Per comprendere la rilevanza di "Mantieni l’odio per la tua vendetta" di Chang Cheh[1] non si può soprassedere sulla tradizione culturale che lo informa e nemmeno sul contesto storico-produttivo dell’epoca. Si tratta di idee, concetti, termini, nomi che sono prerequisiti all'analisi, necessari per rendere giustizia a una pietra miliare del genere wuxia e a un caposaldo del cinema di Hong Kong.
Il codice dello xia
Il Wǔxiá (武侠 si tradurrebbe "marziale, armato" e "cavaliere, eroe") è un genere letterario cinese che ha avuto un'ampia diffusione a partire dagli inizi del Novecento, sul finire della dinastia Qing. Le storie riguardanti le figure di xiake (seguace dello xia) o di youxia (cavaliere errante) attingono a una vasta e antica tradizione che va dal trattato del filosofo Han Fei vissuto alla fine del periodo dei Regni Combattenti (453 a.C. – 221 a.C. ) alle "Memorie di uno storico" (il monumentale Shiji, che racconta la storia cinese all’incirca dal 2600 a.C. al I secolo a.C.) dove lo storiografo di corte Sima Qian dedica un intero volume biografico alle gesta dei cavalieri erranti (Youxia liezhuan), ma essi vengono citati anche nella biografia di cinque celebri assassini (Cike liezhuan). I chuanqi (racconti fantastici) risalenti alla dinastia Tang (618-907 d.C.) sono anch’essi fondamentali per la costruzione del moderno immaginario wuxia, poiché i peculiari elementi di fantastico e di meraviglioso e la presenza di cavalieri erranti di sesso femminile[2] verranno ampiamente utilizzati dai romanzi di inizio 900. Infine, non si possono trascurare almeno "Il romanzo dei tre regni" e "I briganti" (entrambi del XIV secolo), due dei quattro romanzi classici della letteratura cinese.
L’eroe del wuxia differisce dall’idea occidentale di cavaliere, codificato sul nobile cavaliere medievale, poiché può essere anche un uomo di umili origini che aderisce e si attiene strettamente al codice d’onore che sostanzia lo xia[3]. Il sistema valoriale dello xia è una variazione delle virtù cardinali confuciane che tendono a incarnare il modello dello junzi, l’uomo nobile secondo Confucio. Secondo Sima Qian i cavalieri mettono al di sopra di tutti i valori dello yi ("giustezza, onore"), xin ("fiducia"), gong ("rispetto"), jie ("ordine") e rang ("tolleranza"); costoro, utilizzando le loro qualità, perseguono tali ideali per portare giustizia e difendere i deboli anche infrangendo la legge dello Stato. Il professore James Liu nel suo saggio “The Chinese knight-errant” (1967) traduce il termine youxia in “cavaliere errante” e cerca di mettere ordine al codice di comportamento dello xia, riscontrandovi otto attributi trasversali, ossia l’altruismo, il senso di giustizia, l’individualismo, la lealtà, il coraggio, la veridicità, il disprezzo per la ricchezza e il desiderio di gloria. Benché questi attributi non siano universali e siano suscettibili a diverse interpretazioni, è importante comprendere come questo codice d’onore ponga lo xia spesso al di là delle norme e delle consuetudini plasmate dall’ideologia confuciana, dando vita a una controcultura che non ha timore di sfidare le regole e il potere costituito; ad esempio, la parola data e la reputazione contano più della famiglia e delle gerarchie e ciò non può che essere percepita quale fonte di disordine sociale. Il mondo dei cavalieri erranti è detto jianghu (letteralmente "i fiumi, i laghi"), una comunità autoregolata alla quale appartengono i clan, le sette e le scuole di artisti marziali[4]: nello jianghu le dispute si risolvono restando fedeli al codice di cavalleria (quindi anche attraverso duelli che preservino l’onore e la reputazione dei membri) e non affidandosi alla giustizia dello stato. Non è un caso che lo jianghu indichi certamente la comunità afferente alla cultura wuxia, ma oggi è come i componenti delle Triadi si riferiscono al loro mondo, quello del crimine organizzato[5], parallelamente agli yakuza giapponesi che si sentono gli eredi della cultura dei samurai.
