Per commemorare il Maestro Morricone, riproponiamo questo speciale che ne omaggiava la figura e l'enorme carriera.
Per il terzo anno la redazione di Ondacinema si è riunita per assegnare un simbolico riconoscimento alla figura vivente che più di ogni altra abbia contribuito alla grandezza della Settima arte. E questa volta si respira aria di casa: dopo David Lynch e Jack Nicholson, il vincitore dell'edizione 2013 è il maestro Ennio Morricone
1. Introduzione
Fin dai tempi degli studi al Conservatorio romano di Santa Cecilia, sotto lo sguardo del grande Goffredo Petrassi, la personalità artistica di Morricone venne a maturare seguendo due distinte direttrici: alla severa formazione teorica in accademia, infatti, il giovane musicista affiancò da subito la pratica nei locali da ballo, dove spesso sostituiva il padre in orchestrine di intrattenimento come suonatore di tromba. Questa peculiarità è alla base del duplice approccio all'arte compositiva che da sempre caratterizza l'operato del Maestro, capace di aderire con naturalezza al serialismo d'avanguardia e, contemporaneamente, di farsi protagonista indiscusso della popular music, grazie agli arrangiamenti che negli anni Cinquanta avrebbero portato al successo i membri della RCA italiana (Gino Paoli, Gianni Morandi, Edoardo Vianello, Miranda Martino e molti altri). In questi anni, l'obiettivo di Morricone è anzitutto quello di nobilitare la "materia bassa" delle canzonette, inoculando frammenti di musica classica, abbozzi di serie dodecafoniche, invisibili esperimenti d'avanguardia nel tessuto ordinario di spartiti consapevolmente commerciali. Non è un caso che quei pezzi popolari siano riusciti a scavarsi una nicchia nel nostro immaginario, fino a vincere la prova del tempo; in essi il valore intrinseco della struttura musicale va ben oltre la semplice orecchiabilità dell'assunto melodico. All'incedere spesso insignificante dei motivetti l'abilità di Morricone affianca uno sviluppo imprevedibile dell'architettura sonora: è quel che avviene con il grottesco coretto che apre "Abbronzatissima" (preludio di tante, successive invenzioni cinematografiche), con gli arzigogoli dell'orchestra che sorreggono "In ginocchio da te" o con l'accompagnamento di "Voce ‘e notte", che riprende l'Adagio beethoveniano della "Sonata al chiaro di luna".
2. Tra sperimentazioni timbriche e il mondo del varietà
L'ingresso ufficiale nel mondo del cinema avviene in sordina, nel 1961, grazie all'incoraggiamento di Luciano Salce, che aveva già apprezzato l'abilità del Maestro in due commedie teatrali da lui dirette.
Nello score de Il Federale, stralunato racconto on the road dell'irriducibile fascista Primo Arcovazzi, cui viene affidato il compito di scortare a Roma un filosofo "sabaudo-badogliano", Morricone, appena trentenne, rivela già piena padronanza della tecnica compositiva, adeguando i primi vagiti di una sperimentazione timbrica, che più avanti diverrà marchio irrinunciabile del suo stile, all'andatura grottesca di un film, che si inoltra, tra il serio e il faceto, nelle meschinità dell'Italia post-bellica. Non dissimile dalla soluzione tematica che successivamente John Williams svilupperà per 1941: Allarme ad Hollywood, il commento musicale muove da un rigido tempo di marcetta, su cui si impone, inatteso, l'incedere goffo degli ottoni, simbolico preludio alle frequenti virate sarcastiche della pellicola. Tutt'altro che acerbo, questo primo lavoro dimostra già la piena aderenza delle idee musicali al contesto filmico, una coesione agevolata dalla variegata esperienza pregressa di Morricone, che, in qualità di arrangiatore, era spesso costretto ad adeguarsi alle richieste della committenza: "il regista dà la struttura culturale di fondo allo spettacolo; la musica non può né smentirla, né dimostrarsi indifferente, se vuole essere buona musica filmica".
