FAR EAST FILM FESTIVAL XXIII - Conclusa la ventitreesima edizione della kermesse udinese, e sul punto di finire anche i nostri contributi al riguardo, è il momento di riflettere sul festival di quest'anno, sulla sua natura ibrida e, ovviamente, sulla sua ampia e varia rassegna, una delle più memorabili degli ultimi anni
Per un giovane friulano appassionato di cinema il Far East Film Festival è sempre stato un centro d’attrazione molto forte, offrendo da decenni una panoramica quanto più vasta possibile sul cinema asiatico popolare, una delle galassie della Settima arte più ampie e variegate eppure spesso poco considerata dalla maggior parte dei cinefili occidentali. Anno dopo anno partecipare al FEFF è divenuta un’abitudine, mentre il festival stesso mutava, accogliendo numeri sempre più grandi ed espandendo ulteriormente la quantità di film offerti per filone e per paese di provenienza. Questo fino al 2020, quando la crisi pandemica ha gioco forza costretto la kermesse prima a cambiare finestra temporale di svolgimento (da fine aprile a fine giugno) e poi a optare per una versione completamente online, alla quale ha arriso comunque un certo successo, pur con la consapevolezza dell’incompletezza di un’esperienza simile. E così si è arrivati al Far East Film Festival 2021.
Il Teatro Nuovo “Giovanni da Udine”
L’edizione di quest’anno della kermesse udinese ha cercato di coniugare la comodità e l’accessibilità della versione in streaming con l’unicità e la ricchezza dell’esperienza in presenza, riuscendo a bilanciare con efficacia le due modalità di fruizione, un fatto di cui gli organizzatori si sono giustamente vantati nel loro editoriale. Totalizzando ben 10 mila presenze fisiche in sala e 15 mila online sulla piattaforma Fareastream, il Far East Film Festival ha dimostrato sia quanto eventi del genere siano ricercati dal pubblico (soprattutto da un pubblico molto fidelizzato come quello che si sono costruiti nel corso dei decenni), sia gli enormi vantaggi di digitalizzare e rendere, quando possibile, on demand l’offerta, o almeno una parte della stessa. Se i numeri (a cui si aggiungono i circa 1100 accrediti) hanno confermato la tenuta del modello della kermesse anche in contesti apparentemente marginali come possono essere il cinema asiatico popolare e la città di Udine, non hanno comunque permesso al festival di svolgersi nella sua location d’elezione, il Teatro Nuovo "Giovanni da Udine", divenuto nel corso dei decenni il simbolo dell’evento. Ciononostante, le nuove sedi del FEFF, ovvero i principali cinema cittadini "Visionario" e "Centrale", sono riuscite a ospitare adeguatamente le decine di proiezioni e i vari eventi legati al festival all’interno di ben cinque sale e un’arena all’aperto, fornendo un modello per il futuro che, secondo il sottoscritto, sarà difficilmente messo da parte, dopo aver permesso di replicare la maggior parte degli screening, un ulteriore passo avanti nei confronti del proprio pubblico.
"Midnight Swan"
Parlando di un festival non si può evitare di menzionare i vincitori, i quali possono essere sempre un interessante pretesto per riflettere sulle prospettive che un festival intende dare sul cinema e su ciò che il suo pubblico, che in questo caso è in parte anche la sua giuria, si aspetta. Al riguardo, è opportuno iniziare dai tre vincitori degli Audience Award, votati dal pubblico partecipante, sia online che in presenza: al terzo posto si trova la commedia romantica dalle tinte fantasy "My Missing Valentine" del taiwanese Chen Yu-hsun, vincitrice del Gelso di cristallo, mentre è arrivata seconda la commedia dello specialista giapponese Maeda Koji "You’re Not Normal, Either!", Gelso d’argento dell’edizione 2021. Vincitrice assoluta dell’Audience Award, e quindi del Gelso d’oro, è stata la dramedy a tema transgender e danza classica "Midnight Swan" di Uchida Eiji, culmine di una serie di successi già ottenuti in patria.
"You’re Not Normal, Either!"
Condividono delle origini cinesi, in accezione più o meno ampia, i vincitori degli altri premi: dal già citato "My Missing Valentine", votato dagli accreditati Black Dragon (i VIP, si potrebbe dire) come il film migliore dell’edizione, al crudo ma fascinoso thriller "Limbo" del maestro di Hong Kong Soi Cheang, vincitore del Gelso viola, il premio votato dai lettori del main media partner storico del FEFF, MYmovies. In mezzo ci sono il vincitore del premio al miglior esordiente, l’hongkonghese Chan Kin-Long col noir old school "Hand Rolled Cigarette", e la menzione speciale, sempre esordiente, Cao Jinling, il cui melodramma etnografico-ambientalista "Anima" è stato apprezzato anche in redazione. In generale si può apprezzare un ripiegamento sulle due colonne di più lunga tradizione del Far East Film Festival, il Giappone e Hong Kong (d’altronde anche quest’anno i paesi più rappresentati), e un particolare apprezzamento per racconti di affermazione e maturazione nonostante le avversità, scelta non sorprendente in questi tempi difficili.
