Per parlarvi del nuovo film di Jia Zhangke, vi portiamo in dote un'esperienza vissuta in prima persona dall'autore della recensione. Un esperimento che ha dato i suoi frutti. Abbiamo provato a visionare l'opera una prima volta in lingua originale, senza sottotitoli. E poi una seconda volta, con il doppiaggio realizzato dalla casa di distribuzione CINEMA. È difficile riuscire a farvi capire lo stupore provato nell'aver realizzato come, anche senza comprendere i dialoghi in cinese dei protagonisti, la comprensione delle vicende fosse stata assolutamente limpida e completa. Forse un modo per spiegarvi come mai tutto questo è stato possibile c'è. Ed è contenuto nell'opera stessa di Jia, in questa e in tutte le sue precedenti. Il cineasta nativo di Fenyang conferma ancora una volta l'impressionante abilità di parlarci attraverso le immagini che immmortalano il suo gigantesco Paese: riprese che sanno oscillare tra il primo piano angusto che cattura i dettagli di un'espressione facciale e dei campi lunghissimi solenni che proiettano lo spettatore direttamente dentro un paesaggio splendido o decadente, a seconda dei casi. Il rapporto di Jia con la sua Cina, questo suo continuo stupirsi di fronte al cambiamento costante del paesaggio naturale e urbanistico, trova nuovamente conferma ne "I figli del Fiume Giallo". Ancora una volta l'immagine parla un linguaggio universale, trascende la parola e il confronto dialettico, si fa essa stessa personaggio che muta esattamente come gli esseri umani che animano le vicende.
Il titolo italiano traduce quasi letteralmente quello originale (mentre nella versione internazionale in inglese, "Ash Is Purest White", ci si allontana verso un significato che orienti la visione sulla sponda gangster della pellicola), ma, dato che una trasposizione fedele dal cinese è impossibile, tradisce involontariamente il senso stesso voluto da Jia. "Figli e figlie del Jianghu", oltre che omaggio disinteressato e senza alcuna pretesa di attinenza tematica a uno dei più mitici lungometraggi del maestro Fei Mu, è anche un modo di dire gergale proprio di quelle terre del nord della Cina da cui l'autore proviene. "Figli e figlie" si riferisce a uomini e donne che amano e odiano con trasporto e passione. La parola Jianghu, invece, utilizzata per descrivere la comunità di artisti di arti marziali, ma che poi è stata mutuata per riferirsi più in generale agli ambienti criminali mafiosi cinesi, ha anche un senso più alto e nobile, ovvero quell'universo di emozioni drammatiche e pericoli reali che nel film, o esibiti o sotto traccia, caratterizzano le avventure spericolate degli appassionati protagonisti. Insomma, già dal titolo, Jia ci parla di grandi sentimenti, di slanci emotivi e cocenti delusioni, di aspettative frustrate, legami indissolubili e mutamenti storici ineluttabili. Il cinema di questo regista, che a guardarlo sembra un eterno ragazzino, continua a fondarsi su un binomio di elementi antitetici eppure sorprendentemente coordinati: la magniloquenza di storie che si estendono in archi temporali ampi e la cura certosina utilizzata nel parlare delle relazioni umane.
Nel 2001, nell’impoverita città mineraria cinese di Datong, vive una ex ballerina di nome Qiao che è innamorata di Bin, un gangster locale. Durante un combattimento con gang rivali Qiao spara per proteggere Bin e viene condannata a cinque anni di prigione. Al termine della detenzione si mette alla ricerca di Bin per provare a ricominciare tutto da capo, ma le cose sono cambiate: Bin si è rifatto una vita, ha lasciato lo Shanxi e si è trasferito nella regione delle Tre Gole, dove Qiao, senza soldi e amici, comincia un dolente pellegrinaggio attraversando una zona tanto stupefacente per la maestosità della natura, quanto inquietante per un'opera dell'uomo che si fa giorno dopo giorno sempre più invasiva. I cinque anni che intercorrono fra l'epoca felice nello Shanxi (sarebbe il 2001) e il ritorno alla realtà sulle rive del Fiume Azzurro (un po' grottesco realizzare che nel titolo italiano si fa menzione del corso d'acqua sbagliato) costituiscono l'asse temporale attraverso cui Jia trasforma la Cina del passato in una realtà totalmente differente, una sorta di ambientazione alternativa dove i luoghi sono gli stessi, ma tutto il resto è cambiato. Qualcuno dirà: facile per un autore cinese bravo tecnicamente parlare di grandi cambiamenti, quando è il luogo stesso dove ambienta i suoi film a offrire così tanti spunti di osservazione. Non è così: è lo sguardo di Jia a penetrare così pervicacemente la Grande Nazione, imprimendo sulla pellicola le trasformazioni economiche, sociali e politiche, aggirando abilmente la censura di Pechino, senza mai rinunciare a una messa in scena profondamente umanista, capace di scavare nell'intimità di uomini e donne che appaiono così vicini a noi occidentali, seppur così lontani geograficamente.