Una corrispondenza di intenti facilitata, nel caso specifico, dalla buona intesa con Salce, al punto che Il Federale può considerarsi come il primissimo atto di una collaborazione duratura, proseguita negli anni seguenti con il trascurabile Le monachine (1963), che poco aggiunge al precedente lavoro e si limita a seguire con armonie sbarazzine il ritmo leggero e trasognato della narrazione, ma, soprattutto, con El Greco (1964), dimenticata biografia del pittore Theotokopoulos ambientata nella spagna cattolica del XVI secolo. Nel compenetrarsi di cori dal sapore mistico e profondi incisi scavati dal pianoforte, di allegri stacchetti medievali e malinconiche elegie affidate ad una tromba (che, nel brano "Angoscia e ricerca", sembra preannunciare le sonorità della stagione western), in questo incedere parallelo di sacro e profano si può scorgere la graduale maturazione di un eclettismo mai votato alla pura esibizione, ma capace di interpretare le diverse anime di una pellicola stratificata, pur rivestita di toni drammatici (e si veda come le sfumature più brillanti del brano "Festa" vengano subito stemperate dall'organo contemplativo di "Rituale").
Nel 1964, dunque, Morricone è un giovane compositore, che può già vantare un gran numero di collaborazioni con alcuni tra i più celebri esponenti della canzone italiana, una copiosa esperienza di arrangiatore per l'orchestra radiofonica della RAI e un buon sodalizio con alcune firme emergenti del cinema italiano. Difficile immaginare quale sarebbe stato l'esito di questa carriera promettente, se l'incontro con un giovane regista, suo compagno alle scuole elementari, non avesse prodotto uno dei più vividi sodalizi artistici del nostro tempo. Le partiture scaturite dalla collaborazione con Sergio Leone vibrano di quell'urgenza sperimentale che muoveva il gruppo di improvvisazione Nuova Consonanza, di un'ansia di ricerca capace di sfaldare le consuetudini musicali e tradurre in linguaggio tonale il verso di un coyote, di ibridare facili melodie e inusitate soluzioni timbriche, col risultato di aggirare tanto le roccaforti della musica colta quanto le paludi del facile melodismo. Le musiche di Morricone sono l'imprevedibile esito di una personalità poliedrica, animata sin dagli anni della formazione da interessi variegati ed esperienze compositive libere da schemi pregressi, capace, pertanto, di innestare tradizioni insospettabili in una commistione stilistica di rara efficacia, sulla quale si impone il rigido controllo della sua formazione accademica.
Questa originalità dell'approccio è rinvenibile già nei titoli della cosiddetta trilogia del dollaro (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo), in cui si intravede un personalissimo modello compositivo fondato sulla segmentazione dei contributi orchestrali.
L'apertura, di carattere arcaico o minimale, è il momento prevalente della sperimentazione timbrica, sempre affidata a strumenti poveri (dal fischio umano alle note sbilenche del marranzano, dall'arghilofono, parente grezzo della più nota ocarina, all'armonica a bocca), innestati su un tappeto percussivo di fruste schioccate e incudini battute. Il secondo frammento incivilisce l'atmosfera pauperistica dell'esordio con l'ingresso di una chitarra elettrica, aggressiva quanto basta per aggiornare alla modernità lo sviluppo del primo segmento, ma altrettanto educata da rifiutare le distorsioni trasgressive del rock anni Ottanta. L'ultimo segmento, più convenzionale, estende il dialogo alla tradizione classica, appoggiandosi ai vocalizzi di un coro maschile e all'orchestra d'archi. In tal modo, il florilegio di invenzioni sonore di cui palpitano le pellicole si sviluppa attraverso una concezione modulare, che lavora per sovrapposizione di un numero limitato di cellule distinte: ciascuno dei tre frammenti può apparire isolato, oppure sovrapporsi agli altri, facendosi carico delle esigenze dettate dal contesto filmico. Prevarrà, ad esempio, il primo segmento nelle sequenze più caustiche e dal sapore antieroico (si vedano le entrate in scena del protagonista, accompagnate da una semplice modulazione del fischio o i molti momenti di stallo risolti musicalmente con un pizzico dello scacciapensieri), mentre le sequenze di maggior tensione emotiva saranno risolte con un climax dei tre materiali sovrapposti (emblematica la corsa di Tuco nel cimitero accompagnata da quel tripudio di commistioni stilistiche che è "L'estasi dell'oro").
