“Il crepitio ci rende coscienti del fatto che stiamo assistendo a un tempo che è fuori di sesto;
ci impedisce di cadere vittime dell’illusione della presenza.”[1]
Mark Fisher
Il numero tre deve avere probabilmente una qualche importanza per Fruit Chan, essendo spesso centrale nella strutturazione delle sue opere e nella loro simbologia: dai tre diversissimi e ugualmente perduti protagonisti di “Made in Hong Kong” a quelli di “Dumplings”, ognuno trainante una precisa linea narrativa fra le tre principali, fino ad arrivare ai tre “mariti” attorno ai quali si sviluppa la fabula di “Three Husbands”. Se in quest’ultimo esempio è possibile individuare una divisione in tre atti esplicita, la struttura di “Coffin Homes” si rivela più complessa, pur potendo inizialmente essere interpretata come uno sviluppo dei vari film a episodi (ovviamente tripartiti) diretti dal regista hongkonghese nell’ultimo decennio, condensando tre racconti separati all’interno in un film realizzato da lui solo. Ma progressivamente ci si rende conto che questo non è il caso del film in analisi, che dai succitati progetti episodici prende solo il retroterra horror e un interesse quasi etnografico nel raccontare le particolarità sociali e culturali della città-stato cantonese: i tre nuclei narrativi di “Coffin Homes”, e i personaggi al loro centro, sono tutti collegati e destinati ad avvicinarsi progressivamente in una sorta di movimento spiraleggiante che finisce per imprigionare tutti e costringe al confronto con i propri fantasmi personali e con quelli della stessa Hong Kong.
Sono d’altronde questi i due temi al centro del film, i quali permettono di trasformare una horror comedy apparentemente faceta in una complessa riflessione sul passato in chiaroscuro della propria città e sul suo futuro sempre più cupo, risignificando i temi centrali della poetica di Chan. Hong Kong è difatti l’innegabile protagonista della pellicola, con le sue strade affollate, i suoi caotici slum, i suoi complessi labirintici e i suoi angusti appartamenti, tanto da costringere pure lo stile di regia ad adattarsi alle sue proporzioni: dettagli, primi piani e piani americani abbondano, concedendo pochi campi medi, spesso dalla valenza contestualizzante, e solo una manciata di campi lunghi, dedicati a situazioni molto significative (ad esempio, il visionario aldilà o la marcia dei residenti delle cosiddette case-loculo). Una simile gestione degli spazi riflette così lo stato di costrizione in cui si trovano tutti i protagonisti di “Coffin Homes”, dal giovane agente immobiliare che sfrutta il suo mestiere per risiedere in appartamenti che mai potrebbe permettersi al padre di famiglia che modifica continuamente la pianta della sua proprietà per poter ospitare il maggior numero possibile di subaffittuari in varie case-loculo, passando per la benestante ereditiera che si trova a dover vendere una villa destinata a divenire maledetta e che già adesso è piena di brutti ricordi. Sembra proprio che Hong Kong, in passato simbolo di libertà, sia divenuta una trappola per tutti i suoi abitanti, in continua fuga dalle sue sempre cangianti leggi (una stoccata politica fra le tante di questa pellicola destinata a non arrivare mai nei cinema della Cina continentale).
Fig. 1: il declino e la putrefazione di Hong Kong si riflettono
nella palette ocra-marrone spesso adoperata dalla fotografia
Il film di Chan propone, come già altre pellicole hongkonghesi viste nell’ultima edizione del Far East Film Festival, una rappresentazione della città cantonese che si può definire quasi post-apocalittica, mettendo in scena una comunità in preda al caos e alla corruzione, costretta a risiedere in luoghi invivibili e ormai putrefacenti. Non è un caso che (similmente a come avveniva in “Dumplings”) spesso i personaggi accennino a fetori e odori sgradevoli, mentre la fotografia che verte su tonalità ocra e gialle renda visivamente la marcescenza di Hong Kong (fig. 1). A questo punto può non sorprendere che vi sia una grossa differenza di rappresentazione fra presente e passato, col primo cupo e sgradevole e l’altro connotato in maniera positiva, anche se solo dal punto di vista estetico, dal momento che spesso i flashback servono a esplicare la negatività di una situazione contingente (dal perché un appartamento sia infestato alle ragioni per la scomparsa di una persona cara). Il passato può quindi sembrare luminoso, e difatti così viene rappresentato, anche abusando di lens flare e artifizi simili, ma è anche il contesto in cui sono germogliati i semi della degradazione del presente, determinando il carattere in fondo negativo (sarcastico, verrebbe da dire) della malinconia che è il principale mood della pellicola.
