Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
7.5/10

Kundo: Age of the Rampant

All’interno della retrospettiva dedicata dal Far East Film Festival al cinema di Yoon Jong-bin, uno dei più apprezzati e caratteristici autori del cinema di genere sudcoreano degli ultimi decenni, “Kundo” è forse il titolo che non poteva mancare. Questo non perché sia il migliore o perché ne incarni al meglio i temi e gli stilemi (semmai, si potrebbe dire il contrario, essendo il suo film più sfacciatamente commerciale e l’unico non direttamente sceneggiato da lui), ma in quanto mostra nella maniera più netta l’eclettismo stilistico del regista e la sua abilità nel rielaborare e mescolare riferimenti molto diversi. Vi è in questo talento qualcosa di tarantiniano, attribuibile però non alla ripresa dello stile del regista statunitense (per quanto venga in più di un’occasione omaggiato), ma al fatto che condividono alcuni immaginari di riferimento e che ambedue, pur frullando vari generi e filmografie nei loro pastiche, mettono in scena storie che sono non solo personali, ma in primis nazionali, poiché esprimono in forma drammatica la complessità delle rispettive culture e società di provenienza. In questo senso ci si può sbilanciare nel definire “Kundo” il “Django” di Yoon Jong-bin, fosse anche solo per il grande successo al botteghino e l’immaginario western che funge da sfondo.

Nonostante il film del cineasta coreano prenda a piene mani soprattutto dal wuxia, cioè il cinema cinese di cappa e spada (e arti marziali), traendone in primo luogo l’estetica dalle forti contrapposizioni cromatiche e la coreografia di (alcuni) combattimenti, è il western, e forse in particolar modo lo spaghetti western, a dare il contributo più rilevante alla messa in scena della storia delle scorrerie dei briganti Kundo alla fine dell’era Joseon. Gli spazi ampi e dalla palette colorimetrica fra l’ocra e il rosso, così come la centralità del tema della redenzione e la rappresentazione di una società di confine, parallela a quella ufficiale, ne tradiscono la matrice western, al cui interno è senza dubbio Sergio Leone il riferimento principale. Il montaggio che frequentemente contrappone campi lunghi e dettagli, seppur senza arrivare ai livelli di stilizzazione del succitato, dà un ritmo scopertamente leoniano alla narrazione, con il fondamentale contributo della colonna sonora, ampiamente, ineluttabilmente verrebbe da dire, ispirata all’opera di Ennio Morricone, arrivando a un certo punto a proporre un brano che ricorda “L’estasi dell’oro”, in una sequenza che ambisce a essere carica ed emozionante quanto quella de “Il buono, il brutto e il cattivo” (e a parere di chi scrive non ci va poi tanto lontano). Come nel cinema di Leone, così nel wuxia-western di Yoon lo spazio assume una valenza epica e si fa quindi costruttore del racconto stesso tramite il modo in cui viene articolato, come rappresenta efficacemente la sequenza che rende visivamente il percorso, incidentato ma necessario, del protagonista Dochi attraverso un volo d’aquila (quasi letterale, visto che inizia seguendo uno stormo) sopra i luoghi principali della vicenda, creando al contempo la geografia del mondo narrativo e la strada ideale che in maniera figurata porta al compimento della storia.

Verrebbe da annoverare al western, e a quello italiano soprattutto, anche la rappresentazione dei protagonisti, una congrega di esclusi ognuno dei quali connotato in maniera forte fin dall’aspetto estetico, pur rifacendosi tutti a specifici stereotipi. Per comprendere questi al meglio bisogna accennare al cinema in costume giapponese, il jidai-geki, il quale funge da altro punto di riferimento estetico e narrativo di questa pellicola dai numerosi modelli (e si ricordi quanto il cinema di Leone fosse debitore, al limite del plagio, dal jidai-geki classico, in primis da quello di Akira Kurosawa). Anche lo schema narrativo per capitoli rigidamente divisi più ricordare vari classici del macrogenere nipponico, assieme alla presentazione enfatica dedicata ai vari personaggi principali, la quale contribuisce a dire il vero anche alla nota pulp di “Kundo”, assieme alla violenza sopra le righe e mai realmente disturbante e all’umorismo grottesco e a tratti paradossale che negli ultimi anni il pubblico internazionale ha imparato a riconoscere nel cinema sudcoreano. Questo vasto elenco di riferimenti non deve però far pensare che la pellicola di Yoon Jong-bin sia un ibrido senza identità, in quanto è propria la sua natura composita e capace di cambi di tono e registro considerevoli che lo rende totalmente attribuibile al suo regista e alla produzione della Corea del Sud.  