Rondine d’oro e lo spadaccino con un braccio solo
Il wuxiapian (film marziali di cavalieri erranti) è indissolubilmente legato al leggendario Studio Shaw e all’abilità imprenditoriale dei fratelli Run Run, Loke e Raymond. Già attivi a Shangai, capitale del cinema cinese prima della guerra, tra gli anni 20 e gli anni 30, i fratelli fondarono nel 1957 la Shaw Brothers (Hong Kong) Ltd., cominciando l'edificazione di Movietown, gli imponenti studi (completati nel 1961) esemplati sul modello industriale di Hollywood, che seguivano la realizzazione del film in ogni sua fase, avendo al suo interno set, teatri di posa, laboratori e anche una scuola di recitazione.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta la tradizione del wuxiapian viene rivoluzionata dall’opera di Zhang Che e King Hu, due maestri del genere e due tra i più importanti registi hongkonghesi (sebbene entrambi fossero nati in Cina). King Hu dirige nel 1966 "Le implacabili lame di Rondine d’oro" (Da zui xia, tit. int. "Come Drink With Me") mentre Zhang nel 1967 firma "Mantieni l'odio per la tua vendetta" (Dú Bì Dāo, avente una traduzione più vicina nell'inglese "The One-Armed Swordsman"), entrambi grandi successi al botteghino. I protagonisti di questi due lavori, ossia la Rondine d’oro interpretata Cheng Pei-pei e Fang Kang di Wang Yu rappresentano i due prototipi del cinema dei rispettivi registi: da una parte l’ardita (e talvolta spietata) eroina di King che verrà sublimata nel capolavoro "La fanciulla cavaliere errante" (noto come "A Touch of Zen", 1971) e, dall’altra, il probo spadaccino, monco e malinconico, di Zhang, che avrà in futuro ulteriori incarnazioni, anche più cupe e sfaccettate.
Zhang Che vuole riportare il wuxia entro i confini della visione del mondo confuciana, pertanto rigidamente patriarcale, descrivendo uno jianghu retto da uomini d’onore, dove la lealtà e l'amicizia virile sono valori fondativi[6]. Le produzioni Shaw Brothers guardano ai western, in particolar modo alla variante "spaghetti", e subiscono il fascino dei chambara e dei jidai-geki provenienti dal Giappone, da quelli di Kurosawa Akira ("I sette samurai", "Yojimbo") a quelli di Tai Kato - senza dimenticare la lunga serie di film dedicata a Zatoichi, lo spadaccino cieco. King Hu, che abbandonerà gli Shaw Brothers già con "Dragon Inn" (1967), lavora in maniera solitaria e maniacale ai propri progetti proponendo una ricerca insieme filosofica e formalista, mentre Zhang diviene uno dei registi di punta della compagnia, perfettamente inserito nella catena di montaggio industriale, ma con una personalità d’autore che all'interno di una filmografia sterminata emerge in modo pronunciato nei lavori più ispirati (e tra il 1965 e il 1975 "le gemme e i film innovatori non sono pochi"[7]).
Il viaggio dell'eroe
Nato come quaderno di appunti per i colleghi di Hollywood, "Il viaggio dell’eroe" dello sceneggiatore Christopher Vogler riprende gli studi di Propp, Frazer e Campbell (autore de "L’eroe dai mille volti", ben studiato da George Lucas prima di scrivere "Guerre stellari") per applicare un modello teorico alle strutture narrative così da definire gli archetipi che si ritrovano in gran parte delle storie (in particolare, quelle cinematografiche). È interessante notare come le dodici tappe, distribuite da Vogler nella classica struttura in tre atti tipica delle sceneggiature di Hollywood, benché ravvisabili in "Mantieni l’odio per la tua vendetta" non seguano un procedimento lineare; ancora più interessante se si raffronta il film al suo sequel del 1969, "La sfida degli invincibili campioni" (Du bei dao wang, "Return of the One Armed Swordsman"), che invece presenta il medesimo itinerario non sparigliando le carte ma riordinandole.