"My Missing Valentine"
In generale il Far East Film Festival 2021 può ritenersi un riuscito tentativo di riorganizzazione di un festival nell’epoca della pandemia, superando facilmente l’edizione precedente sia per quantità che per qualità dell’offerta, così da corrispondere al motto della kermesse di quest’anno, "moving forward", "andare avanti", come ripetuto dai vari autori e autrici mentre presentavano (ovviamente in differita) le proprie pellicole. Un’edizione che appunto è riuscita ad andare avanti anche inserendo cinematografie inedite per il FEFF come quella di Macao (in coproduzione con la Cina) o quella birmana, pur poi affidandosi soprattutto alle consolidate industrie di Giappone, Hong Kong (con una rassegna di giovani registe e registi, principalmente esordienti, provenienti dall’ex-colonia britannica), Corea del Sud e Cina, anche perché le cinematografie "minori", spesso sottorappresentate, hanno faticato a farsi notare.
"Limbo"
Un’eccezione è stata la ricca retrospettiva dedicata all’estremamente prolifico attore e regista filippino Eddie Garcia, scomparso due anni orsono, di cui le cinque pellicole viste al FEFF, pur rappresentando una minima parte della sua produzione, possono fungere da fondamentale introduzione per gli spettatori europei. Simile funzione è stata ricoperta anche dalla rassegna dedicata a un cineasta apparentemente ben più accessibile, il sudcoreano Yoon Jong-bin, che per il sottoscritto è stato una letterale sorpresa e che non esiterei pertanto a definire uno dei nomi più meritevoli di approfondimento all'interno della generazione di cineasti coreani emersi dopo i grandi successi dei primi anni 2000, anche in virtù del minore riscontro internazionale rispetto ad altri colleghi. Visione quasi obbligata per gli amanti di questa cinematografia è il recente "The Spy Gone North", presentato a Cannes nel 2018.
"The Spy Gone North"
Se la qualità della rassegna dedicata a Yoon ha forse finito per mettere in ombra indirettamente i film sudcoreani in competizione (divertissement grotteschi come "Voice of Silence" e "Night of the Undead", oppure action solidi ma non particolarmente inventivi come "Deliver Us from Evil"), il cinema degli altri giganti in competizione ha avuto modo di mostrare al meglio la propria versatilità. Da una parte le produzioni della Cina continentale si sono adeguate abbastanza fedelmente ai due modelli principali del proprio cinema d’esportazione, cioè rocamboleschi film in costume, pieni di pathos e retorica nazionalista, come "Cliff Walkers" e "800 eroi", e opere minimali dedicate alla vita di provincia à la "Anima", a metà strada fra melò raffreddati e indagini etnografiche, dall’altra Taiwan e Hong Kong hanno mostrato più inventiva e varietà.
"Anima"
Il primo paese ha cercato di dare il suo meglio con sole quattro pellicole, dallo stiloso gangster movie "Gatao: The Last Stray" alla "fantastic love story" "My Missing Valentine", mentre Hong Kong ha potuto ribadire l'importanza della sua cultura cinematografica sia tramite le nuove leve, autrici di scanzonati meta-horror ("Sugar Street Studio") quanto di compassati crime movie ("Hand Rolled Cigarette") o di senescenti parabole grottesche ("Time"), sia con autori del calibro di Soi Cheang e Fruit Chan. Il primo ha diretto "Limbo", efferatissimo thriller in bianco e nero presentato alla Berlinale, mentre il secondo "Coffin Homes", una commedia horror presentata in anteprima mondiale e, a quanto pare, completata negli stessi giorni del festival. Un evento quasi unico che fa il paio con una pellicola che è l’opposto della banalità, nello stile dell’eccentrico maestro hongkonghese, il quale sa come giocare col (suo) pubblico e col (suo) cinema.
"Coffin Homes"
Meno memorabile, forse, ma comunque variegata e non priva di perle è stata la serie di film giapponesi presentati a questa edizione del FEFF, potendo vantare la presenza dell’Orso d’argento di Berlino 2021 "Wheel of Fortune and Fantasy" di Hamaguchi Ryūsuke, raffinato film a episodi capace di proporre dei memorabili ritratti di donne, e del protagonista dell’ultimo Japan Academy Film Prize, la notevole dramedy "Midnight Swan". Oltre a queste pellicole pare primeggiare la fedeltà al genere/filone di riferimento e la voglia di divertire, come si può evincere dalla delirante screwball comedy dei giorni nostri "You’re Not Normal, Either!", dal letterale anime in live action "Jigoku-no-hanazono: OFFICE ROYALE" (direi che basta il titolo) o dallo yakuza eiga fin troppo fedele al magistero di Fukasaku Kinji "Last of the Wolves" di Shiraishi Kazuya.