La nostalgia per il passato perduto non si traduce però nello smaliziato omaggio alla Hong Kong che fu e al suo iconico cinema di genere, come avviene in “Sugar Street Studio” di Sunny Lau, ma semmai nella sua riattualizzazione, in modo che l’alterità di quella storica produzione sia ben rimarcata, così come avviene per il passato stesso. Ciò si riflette sia nella strutturazione episodica del racconto, che poi però si “avvolge” nella succitata spirale, sia nel ricorso a effetti speciali artigianali per la rappresentazione di spettri, corpi e ferite, i quali vengono però esibiti nel loro carattere farlocco e supportati da quasi altrettanto palesi e scadenti effetti speciali digitali in modo da ribadire la propria irrealtà e alterità rispetto al contesto in cui vengono adoperati (fig. 2). Chan così mette in chiaro nuovamente uno dei punti centrali della sua poetica: il passato per cui ci si strugge non può tornare realmente ma solo sotto forma di grottesche imitazioni che rimarcano sia la sgradevolezza del presente sia la natura in fondo già fallata di ciò che si rimpiange. In questo mondo caotico non solo diversi tempi si mescolano ma anche differenti luoghi, in una continua giustapposizione di spazi e ambienti che rende la topografia immaginaria di Hong Kong ancora più intricata di quanto già sia (qualcosa del genere d’altronde avveniva già in “After Midnight”), rispecchiandosi inoltre nelle confuse piante dei labirintici e minuscoli appartamenti tipici della città, in primis delle case-loculo del padre.
Fig. 2: la natura marchiana degli effetti speciali rimarca l'alterità degli spettri
così come quella del cinema di genere che omaggiano e rielaborano
Si potrebbe interpretare “Coffin Homes” come una ricorsiva mise en abyme di questi spazi angusti e difficili da leggere, che passa dalle strette stanze in cui si sviluppa la maggior parte del film allo spazio della stessa Hong Kong per arrivare alla composizione della pellicola medesima, in un continuo affastellarsi di sequenze, alcune shoccanti, altre comiche, senza un’apparente ratio che permetta allo spettatore di leggere il flusso degli eventi. D’altronde a tratti sembra quasi che neppure la fabula del film stia proseguendo, aprendosi a digressioni, vicoli ciechi narrativi e inattesi incroci fra le tre linee narrative, per poi proseguire con un passo che ha del fatale nell’ultima parte della pellicola. La sezione più esemplificativa di ciò è la ricerca del giovane agente immobiliare dei documenti che permetterebbero la vendita di un appartamento maledetto, cui l’ostile fantasma che lo infesta si oppone in molteplici modi (in un parossistico crescendo di distruzione dell’abitato), per poi acconsentire, dando il via alle sequenze più surreali dell’intero film. Queste culminano nel viaggio all’aldilà del giovane, alla ricerca della moglie uccisa dal succitato spettro quand’era in vita in modo che possa anche lei firmare l’atto di cessione della proprietà, arrivando fino a una sorta di enorme discarica in bianco e nero che sembra una parodia della rappresentazione degli slum di Hong Kong nel quasi coevo “Limbo” di Soi Cheang. Quest’area può essere considerata l’immagine più rappresentativa dell’intero film, del suo utilizzo surreale del registro fantastico e della sua strutturazione labirintica e acefala, essendo inoltre un letterale limbo in cui il passato e il presente, i morti e i vivi, si possano incontrare in una dimensione che però è confusa e indefinibile.
Il mondo dei viventi e quello dei trapassati non sono difatti rigidamente separati ma anzi paiono mescolarsi continuamente, con improvvisi scontri fra spettri e vivi che morendo si ritrovano immantinente fantasmi e tutta una complessa realtà di rituali e pratiche (tema che effettivamente appare nella filmografia di Chan dagli esordi, fig. 3) che vorrebbe allontanare coloro che non ci sono più ma finisce solo per creare un ponte per loro. In effetti, sono solo il make up e alcune abilità sovrannaturali a separarli, dato che i morti conservano le caratteristiche, le abitudini e le ossessioni che avevano in vita, alla cui imitazione pedissequa e per questo grottesca si dedicano costantemente. Il film inizia, d’altronde, con un corpo morto che ospita uno spettro vendicativo che ha il solo fine di perseguire gli obiettivi della deceduta ospitante, dando il via a una sequenza in cui si passa continuamente dalla farsa allo splatter, concordemente con la natura rancorosa e molto concreta degli spettri del folklore cinese, così distanti dagli echi solitamente impalpabili che popolano le leggende e le pellicole occidentali. Come rimarca in maniera sardonica il finale, pur apparentemente positivo, “un fantasma non muore mai, ma resta sempre a venire e rivenire”[2], mentre il suo ossessivo ritornare si fa immagine dell’ineliminabilità del passato di Hong Kong e dell’ineluttabilità del suo avvenire, del suo essere sempre colonia destinata a essere infestata, come i fantasmi che esorcizzati da una casa vi tornano o che vengono semplicemente sostituiti da spettri ancora più furiosi.