Operando in questo modo, Morricone amplia a dismisura lo spettro dei referenti, consentendo alla sua musica di raggiungere un pubblico fortemente eterogeneo sia dal punto di vista culturale che generazionale. Se, infatti, il primo segmento, in virtù dell'indigenza dei suoi mezzi espressivi, vibra di una forza primigenia non priva di impulsi anticonformisti (rivelandosi, in ultima analisi, il più sofisticato ed allusivo dei tre), il secondo, deputato al controllo delle spinte anarchiche, ne smussa le asperità fino ad evocare gli orizzonti di un rock addomesticato, quasi casalingo, privo di distorsioni e contrasti. In questo modo, nell'evocare panorami trasgressivi sempre respinti un attimo prima di concretizzarsi, la colonna sonora si apre ad una vasto consenso popolare, che raggiunge l'apice nella spudorata esplosione melodica del terzo segmento, debordante di retorica e istinti autocelebrativi.
Fermo restando che una simile analisi non potrà mai esaurire la ricchezza di una scrittura come quella di Morricone, multiforme e capace di moltiplicare i livelli di espressione, essa può comunque rivelarsi un buon punto di partenza per indagare le ragioni di un successo che dura inalterato da ormai cinquant'anni e appare privo di confini generazionali.
Attenzione, però, a non travisare il senso dell'analisi per sostenere l'ipotesi peregrina di una musica concepita a tavolino per il mercato. La realtà è ben diversa e sintetizzata nelle parole dello stesso Morricone: "Ho sempre creduto che uno dei mezzi più importanti del compositore cinematografico fosse l'invenzione timbrica. Ho cominciato a sperimentare questa maniera di pensare a musica appositamente per la scena e soprattutto per il personaggio in Per un pugno di dollari e poi in tutti gli altri film di Leone. Il cinema western mi ha dato questo aiuto, perché il genere, perlomeno come lo ha inteso Leone, è un genere picaresco, scherzoso, drammatico, divertente, caustico, tutto sopra le righe". Non è, dunque, la colonna sonora ad addolcire il proprio carattere sperimentale per incontrare il consenso della società dei consumi, ma la natura stessa del cinema western di Leone, così improntato all'eccesso e all'iperbole costante, a richiedere di "gonfiare i toni della strumentazione" fino al dimenarsi sfrenato degli archi e all'inserimento di un berciante coro di balordi. Ancora Morricone spiega che "tutto, compresa la parte sonora, avrebbe dovuto essere più di quel che era", corroborando quel principio di adeguamento del materiale sonoro al contesto, che già si era annunciato nei primi lavori e che raggiunge l'apice con Il buono, il brutto e il cattivo.
Nella scena in cui Tuco scorrazza per il cimitero alla ricerca della lapide, la vertigine dell'oro si traduce nell'impulsivo ostinato del pianoforte, costante sostegno di uno sviluppo melodico, che si offre come il risultato di una fine ricerca dei sincroni tra musica e immagini. Ancora oggi il loro spontaneo amalgama non può che lasciare increduli, considerato che l'unico sincrono davvero evidente (Leone ne aveva chiesti 24) è l'ultimo, quando il brano viene bruscamente troncato da uno zoom sulla tomba di Stenton. La scena rappresenta uno dei più alti momenti di concentrazione audiovisiva, in cui lo spettatore viene catapultato in un immaginario nutrito dall'accumulo di elementi topici: i vocalizzi di Edda Dell'Orso, le vocine beffarde, l'incalzare percussivo che si fa forsennato nel finale e, ovviamente, il crescendo che procede per dilatazione dell'organico orchestrale.
In questi fertili anni, sfruttando il suo duttile patrimonio culturale, Morricone si inoltra con crescente consapevolezza nel mondo della musica applicata, sperimentando nuove soluzioni timbriche e sviluppando un'invidiabile padronanza delle più disparate tradizioni musicali, spesso contaminate e sovrapposte. Non è certo un caso isolato la citazione, nel tema della "Resa dei conti" (da Per qualche dollaro in più), del celebre mordente che apre la "Toccata e Fuga in Re min." di Bach ed è divertente osservare quanto Morricone si barcameni nelle interviste per giustificare queste incursioni sacrileghe con l'alibi del contesto filmico; a poco vale il richiamo alla chiesetta sconsacrata che accompagna la scena del duello per motivare la presenza dell'organo in partitura e la strizzata d'occhio a Bach. Più evidente, invece, la soddisfazione che deve aver provato il compositore per essere riuscito a nascondere stralci di musica assoluta in un contesto spurio, così da "nobilitare", per sua stessa ammissione, un universo sonoro, quello della musica cinematografica, generalmente considerato di seconda mano.
