal paese, a celebrare le esequie di sua moglie, Aist pone come unica condizione di portare con loro i suoi zigoli.
Un lungo piano sequenza ci mostra Miron teneramente occupato nel lavare il corpo della moglie, mentre Aist prepara delle treccine colorate con cui ornare i peli pubici della donna, un'usanza Merja che le damigelle svolgono allo stesso modo con la sposa il giorno del matrimonio.
Poi il viaggio ha inizio, con una brusca anticipazione: "Stavamo lasciando la nostra amata Neya. Non sapevamo che fosse per sempre". Il viaggio che racchiude il senso stesso del film: andare incontro al proprio destino, come unico modo di vivere il presente, nel suo continuo divenire.
I due uomini rivelano le proprie solitudini, l'amore di cui hanno bisogno, che è andato perduto con la morte di Tanya. Si scopre che entrambi hanno amato la stessa donna. I loro sguardi acquistano ulteriori sfumature e anche il rituale precedente è rivissuto nella memoria dello spettatore con una diversa consapevolezza.
Come fosse posizionata sul sedile posteriore, dove la salma di Tanya giace avvolta in una coperta, la camera diventa il punto di vista dell'istanza narrante, ma anche l'occhio di Tanya, il passato che segue i due uomini nel loro percorso.
Miron si lascia andare a intime confessioni. Aist si abbandona al ricordo di suo padre, il poeta del paese.
Un cinguettio persistente anima l'abitacolo e contrasta con i paesaggi desolati, come un desiderio di libertà, di liberazione.
Giunti nei pressi di Gorbatov, sulle sponde del fiume Oka, dove Miron e Tanya hanno trascorso la luna di miele, ha inizio la seconda parte del rito funebre. L'uso della soggettiva - e della "semi-soggettiva" - è molto marcato nella scena (di quasi dieci minuti) in cui i due uomini preparano la cremazione di Tanya e successivamente Miron getta le ceneri della moglie - e la fede - nel lago. Sullo sfondo un silenzio mai interrotto dalle parole, l'alternarsi del punto di vista dei protagonisti a quello del "narratore" crea una sorta di scambio emotivo a cui lo spettatore non può sottrarsi.
Non c'è nessuna rivalità fra i due uomini, soltanto rispetto reciproco e condivisione del dolore.
Il rito è compiuto, Miron ha donato a sua moglie l'immortalità.
Anche Aist ha potute dire addio alla sua amata, come da ragazzo già aveva fatto con la madre e la sorella appena nata.
Ma il viaggio non è finito.
Tornando verso casa i due si perdono e giungono a Molochai ("una città triste e dolce, per noi, come Parigi per gli europei"), dove passano la notte con due prostitute, "perché il corpo vivo di una donna è come un fiume che trascina via il dolore" e privarsene è solo una conseguenza dell'istituzione del peccato.
I due uomini sono ormai vicini a casa, la tristezza li avvolge ancora, ma senza più soffocarli, si respira addirittura una sorta di euforia.
Attraversano il ponte sul Volga, il grande fiume Merjan.
Un paio di primissimi piani sugli zigoli, diventati stranamente silenziosi, troppo silenziosi.
Accade tutto in pochi attimi. La gabbia aperta, i due uomini finalmente liberi di ricongiungersi al proprio passato.
Dopo aver ricevuto nel 2005 il premio come miglior documentario nella sezione "Orizzonti", per il "mokumentary" tanto discusso "First On The Moon", nel 2010 Aleksei Fedorchenko è tornato in concorso al Festival di Venezia con "Silent Souls".
La meravigliosa fotografia di Mikhail Krichman (vincitore del premio Osella per il miglior contributo tecnico alla fotografia) rimanda immediatamente a un altro capolavoro, "Il ritorno" di Andrei Zviagintsev, Leone d'Oro nel 2003. Alcune bellissime scene restano impresse per la loro forza evocativa: il flashback della sposa "senza volto", con la veste alzata, che permette alle damigelle di ornarla; le ombre di Aist ragazzo e suo padre Vesa che si allungano sul Neya ghiacciato, lo slittino che trasporta la macchina da scrivere, la splendida sequenza di immagini che descrivono la città di Molochai.
Come i più grandi scrittori e registi, Fedorchenko è stato capace, attraverso una storia semplice e particolare, di accedere all'universalità, stimolando nello spettatore sensazioni e pensieri che accomunano tutti gli esseri umani. Riuscendo a infondere nel racconto filmico - cosa molto rara - un linguaggio poetico ed equilibrato nel rapporto fra parole e immagini.
Un plauso al "rischio creativo" che lo stesso regista ha corso, nel ricostruire ex novo le consuetudini di un popolo ormai scomparso da quattrocento anni, in parte basandosi su studi ma perlopiù sull'immaginazione, quindi se non aderendo filologicamente alla verità, certamente compiendo un tentativo apprezzabile sul piano del coraggio.
Altrettanto ardito, e geniale nel risultato, l'utilizzo degli zigoli come metafora dei due protagonisti.
Ricordano i passeri trasmigratori di anime de "La metà oscura" di George A. Romero (tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King), ma sono privi di quel senso lugubre e ridondante e aderiscono piuttosto alla semplicità e alla vita - morte compresa - di cui Fedorchenko si fa portatore.
cast:
Igor Sergeev, Yuriy Tsurilo, Yuliya Aug, Viktor Sukhorukov, Ivan Tushin, Olga Dobrina, Leisan Sitdikova
regia:
Aleksei Fedorchenko
titolo originale:
Ovsyanki
durata:
78'
produzione:
Igor Mishin, Mary Nazari, Mig Pictures, Film Company
sceneggiatura:
Denis Osokin
fotografia:
Mikhail Krichman
scenografie:
Andrey Ponckratov
montaggio:
Sergey Ivanov
costumi:
Anna Barthuly
musiche:
Andrei Karasyov