Fig. 3: la permanenza dei morti nel mondo dei vivi e la ritualità correlata
sono al centro del cinema di Chan fin da "Made in Hong Kong"
Il medesimo sentimento di oppressione da parte sia del passato che del futuro d’altronde accompagnava già i protagonisti di “Made in Hong Kong”, tormentati da un passato difficile e in sostanza privati di un futuro ancor prima che questo potesse manifestarsi, e ha continuato a presentarsi per tutta la carriera di Fruit Chan, forse culminando nella presente pellicola, forse la sua più sentita, e critica, celebrazione della città natale. Non è allora peregrino leggere questa particolare condizione di astoricità imposta dalle limitazioni sia del “non più” che del “non ancora”[3] nei termini del pensiero di Mark Fisher e del suo aggiornamento dell’hauntologia di Jacques Derrida, che in “Coffin Homes” si rispecchia sia nel consapevole anacronismo degli effetti speciali e della strutturazione narrativa sia nella labirintica città di Hong Kong, che intrappola tutti, vivi e morti. In questo orizzonte tutto viene demistificato (rituali che non funzionano, leggi fatte apposta per essere aggirate, la nostalgia che rivela solo la matrice degli orrori, la luce del sole che non fa svanire gli spettri, etc…), manifestando a più livelli l’immutabilità del fato di Hong Kong, che per Chan non si può considerare segnato a partire dalla recente repressione del movimento pro-democrazia ma da quando la città è passata sotto il dominio cinese nel 1997, e forse ancora prima, dal momento in cui è divenuta suo malgrado un ponte fra Oriente e Occidente, e così facendo fra passato e futuro. Appunto, fra i morti e i vivi.
Probabilmente è questa la ragione per cui la città cantonese è stata modello della Los Angeles (retro)futuristica di “Blade Runner” e ha quindi fornito un paradigma (per certi versi precorrendolo con la sua eclettica produzione culturale, in primis cinematografica) alla cosiddetta post-modernità. Transitoria e labirintica, è divenuta il perfetto riflesso del carattere rapsodico della vita post-moderna (meglio, tardo-moderna), il cui turbinio senza fine produce una sorta di ineluttabile circolarità in cui la nostalgia del “non più” e le speranze del “non ancora” si riflettono ad libitum, confondendosi in una corsa che è la stessa che i protagonisti di Chan compiono da 25 anni, tenendosi per mano con gli spettri (letteralmente, in questo film) senza sapere di essere destinati a diventarlo loro stessi. Dal momento che questa è anche la forma di questa travolgente e discontinua horror comedy che ne è la mise en abyme non si può che ammettere che la pellicola di Fruit Chan sia argutamente, e furbescamente, riuscita. Fino alla prossima, ennesima e imprevedibile corsa per le strade di Hong Kong.
“Noi non siamo spaventati, anche se dovremo affrontare una realtà indefinita.
Perché ci siamo stati abituati.”
Da “Made in Hong Kong”
[1] M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Roma, minimum fax, 2019 (2013), p. 36
[2] J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Milano, Raffaello Cortina, 1994 (1993), p. 127
[3] M. Fisher, op. cit., pp. 33-4
cast:
Wong You-nam, Paul Che, Tai Bo, Loletta Lee, Susan Shaw, Adora Pagara Ecat, Bonnie Ngai, Chelffy Yau
regia:
Fruit Chan
titolo originale:
Gwai Tung Nei Jyu
durata:
107'
produzione:
Fruit Chan
sceneggiatura:
Fruit Chan
fotografia:
Chan Ka-shun
scenografie:
Leung Tsz-yin
montaggio:
Tin Sub-fat (Fruit Chan)