"Last of the Wolves"
Meritano menzione anche le cinematografie meno presenti, ovvero Filippine, Thailandia, Indonesia, Myamnar e Malaysia, le quali hanno avuto gioco forza meno possibilità di lasciare un segno. Si son fatti comunque notare l’imprevedibile coming of age da incubo filippino "Fan Girl" e la decostruzione del classico horror thai "The Maid", i cui giovani ma già affermati registi, Antoinette Jadaone e Lee Thongkham, si spera possano ottenere presto la meritata ribalta internazionale. Cito anche, solo perché l‘ho visto, addirittura in sala, alla ricerca dell’ineluttabile film horror brutto che infesta ogni edizione del FEFF, "Death Knot", interessante storia radicata nel folklore indonesiano che a ogni svolta narrativa pare sbagliare purtroppo direzione, perdendosi inesorabilmente.
"Fan Girl"
Prima di chiudere questa smisurata rassegna è il momento di accennare ai documentari presentati fuori dalla competizione, non necessariamente diretti da registi asiatici, come la ricostruzione del caso dell’incredibile assassinio di Kim Jong-nam nell’aeroporto di Kuala Lumpur realizzata da Ryan White con "Assassins". Altri due film meritevoli di citazione sono i ritratti di figure fondamentali delle rispettive cinematografie "Keep Rolling", dedicato alla leggendaria regista e attrice hongkonghese Ann Hui, e "Life in 24 Frames a Second", realizzato approfondendo le complesse personalità di John Woo, Rithy Panh, Anurag Kashyap e Lav Diaz.
"Assassins"
Last but not least, i restauri di pellicole storiche presentati al FEFF, di qualità mediamente alta, come si può far intuire facendo il nome del cult assoluto "Infernal Affairs" di Andrew Lau e Alan Mak, restaurato in 4K dal laboratorio L’immagine ritrovata di Bologna, vincitore del Gelso d'oro alla carriera. Per il sottoscritto la vera sorpresa è stata però "Execution in Autumn", dramma etico in costume di rigore difficilmente eguagliabile, diretto da uno dei numi tutelari del cinema taiwanese, Lee Hsing, mentre l’ultimo esponente della terna di restauri, "Suddenly in Dark Night" di Go Yeong-nam, è un divertente e stilisticamente memorabile horror/thriller psicologico che salta da folklore a erotismo senza soluzione di continuità, con una spruzzata di misoginia a fare da accompagnamento.
"Execution in Autumn"
In definitiva questa ventitreesima edizione del Far East Film Festival può essere giustamente definita un successo da parte degli organizzatori, presentando una delle line up probabilmente migliori degli ultimi anni, sicuramente una delle più sfaccettate, e al contempo riuscendo a organizzare una manifestazione di grande attrattiva in presenza, cosa piuttosto rara di questi tempi, con una solida piattaforma streaming ad ampliare una platea già notevole. "Andando avanti", i responsabili e fondatori della kermesse Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, hanno già prospettato un ritorno alle vecchie tradizioni con la prossima edizione, da tenersi ad aprile e al Teatro Nuovo "Giovanni da Udine", pur non nascondendo la possibilità di appoggiarsi al cinema "Visionario" se sarà possibile, probabilmente col fine di poter offrire più proiezioni della maggior parte dei film, come avvenuto quest’anno. Il consolidamento della possibilità di fruire del festival online, e la crescita della parallela piattaforma streaming Fareastream, vanno in questa direzione, della conservazione dell’innovazione nella restaurazione, che è un modo complesso per dire che avere più frecce nella propria faretra è sempre positivo, soprattutto quando ci si è dati una mission ardua come la diffusione del cinema popolare asiatico in Italia e in Europa, la quale tuttavia non è mai sembrata così a portata di mano come ora. Mi piace pensare che il Far East Film Festival abbia avuto un ruolo di non indifferente rilievo in questo spostamento culturale. Che sia forse questo il futuro verso cui ci si muove, come questa edizione del FEFF ha cercato di ricordare a tutti i suoi spettatori? In attesa di una risposta, attenderemo il prossimo anno per sapere quale sarà il nuovo volto del Far East Film Festival di Udine e del cinema asiatico che esso anno dopo anno, against all odds, porta in questo piccolo angolo del Nord-Est italiano e da lì in tutto l’Occidente.
Moving forward!
P.s. Ringrazio in particolar modo i miei colleghi Giuseppe Gangi, Alessio Cossu, Vincenzo Chieppa, Linda Capecci e Antonio Pettierre non solo per avermi aiutato nella copertura del festival ma anche per aver favorito la compilazione e l’arricchimento di questo articolo grazie al confronto con le loro visioni e le interpretazioni delle pellicole viste. A questo riguardo, potete trovare una parte dei frutti di queste discussioni nell'ultima puntata del nostro podcast, Radiodrome.