"[...] per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
quei due
tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la
musica,
misteriosa forma del tempo."
(J. L. Borges, "Altro poema dei doni")
"Amour" è un sentimento sfuggevole, esile, quasi impalpabile e forse non per tutti, eppure immediatamente avvertibile. Una densa sensazione che sopravvive alla visione del film di Michael Haneke, che a tre anni di distanza dalla Palma d'Oro per
"Il nastro bianco" nuovamente vede la
Promenade de la Croisette inchinarsi al suo ultimo lavoro. Così la manifestazione cannense, giunta alla sua 65esima edizione, incorona il regista austriaco nel circolo aureo dei pochi a esserne usciti vincitori per due volte: prima di lui solo Alf Sjöberg, Francis Ford Coppola, Bille August,
Emir Kusturica, Shohei Imamura e i fratelli Dardenne.
"Amour" è un brivido che attraversa un corpo immerso nella realtà quotidiana, ripetitiva, faticosa, straziante, quando le circostanze del vivere spingono l'uomo a sperimentare il dolore e la sofferenza, quando l'uomo diviene spettatore del più atroce degli spettacoli terreni: non solo la morte, ma il morire della persona amata. L'amore di Haneke è un amore che si stende fino alle estreme conseguenze, non è l'idillio di una coppia, non è la celebrazione e il trionfo del romantico. È qualcosa di primordiale e indicibile, qualcosa di tanto primitivo da sopravvivere in fondo all'animo umano, anche quando la società veste la bestia che siamo con gli abiti della cultura. È qualcosa che si trasfigura in parte nell'abitudine e nel gesto amorevole che si fa consuetudine, ma che riemerge come forza e slancio, sofferenza, disperazione, rabbia e cattiveria, cura e dolcezza in un ventaglio di emozioni variegato come la coda di un pavone. Emozioni spesso mute e soffocate che emergono dall'abisso di uno sguardo.
Allora, separati da due colori
kieslowskiani, Emmanuelle Riva ("Film Blu", 1993) e Jean-Luis Trintignant (
"Film Rosso", 1994) si trovano nella pellicola di Haneke in una colossale interpretazione, sono moglie e marito, Anne e Georges anziani insegnanti di musica in pensione, la cui vita viene sconvolta da una malattia aggressiva e inaspettata che affligge la donna, immobilizzandone parte del corpo.
Lei costretta a un vivere che la priva sempre più della dignità. Lui indaffarato nel prendersi cura di lei in un cammino faticoso e lacerante. Il percorso è duro e sfiancante (e ci ricorda la lotta della Donzelli in
"La guerra è dichiarata"). La morte e il morire che perlopiù possiamo sperimentare sono il morire e la morte degli altri, di quelli che ci circondano e se la morte, per quanto assurda e imperativa, può essere compresa come condizione stessa del vivere umano (d'altro canto dalla stessa cattedra di Cannes aveva saputo parlarne Malick con
"The Tree of Life") il processo del morire, invece, non solo manifesta la fragilità umana, ma ne mette in questione la dignità. L'esperienza del morire dell'altro è allora una domanda che interroga l'uomo direttamente su cosa renda vita una vita. Che lo chiama a comprendere anche l'amore in nuove forme, in insoliti gesti.
L'arte cinematografica di Haneke al suo meglio è una visione stupefacente; cruda e crudele, violenta anche, come già il regista austriaco ci ha abituato ma senza ricorrere a giochi perversi (
"Funny Games") pur mantenendo certa l'insensatezza che accompagna l'esistenza, senza scendere nell'abisso di istinti animaleschi (
"La pianista") pur mostrando la nudità ferina dell'uomo.
La crudeltà dell'amore
hanekeiano è quella della vita stessa, ma filtrata dal profondo e sincero umanismo del regista che già ne
"Il nastro bianco" lasciava trapelare nella sua pellicola un sentimento leggero e impalpabile, una speranza che (col fiorire dell'amore tra il Maestro e Eva) squarciava un mondo di nascoste insidie, una società che collassava su se stessa.
Così, senza disprezzare l'uso di tecniche e tematiche tipiche del cinema horror, Haneke forgia "Amour" come una pellicola delicata e sfuggente, non già un inno del sentimentalismo, ma sempre una rara ricerca delle più estreme terre cui l'uomo si possa spingere. Il destino cinico e spietato costringe, infatti, la coppia ad andare sempre oltre, in un vortice di miglioramenti e ricadute della malattia, tra la disperazione che vorrebbe concludere forzatamente lo strazio del vivere e la dolcezza dei momenti in cui il ricordo del passato si infiltra nel presente attraverso una vecchia foto, con le note di un brano musicale. Ma il cammino della vita è diretto in un'unica direzione e l'irrevocabile destino esige di essere affrontato.
Il realismo crudo di Haneke si rivela ancora una volta essere un realismo interrotto, che si interessa di atomi e frammenti dell'esistenza che lasciano intravedere solamente in controluce un universo nascosto e invisibile, sottili declinazioni dell'animo che vagano nella musica, ordinata articolazione del tempo in cui si dispiega un sentimento che ne trascende l'ordine, nella musica in cui si frammenta il tempo del sentire umano che divaga nel ricordo. O nella fantasia, o nell'incubo. Gli eventi, i gesti, gli sguardi si trasfigurano in note musicali incise su di una partitura, mentre il senso del suonato si nasconde tra i silenzi non scritti.
22/10/2012