Fang Kang rimane orfano nel prologo del film, quando il padre si sacrifica per proteggere il proprio maestro, Qi Rufeng, caposcuola della "spada dorata". Lo shifu è solitamente un venerato maestro delle arti marziali dall’eccellente reputazione: il rapporto tra shifu e discepolo è nello jianghu un sacro vincolo di tipo filiale[8]. Qi, commosso dal gesto del suo prode allievo, gli promette che avrebbe preso sotto la sua ala il figlio. L’unico lascito del padre è la spada tragicamente spezzata. Ellissi. Fang Kang è stuzzicato dal Pei-er, figlia dello shifu: pur essendone innamorata lo maltratta, visto l’atteggiamento fondamentalmente passivo del ragazzo che si limita a obbedire a ogni ordine. Anche all’interno della scuola si rivede la rigida gerarchia della società, coi figli degli aristocratici che si comportano da boriosi arroganti nei confronti dell’orfano Fang Kang, forte, però, del suo talento di artista marziale. Le già citate virtù di yi ("giustezza, onore"), xin ("fiducia"), gong ("rispetto"), jie ("ordine") e rang ("tolleranza") innervano la personalità del giovane, il quale dimostra anche una totale devozione nei confronti del proprio shifu. È per questo che quando viene sfidato a duello da due compagni e da Pei-er decide di lasciare la scuola, rendendosi conto che la sua presenza mette a repentaglio l’ordine e l’equilibrio della casa. In tal modo il superamento della prima soglia e l’ingresso nel mondo meraviglioso ("special world") di Vogler diviene nella pellicola di Zhang il ritorno alla realtà sociale quotidiana, separata dallo jianghu. Accade – e in un secondo momento vedremo come – che Fang venga mutilato e sia salvato dalla contadina Xiaoman, che lo cura e ne innamora; il giovane decide allora di abbandonare la sua vecchia vita e con essa l'ambizione di portare in alto il nome del padre. Fang Kang che è l'erede designato della scuola della "spada dorata" diventa un uomo comune, anche se soffre per la sua menomazione accorgendosi di essere inerme di fronte alle ingiustizie. È a quel punto che la ragazza svela al protagonista di essere discendente di una famiglia di artisti marziali, ma che sua madre le ha insegnato ad avversare quel mondo; suo padre, morto violentemente, ha lasciato in eredità un vecchio manuale andato per metà bruciato. Fang scopre nuove tecniche che gli permettono di sfruttare a suo vantaggio il proprio handicap: la sua arma non può che divenire la spada spezzata del padre, prolungamento del proprio arto e metonimia della sua condizione. L’iniziazione del secondo atto è rispettata, ma mancano tutti i presupposti classici: non c’è alcuna chiamata all’avventura, il mentore è paradossalmente la pacifica contadina che fa promettere al nostro eroe di non praticare più le arti marziali. La prova centrale, ossia la fase del racconto in cui l’eroe muore e rinasce con una nuova consapevolezza, avviene al di fuori dello jianghu, la catarsi e la ricompensa di Fang Kang è interiore e celata allo sguardo di chiunque. Il terzo atto scandito tra "la via del ritorno", "la resurrezione" e il "ritorno con l’elisir" è condotto in maniera coerente allo schema di Vogler, benché non vi sia trionfo nel riscatto del nostro eroe né alcuna ricomposizione dell'equilibrio iniziale: il pessimista Zhang, regista della materialità e della pesantezza dei corpi, acutizza «la difficoltà di distinguere il bene dal male, la scarsa soddisfazione e la fatica nella vittoria del bene»[9].
La forma della violenza
Una prima evidenza a un esame formale riguarda la presenza di una peculiare frizione tra la stilizzazione teatrale dell’immaginario (set-decor, costumi, acconciature) e il trattamento realista della messa in scena operata dal regista. Nei film wuxia diviene centrale la messa in scena dell’azione del duello mostrante l’abilità e la destrezza degli eroi; la materia da modellare è dunque la violenza la cui rappresentazione forgia un'estetica innovativa e altamente influente. Come scrive Alberto Pezzotta, «il cinema moderno di Hong Kong nasce dai duelli e dagli eroi che volano: iconograficamente e tematicamente non sono una novità, ma nuovo è lo stile con cui vengono rappresentati. Il cinema d’avanguardia, a Hong Kong, nasce come cinema di massa»[10].
