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Ho veduto una sola volta [...]
la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l'ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera dell'umana natura e delle cose esistenti. Non vi domando più dove essa è: è esistita nel mondo e può tornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa essa sia, l'ho veduta, l'ho conosciuta. O voi, che cercate quanto vi è di più alto e perfetto, nella profondità della sapienza, nel tumulto dell'azione, nel buio del passato, nel labirinto del futuro, nelle tombe e al di sopra delle stelle! Conoscete il suo nome? Il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è bellezza".
(Hölderlin,
Iperione)
"The Tree Of Life" è la mitologia dell'anima secondo Terrence Malick e racconta le origini della vita in un'odissea che attraversa spazio, tempo e memoria alla ricerca della trascendenza del senso di tutto ciò che esiste.
Ma andiamo con ordine. L'inizio: una cittadina texana degli anni 50, una scelta spazio-temporale puramente arbitraria perché un qualsiasi punto della storia passata, presente o futura dell'umanità sarebbe potuto andar bene lo stesso per raccontare queste vicende, ma sono un tempo e un luogo familiari al regista tanto che la ricchezza della descrizione ha la vividezza del vissuto. Quindi una cittadina, poi una famiglia: un padre autoritario (Brad Pitt), una madre amorevole (Jessica Chastain) e tre figli. Un dramma umano che si concretizza con la morte di uno dei figli. Il tutto non semplicemente narrato, ma ricostruito nella memoria del figlio maggiore Jack (Sean Penn) ormai adulto, procedendo per salti, immagini e associazioni mentali che lasciano vuoti incolmati e incolmabili e che si ergono in maniera evenemenzialmente evocativa.
I dialoghi si frantumano nella barriera del tempo e del ricordo, tutto diventa sfumato, i colori più degli accadimenti e le sensazioni più dei fatti sono quel che resta di un passato vissuto. D'accordo, ma non solo questo scorre sulla pellicola perché siamo guidati tra lontane galassie, nella preistoria terrestre, negli infinitesimali meandri delle cellule. Una rara poesia è questo film di Malick.
Strutturato come un poema di Hölderlin, "The Tree Of Life" giustappone l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo in un gioco di specchi, immagini speculari, richiami, metafore e simboli, lasciando allo spettatore la scelta se abbandonarsi all'immediata e unica bellezza visiva del mostrato o seguirne le tracce verso un non-detto e un non-rivelato tanto ricco di suggestioni quanto spaesante nella sua fitta rete di rimandi simbolici. Dopo l'odissea spaziale di Kubrick, è il più audace, sfacciato e visionario film uscito da una grande produzione americana e allo stesso modo accompagna lo spettatore nelle profondità del cosmo e ai primi giorni della vita sulla Terra - le affinità sono molte, ma maggiori ancora le differenze.
Conflitto e armonia, scontro e incontro delle forze della natura e dell'animo. Cosi come la natura è una molteplicità di forze conflittuali, così anche l'uomo in se stesso: nel medesimo modo in cui l'Iperione di Hölderlin non riusciva a coniugare le voci interiori e ad armonizzare le forze dell'anima se non nell'esperienza della bellezza, anche Jack si trova scisso in se stesso tra forze contrastanti. Il padre, la madre sono archetipi dell'animo che non lasciano mai che l'uomo si adagi in una pacifica quiete, la sua più intima tendenza - come anche "il mago di Meßkirch" indicava - non è la stasi, ma piuttosto il movimento. Il movimento, la lotta, il naufragio.
Il film procede per concetti e allegorie tra raffigurazioni del cosmo e delle profondità marine per indicare una natura che lotta contro se stessa e nell'esperienza del fenomeno della morte come sorge il problema del senso. L'esperienza della morte rende così immediatamente pressante il problema del divino che in Malick, lungi dall'irrigidirsi in una posizione semplicemente religiosa, si forma come ricerca della trascendenza e del suo senso attraverso l'inquietudine. L'inquietudine per la morte dell'altro, per la propria morte, l'inquietudine di fronte alla morte come abisso di tutto ciò che è. È questa inquietudine che Jack sperimenta e che Malick insegue nelle profondità interstellari e alle origini del tempo alla ricerca di una presenza divina che sfugge sempre.
Quello che resta è il domandarsi il
perché del dolore terreno: i figli si interrogano sul motivo della durezza del padre, gli uomini su quella di Dio (riproposizione in chiave cosmogonica del problema che giace al fondo de "
Il nastro bianco" di Haneke). Siamo tutti dei Giobbe sofferenti. La domanda sul senso del male e del dolore e della morte sgorga dall'interiorità dei personaggi (unico vero luogo esibito in tutto il film in cui qualcosa veramente accade) e sfondata la volta celeste alla ricerca di un iperuranio latente, non si scorge altro che l'intensa e insensata bellezza del cosmo, delle cose che sono.
Sospeso sull'abisso della morte, l'uomo non trova riscatto se non nella possibilità di amare - almeno in questa direzione tende il sentiero della madre. Un amore deromanticizzato, che non trova quiete nel placido porto di una persona amata, ma che abbraccia la totalità dell'esistente nelle sue contraddizioni. Così, con le radici saldamente conficcate in un cosmico niente e i rami protesi verso la nullità della morte, l'albero della vita è l'esperienza dell'esistere che acquista un senso ultimo solo nell'unità di bellezza e amore racchiusi insieme nella parola "grazia". Ma questa finale unità e completezza in cui l'uomo si ferma per ricondurre in un'unica ultima spiaggia ogni contraddizione della propria vita non è altro che la più atroce delle sconfitte, una sconfitta dell'uomo che nega la propria natura conflittuale con un pacificante sguardo che abbraccia ogni contrasto e dicotomia che aveva incontrato e con cui aveva lottato. La pace dell'animo è una sconfitta sul terreno, in cui ne va del senso della propria esistenza. La pace dell'animo è l'artificio ultimo con il quale l'uomo si incatena alla possibilità di non essere se stesso.
Una notazione di merito deve essere spesa per sottolineare il lavoro straordinario del direttore della fotografia Lubezki, principale e più stretto collaboratore di Malick, e dei cinque montatori Corwin, Rabinovitz, Rezende, Weber, Yoshikawa, che si sono alternati nella difficile impresa ideata dal regista statunitense di rappresentare con un film l'
aleph del cosmo. Dovendo ricordare una scena tra le tante, sottolineo qui la sequenza in cui è descritta la crescita di Jack dalla nascita sino alla fanciullezza in una manciata di minuti e con una delicatezza e semplicità che raramente è apparsa sullo schermo.
Al suo quinto lungometraggio in quasi quaranta anni, Malick radicalizza ogni tendenza che il suo cinema aveva sinora espresso, realizzando con questo film una complessa e affascinante sinfonia che scorre come un fiume di voci interiori. Sia chiaro che "The Tree Of life" è un film che dividerà radicalmente il pubblico, potrà piacere - come a chi scrive queste parole - o potrà sembrare opera insopportabile e tediosa, una inevitabile fuga di spettatori dalla sala è prevedibile dopo una quarantina di minuti dall'inizio. Come sia chiaro che una singola visione di quest'opera non è nemmeno lontanamente sufficiente per comprenderla e saranno necessari anni per poterla assimilare. L'unica via che trovo per godere pienamente di "The Tree Of Life" è quella di aprirsi al film, lasciarlo entrare e farlo dimorare in sé e lavorare dall'interno, lasciarlo crescere e aspettare. Sentirlo, ascoltarlo come la voce della propria anima.
21/05/2011