La pratica, comunque, al di là dello stoicismo dimostrato nel difendere il proprio lavoro, non è esente da un certo spirito goliardico, tanto che Morricone la riproporrà in diverse occasioni, includendovi i materiali più disparati, dal Mozart di "Kleine Nachtmusik KV 525" di Giù la testa (1971) all'intrusione del beethoveniano "Per Elisa" nel brano "La condanna", successivamente riciclato da Quentin Tarantino nel suo Bastardi senza gloria, ma originariamente presente nel film di Sollima La resa dei conti (1967). Pellicola, quest'ultima, in cui prosegue la ricerca di soluzioni musicali che possano aderire alla psicologia dei personaggi e, nel contempo, sostenere la qualità della messa in scena: emblematici i titoli di testa, con il comparto vocale che ansima nervosamente, mimando l'affanno della corsa del protagonista.
È, però, con C'era una volta il West (1968), quarta collaborazione con l'amico Leone, che la frammentazione delle tracce musicali evidenziata nella trilogia del dollaro raggiunge una prima maturazione. Scomparse le asperità della chitarra elettrica dai titoli di testa, il primo segmento è affidato ad un clavicembalo, che modula un'ordinaria frase discendente e introduce i sensuali vocalizzi di Edda Dell'Orso. C'è, forse, in questa scelta un più contenuto impulso sperimentale rispetto alla piena avanguardia che caratterizzava i precedenti film western; qui i materiali risultano meglio dosati, benché, forse, meno originali, e, soprattutto, accuratamente selezionati. Non a caso il film può essere considerato come il primo tentativo consapevole di una produzione dal respiro internazionale, sulla scia del successo della precedente, celebrata trilogia. Questo allargamento degli orizzonti di mercato si avverte, anche nel trattamento del soggetto (scritto dal regista con Dario Argento e Bernardo Bertolucci), nella commistione di Storia e storie individuali, negli sfondi tragici della Monument Valley di John Ford, nonché nel titanismo di una regia che mira all'epica (e più di qualche avvisaglia era già presente ne Il buono, il brutto e il cattivo). In questo contesto la musica si adegua, facendosi più raffinata, meno spigolosa e optando per una segmentazione delle tracce più ampia, che consenta maggiore autonomia ai singoli frammenti, i quali, ora, possono vivere del proprio sapore evocativo (ed eventualmente essere riversati sul mercato discografico. Non mancano, comunque, nelle scene più propriamente sanguigne gli interventi distorti di una graffiante armonica a bocca e le sonorità rock della chitarra elettrica ("Come una sentenza" e "L'uomo dell'armonica").
In quel 1968 con C'era una volta il West Morricone consegnava alla storia del cinema una delle sue partiture più amate ed eseguite e non è estraneo allo straordinario successo della colonna sonora il meraviglioso, elegante fraseggio di Edda Dell'Orso, che con l'incredibile estensione della sua pregnante vocalità si apprestava a divenire l'interprete ideale delle melodie morriconiane. Non che il maestro fosse particolarmente interessato alle questioni di natura melodica, da lui semplicemente ritenute necessarie, in quanto "unico possibile strumento di intesa con il regista", ma irrilevanti se confrontate con il ruolo dei ritmi, la cura della strumentazione, la ricerca dei timbri o le possibilità offerte dal contrappunto (fino a smorzare l'entusiasmo delle "signorine che ammirano moltissimo" il tema dei titoli di testa, riducendone l'aura sognante alla meccanica di un semplice esercizio sugli intervalli di sesta - quattro in otto battute).
Al di là di queste considerazioni, quel che importa è che proprio in quegli intrepidi anni Sessanta venne a consolidarsi il personalissimo universo musicale del Maestro, saldamente ancorato al ruolo della vocalità femminile, che accompagnerà il compositore fino alle prove degli anni più recenti (si ascoltino i madrigali composti per La migliore offerta). E sebbene la voce umana sia spesso sottoposta ad un trattamento anticonvenzionale, sino ad astrarla e renderla suono tra i suoni, parte (principale, forse, ma non certo distinta) di una architettura orchestrale complessa e stratificata, non è imprudente ricercare i prodromi di questo atteggiamento nella florida attività di arrangiatore che vide Morricone impegnato negli anni del boom della canzone italiana. Qualcuno ha voluto sottolineare la marginalità di questa esperienza ai fini del lavoro cinematografico, ma, se è vero che il Maestro ha scritto, in definitiva, poche canzoni, il fatto che in esse siano riscontrabili idee poi riversate nella musica per il cinema, dovrebbe bastare a giustificarne l'interesse.