Campo medio in una foresta sotto la neve: Fang Kang sta per andarsene, ha di fronte Pei-er e altri due compagni. Pei-er lo sfida ma il ragazzo preferisce uno scontro a mani nude per paura di ferirla: una carrellata laterale di circa dieci secondi mostra la scaramuccia. Seguono inquadrature di raccordo fino a Pei-er a terra che piagnucola per la prepotenza del giovane; stacco sul primo piano di Fang Kang che si avvicina a Pei-er per rammentarle che è stata lei a voler combattere a tutti i costi: l’uso del dolly a seguire il movimento di Fang prolunga l’inquadratura (14'') e si conclude quando Pei-er sta per mettere mano alla spada. Due fulminee inquadrature cut-cut (1'') raffigurano il primo piano di Pei-er contratto dalla rabbia e il controcampo con zoom out su quello di Fang Kang, mentre cala la lama della spada; stacco sul braccio che cade sulla neve macchiandola di sangue (2''); raccordo sullo spadaccino che si inginocchia per il dolore con la macchina a mano che va allontanandosi (4''). Zhang Che dilata il tempo dell’inquadratura per poi contrarlo improvvisamente, giocando in tal modo con le aspettative del pubblico e prendendolo in controtempo, così come Pei-er sorprende Fang: l'amputazione avviene in una frazione di secondo e in un momento in cui l’eroe sembrava controllare la situazione.
Successivamente il protagonista decide di intervenire per salvare Pei-er, caduta nelle mani dei seguaci di Cheng Tianshou "Tigre sorridente" (fratello del "Diavolo dal Lungo Braccio", acerrimo nemico di Qi Rufeng), ma si maschera per non farsi riconoscere. Lo scontro dura pochissimo: piano medio di Fang Kang che para con una mano sola i fendenti dei nemici; raccordo sul primo piano dell’eroe che con una dinamica ripresa a mano è filmato mentre si difende; taglio su un piano ravvicinato della cintola da cui Fang sguaina la spada mozzata; due inquadrature con gli arti mozzati degli avversari che ancora impugnano la loro arma. Le inquadrature sono brevi e movimentate, la rapidità dell’azione è aumentata dal montaggio ellittico che spiazza tramite il dettaglio gore delle mani amputate, saltando l’impatto. Zhang non risparmia mai l’aspetto grafico della violenza e, anzi, col tempo sarebbero aumentate le immagini crudeli e grandguignol.
Siamo al duello finale: Fang Kang è arrivato appena in tempo alla casa di Qi Rufeng per salvarlo. Nel frattempo tutti i suoi allievi sono stati uccisi dal Diavolo dal Lungo Braccio e dai suoi seguaci. Il combattimento è iniziato: non c’è musica, gli unici rumori provengono dal clangore delle armi e la macchina a spalla dona instabilità alle inquadrature tanto da sembrare spostate dalla furia delle spade. Primo piano di Fang che, perfettamente al centro del quadro, abbassa la sua arma puntandola verso l’obiettivo e, contemporaneamente, china il capo; la macchina a spalla indietreggia lasciando in decadrage il protagonista, così da permettere all’avversario di entrare da destra riprendendo il combattimento tra parate e salti. Poi il Diavolo dal Lungo Braccio getta la spada e tira fuori una frusta con cui colpisce ripetutamente il nostro eroe: l’inquadratura plongée è scossa da ogni frustata mentre l’eroe si rotola sul prato. L’epilogo del duello è secco, una trentina di secondi per un totale di undici cut montati secondo una logica cristallina e molto classica; lo spazio e la dinamica degli eventi è perfettamente leggibile: lo spazio è coerente, i raccordi omogenei, e anche la regola dei 180° viene rispettata[11]. È un esempio di quello che il teorico David Bordwell chiama montaggio costruttivista: un'azione complessa le cui informazioni vengono segmentate in piani diversi e ricostruite in modo unitario dall’occhio dello spettatore.