L'ulteriore salto temporale, di altri dodici anni, ci riporta, per la terza e ultima parte della storia, a Datong, dove tutto era cominciato. Qui, nel nord dello Shanxi, ritroviamo gli stessi personaggi, un po' più avviliti e provati dagli anni che sono passati. Tutto intorno, però, è cambiato tutto: le industrie del carbone sono in disuso, la città si è parzialmente svuotata, la gente è emigrata altrove. Adesso la Cina punta su altri mercati, ci sono altre regioni che devono essere sfruttate. A metà film abbiamo osservato la regione delle Tre Gole, proprio durante il suo cambiamento epocale, quando intere zone di Fengjie sono state abbattute per far spazio alle costruzioni che avrebbero dovuto contenere l'enorme afflusso di acqua. A fine film intuiamo, senza però vederne gli effetti sullo schermo, che il colosso asiatico sta ancora mutando pelle. I personaggi parlano spesso dello Xinjiang, la regione dell'estremo nord-ovest, dove in molti sono andati a lavorare perché il governo sta investendo sul gas e il petrolio, abbandonando le vecchie strategie industriali.
In tutto ciò, Jia parla ancora una volta di amore e legami familiari. Con occhio compassionevole, ma al tempo stesso severo, il regista prende atto dell'inestricabile relazione che esiste fra la Storia e le piccole storie narrate: per quanto forti siano i sentimenti, per quanto durevoli possano sembrare le emozioni, nessun rapporto è immune dall'erosione del tempo. Succede anche a Qiao e Bin, che si lasciano e si prendono come in un grande melodramma hongkonghese senza mai più trovare un assetto in equilibrio come all'inizio. Il cinema di Jia, ormai, anche quando abbassa di un po' l'asticella dell'ambizione, costituisce un universo autonomo e autosufficiente. La purezza della sua scrittura, la concretezza delle sue idee contribuisce a rendere la sua opera, considerata nel suo insieme, una sorta di impressionante, unico blocco, dove le singole opere si parlano e rimandano l'una all'altra. Così, stavolta, il personaggio interpretato dalla sempre magnifica Zhao Tao, moglie e musa del cineasta, è una reminiscenza di altre eroine viste in passato, in "Unknown Pleasure" e in "Still Life". In realtà, però, "I figli del Fiume Giallo" guarda direttamente, come in uno specchio riflesso, al precedente capolavoro di Jia, "Al di là delle montagne". Anche allora, quell'opera-mondo si articolava in tre parti diluite nel tempo e metteva alla prova della Storia i suoi protagonisti. Solo che stavolta non c'è un futuro, non c'è un'immaginaria Australia "colonizzata" a fare da presagio. Jia stavolta si è concentrato sul presente, che è l'approdo finale delle peripezie di Qiao e Bin. Se nel 2001, la Cina di questi uomini e donne sembrava assorbire dall'Occidente solo il buono di cui necessitava per crescere e poi continuava su una propria strada fatta di tradizioni e ambizioni, nel 2018 di Datong è rimasto ben poco di quel sogno, di quel calore umano, di quella tenerezza di sacrifici reciproci. Anche qui, nel profondo Shanxi, ci si parla attraverso la tecnologia e può capitare, addirittura, di lasciarsi con un messaggio vocale, dimenticando, forse, l'amore profondo che c'è stato.
cast:
Zhao Tao, Liao Fan, Xu Zheng, Casper Liang, Diao Yinan
regia:
Jia Zhangke
titolo originale:
Jiānghú érnǚ
distribuzione:
CINEMA
durata:
136'
produzione:
Shanghai Film Group, Xstream Pictures, Huanxi Media Group, MK2, Huayi Brothers, Beijing Runjin Inves
sceneggiatura:
Jia Zhangke
fotografia:
Éric Gautier
montaggio:
Matthieu Laclau
musiche:
Lim Giong