Non è un caso che "Se telefonando", probabilmente la migliore tra le canzoni firmate dal compositore, si chiuda con un fulminante, beffardo coretto, che sarà poi ripreso con sapore sarcastico nel capolavoro d'esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca (1965), per riapparire, tre anni dopo, nel film di Salvatore Samperi Grazie zia (1968), segnatamente nel brano "Guerra e pace Pollo e brace", dove è affidato ad un complesso di voci bianche (e si veda, anche qui, l'ironico contrasto tra il tema scabroso della pellicola - una relazione tra nipote e zia al limite dell'incesto - e l'infantile cantilena).
È, però, nel 1966 che Morricone consegna alla storia uno dei maggiori esempi di canzone applicata al cinema: si tratta dei titoli di testa e di coda dell'apologo poetico di Pier Paolo Pasolini Uccellacci e uccellini. Sebbene questo possa dirsi il primo atto di una collaborazione solida e destinata a durare negli anni (sino alla morte del regista), si trattò anche di una delle poche occasioni che Morricone ebbe per comporre musica ex novo su committenza di Pasolini. Nel Decameron (1971) dovette limitarsi a registrare scialbe melodie popolari e lo stesso fece per I racconti di Canterbury (1972). Qualche soddisfazione in più poté ricavarla da Il fiore delle mille e una notte (1974), ma si trattò di un caso isolato, preludio alla "resa incondizionata" che caratterizzò l'approccio del compositore al brutale Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), in cui figura un unico brano originale (successivamente intitolato "Addio a Pier Paolo Pasolini"), mentre il resto del lavoro riguardò l'arrangiamento di orribili musiche del tempo di guerra, tra il funebre e il grottesco. Difficile dire se fu il carisma di Pasolini, l'ammirazione per il suo lavoro (certo così diverso da qualsiasi altro cinema avesse sino ad allora frequentato), la consapevolezza di una profonda identità artistica o, più probabilmente, un complesso intreccio di queste motivazioni a spingere Morricone alla capitolazione (fino ad ammettere in relazione alle canzoni di Salò "erano cose abbastanza vergognose, però le ho fatte"). Non deve essere stato facile, per il compositore, mettere da parte l'orgoglio, la fierezza che hanno sempre caratterizzato il suo approccio all'arte cinematografica, in specie considerando che all'inizio della collaborazione, quando Pasolini gli chiese di adattare una serie di musiche di repertorio per Uccellacci e uccellini gli rispose con fermezza "Io scrivo musica, non faccio l'adattatore di cose altrui; secondo me ha sbagliato a chiamarmi", ricevendo in risposta il consenso ad una totale libertà creativa, "Allora faccia quello che vuole".
La piena autonomia concessagli da Pasolini, unita al delicato surrealismo che incornicia il film, permisero al compositore di realizzare una variazione sul modello sperimentato nella trilogia western. Non più una segmentazione tripartita, con il sovrapporsi di tracce melodiche autonome, ma un irrompere furibondo di stralci sonori apparentemente irrelati, una summa di interventi al limite della schizofrenia, tra violini scordati, rintocchi di mandolino, colpi inattesi di grancassa, campane e tamburelli, organi e nacchere, ironici gorgheggi e ingenue ocarine, chitarra elettrica, tuba e flauti dolci, e, su tutto, la popolaresca melodia interpretata da Domenico Modugno. Un'invidiabile sintesi di linguaggi, che ben esprime il piacere dell'espressione timbrica, il crogiolo di esperienze sino ad allora maturate, il ritmo sarcastico di una sintassi fieramente iconoclasta. In sintesi, una sorta di singolare, meraviglioso autoritratto del Morricone giovanile, in cui ancora convivono le esigenze commerciali della musica applicata e gli istinti di un talento votato all'esplorazione di nuovi mondi sonori, secondo le spinte dell'avanguardia colta. È in questo senso che va interpretato il divertente frammento puntillista che si nasconde nelle battute finali, cioè come il lascito di una tradizione seriale, legata al modello post-weberiano, che sanciva il primato dei singoli suoni a dispetto dell'intero tessuto musicale. L'ennesimo divertissement di un talento onnivoro.