In uno stile duttile e in anni in cui Zhang sperimenta soluzioni espressive diverse (dalla macchina a spalla al dolly, dal long take al montaggio rapido ed ellittico), si fanno notare le improvvise zoomate che, allargando il quadro, enfatizzano un dettaglio o producono un effetto sorpresa. Lo zoom è una tecnica che consente un montaggio interno all’inquadratura stessa, mappando lo spazio, ritagliando campi della visione e poi cambiandoli in modo inatteso. Il suo uso in "The One-Armed Showrdsman" è parcellizzato e ancora lontano dalle ridondanze dei lavori di Zhang degli anni 70, caratterizzato anche dall'utilizzo diffuso del rallenty. Il gradiente spettacolare nei duelli aumenterà nelle pellicole successive man mano che maturerà il talento di Lau Kar-leung, martial art director e stretto collaboratore del regista fino alla prima metà degli anni Settanta.
Il corpo dell’eroe
Lo spadaccino monco di "Mantieni l’odio per la tua vendetta" rappresenta la prima tappa di un percorso di esplorazione del corpo eroico che Zhang Che condurrà in lungo e in largo nel suo cinema. Il viaggio interiore di Fang Kang è quello tipico del romanzo di formazione e la perdita dell’arto lo costringe a maturare, guardando il mondo attraverso un’altra prospettiva (prima di avviarsi alla vita da agricoltore, dirà che finora aveva conosciuto solo le arti marziali): in questa parabola assume un ruolo di rilievo Xiaoman, una delle rare donne positive nella filmografia di un regista spesso misogino. La ragazza è ignara del proprio cognome perché la madre non gliel’ha rivelato onde evitare che, in futuro, cercasse vendetta per la morte del genitore e critica apertamente lo xia, da cui origina quel sistema di valori a causa dei quali sia lei, sia Fang hanno perso il padre. E sempre a causa delle arti marziali, rimarca Xiaoman, è stato ingiustamente mutilato[12]. Alla fine del film, la reputazione e la ricerca della gloria non appaiono più come obiettivi degni di un’esistenza: il linguaggio della violenza di Zhang è dunque problematizzato moralmente, mantenendo il corpo eroico quale baricentro laboratoriale. Quando l'autore gira "Golden Swallow" (Jīn Yàn Zǐ, 1968), riprendendo il personaggio di Rondine d'oro, concentra la sua riflessione sull’amico d’infanzia (ed ex amante) dell’eroina (motore della narrazione, ma ai margini), ossia Silver Roc, uno spadaccino giustizialista e sanguinario, uno dei primi eroi tormentati e in fondo sociopatici del cinema del regista. L’immagine dell'eroe la cui carne è stata lacerata e la cui veste bianca è imbrattata di sangue diverrà una figura paradigmatica dell’opera di Zhang, da "La mano sinistra della violenza" (Shin du bei dao, "The New One-Armed Swordsman", 1971), una sorta di reboot della saga con David Chiang nei panni dello spadaccino monco che, peccando di hybris, decide di auto-mutilarsi, all'eccellente "Vengeance" (Bao chou, 1971), un mirabile mélange tra il kung fu-film, il noir allucinato di "Point Blank" (Boorman, 1967) e le fiammeggianti invenzioni visive di Seijun Suzuki. In "Mantieni l’odio per la tua vendetta" Fang indossa (quasi) sempre vestiti scuri, anonimi rispetto agli sgargianti costumi di altri personaggi, segnale della sua estraniazione rispetto allo jianghu a cui ritorna solo per saldare il proprio debito di riconoscenza con lo shifu. Gli eroi di Zhang si avviano a mietere vittime mantenendo nei confronti della violenza un atteggiamento ambiguo di attrazione-repulsione: alcuni, come Fang Kang, si vedono costretti dalle circostanze a imbracciare le armi, ma in seguito, ancor più dell'onore, sarà la sete di vendetta e un personale senso di giustizia a spingere i cavalieri a uccidere, in un itinerario in cui il disgusto per la carneficina cede il passo a un'ebbra assuefazione al sangue. Il feticismo per il sensuale corpo dell'eroe, inquadrato in pose stentoree e muscolari ma al contempo sadicamente torturato e dilaniato, dimostra la libertà espressiva del cinema hongkonghese che non ha il tabù di mettere a morte i propri protagonisti. Il risultato è una grammatica della violenza espressionista fino al parossismo, che in diverse pellicole filmerà smembramenti e personaggi che, con le lame conficcate nello stomaco, proseguono la loro furiosa lotta finché l'ultimo nemico non sarà caduto. L'influenza sui cineasti posteriori è plateale, a cominciare dall’opera di Lau Kar-leung e dal caso emblematico di John Woo. Assistente di Zhang sul set di "Blood Brothers" (1973), Woo avrà una carriera che lo porterà alla notorietà internazionale negli anni 80, quando muterà i salti e le coreografie degli spadaccini negli esasperati duelli pistoleri dell’heroic blodsheed movie. Anche quelli corpi eroici saldamente ancorati al proprio codice d’onore e profondamente mortali.