Come affermato dallo stesso autore, “Kundo” ambisce a essere un film emozionante e classico, un fastoso dramma storico che, prendendo le mosse da vari generi e filoni, mette in scena un lineare percorso di maturazione e redenzione che non si limita a essere personale del protagonista (un antieroe non per scelta ma per natali, un ottuso emarginato che, forse, solo nel finale riesce finalmente a occupare la posizione dell’eroe), ma diviene nazionale, riflettendosi nel processo di emancipazione e ribellione degli oppressi contadini coreani nei confronti di un potere centrale rapace e crudele. La società democratica e proto-socialista che i briganti costituiscono viene contrapposta esplicitamente al mondo gerarchico e ipocrita delle ville dei nobili e dei palazzi dei funzionari, rispecchiandosi in due rappresentazioni completamente diverse per stile di regia e per i colori della fotografia, delle scenografie e dei costumi. I cliché narrativi e soprattutto di caratterizzazione dei personaggi sono funzionali a esplicitare e far deflagrare questa contrapposizione, incarnata al meglio dai due personaggi al centro delle vicende, due paria e antieroi che sono però separati da tutto il resto: quanto il macellaio Dolmuchi/Dochi è povero, ottuso, emotivo, fisico e arrogante, tanto il figlio bastardo di un nobile Jo Yoon è ricco, intelligente, spietato, razionale e compassato. Lo stereotipo da film d’azione di serie b o da shōnen banale è dietro l’angolo, ma le riuscite interpretazioni degli attori e l’ampio minutaggio dedicato a costruire i due personaggi, in primis l’affascinante antagonista, riescono, anche in questo caso, a creare un equilibrio precario ma al contempo solidissimo fra i moltissimi riferimenti, i loro stereotipi e la voglia di rielaborarli, se non sovvertirli.

In realtà quasi ogni personaggio della pellicola compie un arco narrativo preciso, per quanto semplice nella maggior parte dei casi, rivelando un interesse per i propri protagonisti e una cura alla loro caratterizzazione che è tutt’altro che scontata nel cinema blockbuster, così come lo è il coraggio di eliminarli quasi tutti, molto rapidamente, giunti alle battute finali. A questo punto, così come i generi del cinema e i mostri sacri della sua storia, anche la Storia del proprio paese diviene una tela con cui raffigurare mondi e personaggi bigger than life, contribuendo alla loro elevazione ad archetipi della narrativa popolare. Come i migliori esponenti dei filoni citati sopra, “Kundo” è un film composto da mille altre pellicole (o comunque da mille altri “materiali culturali”, si pensi ai riferimenti addirittura a Millet nella fotografia), ma che non è riducibile a nessuna di esse, sia questo un merito dell’eclettica regia, sia un vanto dell’ottima sceneggiatura o sia un frutto del notevole apparato estetico e scenografico. Recupero quasi necessario per gli appassionati di cinema di genere sudcoreano, il quinto film di Yoon Jong-bin è un’altra divertita riflessione sui topoi di un genere e sulle aspettative nei loro confronti, e ovviamente sulla loro sovversione, e una dimostrazione dello stato di salute dell’industria cinematografica sudcoreana, anche quando esce dalla propria comfort zone. Una curata cavalcata di libertà attraverso gli archetipi del cinema popolare, terminante anch’essa (com’era cominciata, quasi) su uno sfavillante “sol dell’avvenir”, che però non è quello del “socialismo con caratteristiche cinesi” ma quello palingenetico della sublimazione della Storia nel cinema, e nel mito.


28/06/2021

Cast e credits

cast:
Ha Jung-woo, Man-sik Jeong, Jae-young Kim, Seong-gyoon Kim, Ma Dong-seok, Ji-hye Yun, Cho Jin-woong, Sung-min Lee, Gang Dong-won, Lee Kyung-young


regia:
Yoon Jong-bin


titolo originale:
Gundo: Min-ran-eui Si-dae


durata:
137'


produzione:
Yoon Jong-bin, Yoo Jeong-hun


sceneggiatura:
Cheol-Hong Jeon, Yoon Jong-bin


fotografia:
Chan-min Choi


scenografie:
Il-hyun Park


montaggio:
Jae-beom Kim, Sang-beom Kim


costumi:
Sang-gyeong Jo


musiche:
Yeong-wook Jo


Trama
1862. Il potere della dinastia regnante di Corea, gli Joseon, è in sfacelo, mentre il paese è sempre più afflitto dalla corruzione endemica e dalle prevaricazioni dei signorotti locali, provocando vaste ribellioni contadine e la nascita di gruppi sempre più diffusi di briganti. Sono le imprese del più leggendario di questi, i Kundo, che la pellicola narra, soprattutto dal momento in cui la loro strada si interseca con quella dell'ottuso macellaio Dolmuchi e quella dello spietato Jo Yoon, figlio illegittimo di un ricco nobile disposto a tutto per divenirne l'erede.