"È la paura che ci ha fatto inventare i limiti e i confini. Il confine non esiste, né nei pensieri né nei sentimenti" (Liv Ullman, "Sinfonia d'autunno")
Eva (Tilda Swinton), donna indipendente e affermata sul lavoro, è sposata a un uomo che ama e con cui vive a New York. Una gravidanza inaspettata, però, li indurrà a lasciare la metropoli per la più tranquilla provincia. Fin dai primi anni il rapporto con il primogenito Kevin si rivelerà tormentato con la madre e conciliante con il padre. Kevin crescerà, e con lui la sua attitudine mefistofelica.
"...E ora parliamo di Kevin" scardina, pezzo dopo pezzo, tutta quella mitologia precedente, suffragata da pubblicità pampers et similia, che aveva innalzato la maternità a momento estatico di amore che non conosce intermezzi né zone d'ombra. Non è così. E non solo perché la neomamma può essere colta in flagranza di depressione post partum, ma perché l'amore - nonostante i nove mesi di simbiotica comunione che lega la mamma al suo bambino - non è qualcosa che coviamo aprioristicamente, come l'idea platonica, e con cui, automaticamente, incensiamo il nostro pargolo. La maternità ci chiede sacrifici e pazienza; una disposizione d'animo improntata all'altro, piuttosto che all'io, e l'amore (della madre verso il figlio e/o del figlio verso la madre) lo acquisiamo e lo costruiamo e, ebbene sì, potrebbe perfettamente non esserci.
Eva concepisce la maternità come un attacco alla sua personalità, e per questo ha bisogno di arredare una stanza per sé, in cui allontanarsi da tutti e riconciliarsi al suo mondo perduto. Vive con ostilità il rapporto con Kevin, non ne sopporta il pianto ininterrotto e perfino l'assordante trivella dei lavoratori può apparire una candida sinfonia se ci soffoca le frustrazioni. Kevin - ogni bambino è una spugna impregnata degli stimoli che trasmettiamo loro - introietta l'insoddisfazione della madre e inizia a inscenare una serie di dispetti (dal mutismo iniziale in poi) che hanno lo scopo di smascherare la madre e metterla di fronte alla sua abiezione. Il rapporto col padre - indulgente e un po' assente - si svolge, invece, in maniera completamente antitetica e Kevin si mostra affettuoso e ubbidiente, acuendo il risentimento di Eva.
Kevin è, sia da bambino che da adolescente, tremendamente spietato. I suoi occhi languiscono odio. Si fa incarnazione del Male che avviene "per nessuno motivo, questo è il motivo" (risponderà così ai "perché?" della madre) e farà solo un passo indietro quando, malato, richiederà le attenzioni della madre, in una parentesi lunga il tempo di una debolezza. Non c'è una spiegazione al Male che alberga in Kevin e il film si dispensa dal fungere a trattato socio-psicologico. E' la stessa oscurità che risiede sommessa in ognuno di noi e che, in alcuni casi, dirompe in tutta la sua potenza, se trova un (sotto)suolo fertile. Eva e Kevin sono uniti da un cordone ombelicale mai spezzato che anziché legare all'amore incondizionato, li ha stretti nella morsa dell'odio reciproco (?). Sono vittima e carnefice l'uno dell'altro, laddove le meschinità del figlio innescano e svelano quelle della madre. "La sconfitta della figlia è il trionfo della madre? Mamma, il mio dolore è un tuo piacere segreto?" - ci si chiede in "Sinfonia d'autunno" di Bergman. Entrambi sono intransigenti, sentiamo in una parte del film, ma mentre l'intransigenza della madre si manifesta in una visione della vita schematica che scarnifica le sfumature (se mangi tanto ingrassi, se hai un figlio perdi l'individualità), quella di Kevin sta nella sua abdicazione al male per il male. Interpretato da un Ezra Miller diabolicamente perfetto, la figura di questo figlio maledetto rischia di risultare artificiale nei suoi eccessi, ma l'ingranaggio è ben costruito e anche l'eccesso appare meno stucchevole.
Il montaggio - attraverso i due binari narrativi (il pre e il post strage) che si muovono parallelamente e si intersecano attraverso i flashback - ci permette di entrare in sintonia con il punto di vista di Eva che, a due anni di distanza dalla strage compiuta dal figlio, ricerca le sue responsabilità. La regista si concentra sui dettagli, che conferiscono un appeal artistico all'opera velatamente estetizzante, e il colore rosso è preminente: i pomodori, la marmellata, la vernice riconducono all'afflato sanguinolento delle piccole e innocue cose. La regista imbastisce una costruzione elegante dell'orrorifico, in cui ogni inezia diventa strumento. Come nella colonna sonora che, eterogenea e stridente al tessuto narrativo (ad esempio nella scena in cui si ascolta "Everyday" di Buddy Holly), purifica il contenuto tragico. "...E ora parliamo di Kevin" è un racconto di vivida drammaticità. Una drammaticità che non eccede mai, che non dà pregnanza alle urla di dolore, ma riluce negli occhi e nelle mani (quanto sono importanti le mani in questo film!) della scarna e splendida Tilda Swinton. Non c'è parola che possa esprimere meglio del viso della Swinton tutta la rassegnazione e i sensi di colpa che non deflagrano ma implodono, perché la sofferenza quando non parla si fa ancora più straziante e distruttiva.
Per saperne di più: Speciale Tilda Swinton, "...E ora parliamo di Kevin"
cast:
Tilda Swinton, Ezra Miller, John C. Reilly, Ashley Gerasimovich, Siobhan Fallon, Leslie Lyles
regia:
Lynne Ramsay
titolo originale:
We Need To Talk About Kevin
distribuzione:
Bolero Film
durata:
112'
produzione:
BBC Films, UK Film Council
sceneggiatura:
Lynne Ramsay, Rory Kinnear
fotografia:
Seamus McGarvey
scenografie:
Judy Becker
montaggio:
Joe Bini
musiche:
Jonny Greenwood