[1] Chang Cheh è la forma più diffusa in Occidente, sebbene la trascrizione pinyin corretta sia Zhang Che, che useremo d'ora in avanti.
[2] Una delle più famose eroine di xia al femminile è Nie Yinniang, protagonista di "The Assassin" di Hou Hsiao-hsien.
[3] Il termine nasce infatti per tradurre il giapponese bukyō, un genere narrativo che aveva come protagonisti valorosi personaggi maschili che aderivano al codice di condotta dei samurai (il bushido).
[4] Altri termini per indicare le comunità parallele formate dagli appartenenti allo xia sono wulin ("foresta marziale") e lulin. Non solo i cavalieri fanno però parte di questo mondo, ma anche ladri, nobili, curatori, mendicanti, preti.
[5] Per fare un esempio recente, il titolo originale de "I figli del fiume giallo" di Jia Zhangke è "Jiānghú érnǚ", letteralmente "I figli dei fiumi e dei laghi" o, appunto”, "I figli della Triade (della malavita)".
[6] A tal proposito Alberto Pezzotta scrive: «Quando Zhang Che comincia a dirigere i film di arti marziali, uno dei suoi obiettivi dichiarati è quello di restaurare le virtù guerriere e di costruire uno star system maschile per rimpiazzare quello femminile allora dominante [...] Zhang Che dichiara non a caso di essere vicino al mondo di Gu Long, lo scrittore taiwanese di romanzi wuxia più influente degli anni Sessanta, che professa il ritorno alla concezione confuciana secondo cui la donna deve obbedire al padre finché è nubile, al marito da sposata e al figlio da vedova» in A. Pezzotta, Tutto il cinema di Hong Kong, Baldini & Castoldi, Milano, 1999, pp. 191 e 397-8.
[7] Ivi, p. 400.
[8] Il rapporto maestro-discepolo nelle opere di Zhang verrà presto sostituito da un’amicizia virile che non manca di sfumature omoerotiche. E sulla presunta omosessualità del regista tanto si è chiacchierato.
[9] A. Pezzotta, cit., p. 77.
[10] Ivi, p. 73.
[11] Cfr. ivi, p. 79.
[12] Opposta a Xiaoman c’è la viziata Pei-er che, atteggiandosi a guerriero, riesce a guastare il corpo dell’eroe e a essere indiretta causa della morte di alcuni allievi del padre. Nella realtà machista di Zhang Che la donna può al limite essere l'angelo del focolare domestico.
cast:
Wang Yu, Pan Yin-Tze, Chiao Chiao, Tien Feng, Tang Ti, Yeung Chi-hing
regia:
Chang Cheh
titolo originale:
Dú Bì Dāo
durata:
116'
produzione:
Shaw Brothers Studio
sceneggiatura:
Chang Cheh, Ni Kuang
fotografia:
Yuen Chang-sam, Kuang Han-lu
scenografie:
Chen Ching-shen
montaggio:
Chiang Hsing-lung
musiche:
Wang Fu-ling