Eppure, non dovevano essere indolori, per Morricone (ormai vicino alla soglia dei quarant'anni), queste brillanti commistioni di musica alta e bassa. Per quanto spesso avvertiti come scarto ironico al fine di stemperare il lacrimevole melodismo di certe committenze e conquistare, per il proprio lavoro, un attestato di piena dignità, gli inserti classici denunciano anche la sofferta dissociazione di un talento che vede nelle colonne sonore per il cinema un rilevante banco di prova per sperimentazioni trasferibili fin dentro i confini della musica assoluta. Negli anni Sessanta la convergenze tra le due anime di Morricone è instabile, sottoposta continuamente al vaglio di una tormentata riflessione, bene evidenziata dall'esperienza compositiva nel film di Henri Verneuil Il clan dei siciliani (1969). In questo caso il nucleo della ricerca consiste nella sovrapposizione di due materiali tematici poco cantabili; un primo arpeggio che si estende e reitera in forma di ostinato, secondo un processo compositivo ricorrente nell'opera di Johann Sebastian Bach, e un secondo tema formato dalle note Sib-La-Do-Si nat., che, in notazione anglosassone, si scrivono B-A-C-H. Quasi una confessione, questo accorgimento costò a Morricone ben tre mesi di lavoro per trovare la giusta combinazione su quelle quattro note, ma non esaurisce la complessità intertestuale di un brano, che nasconde al proprio interno altre astuzie; non ultima la citazione del celebre Preludio op. 28 n. 4 di Chopin, nel movimento discendente dei violini sul rintocco del marranzano. Tutto questo, ancora una volta, nella cornice di un film di genere.
3. Tra impegno civile e cinema popolare
Nei primi anni Settanta l'incessante lavoro di Morricone giunge ad un significativo punto di svolta. È il momento in cui si comincia ad avvertire un più netto scarto tra l'applicazione di temi dall'elevato profilo melodico (quasi sempre associati a produzioni dalle forti aspettative di mercato) e il ricorso ad audaci soluzioni di natura avanguardista. Particolarmente intrepida, ad esempio, la scelta di realizzare, per il film di Virginia Onorato L'ultimo uomo di Sara (1972), un tappeto sonoro costituito esclusivamente da rumori casuali, catturati della realtà e montati in moviola con successivi missaggi.
L'interessante esperienza, che guardava al modello di Schaeffer e della musica concreta, non poté avere grandi seguiti (lo stesso compositore ammette che "si tratta di esperimenti difficilissimi che si tentano soltanto quando si sa che il film non incasserà una lira"). Ciò nonostante l'attenzione riservata all'integrità dell'apparto sonoro non venne mai meno, arrivando, talvolta, a produrre un florido dialogo tra la partitura e i rumori di fondo. È quel che si verifica nel complesso lavoro di Elio Petri Un tranquillo posto di campagna (1968), prima di una lunga serie di collaborazioni tra il compositore e il regista romano, in cui convivono musiche scritte ed improvvisazioni eseguite direttamente sul filmato con la collaborazione del gruppo Nuova Consonanza. Si tratta, in realtà, di un procedimento differente e meno radicale di quello adottato per il film della Onorato, in cui la musica scaturiva da un assemblaggio ragionato del rumore di scena. Qui, più assennatamente, sono gli strumenti a plasmare l'atmosfera distorta della realtà schizofrenica che anima il film e i rumori svaniscono nella pasta eterogenea di una cacofonia controllata. Aderendo alla struttura di un montaggio, che altera la percezione sino a snaturare l'impressione di realtà, la colonna sonora si fa ulteriore veicolo di senso, precipitando lo spettatore nella follia del protagonista e disponendosi a demolire le convenzioni uditive quanto la regia di Petri quelle visive.
Nello stesso anno il compositore ebbe occasione di applicare una variante di questo procedimento al film di Roberto Faenza Escalation (1968). È naturale che per poter sviluppare adeguatamente simili esperienze sia necessaria una grande fiducia e un ampio terreno di intesa col regista; in questo caso Faenza confessò di non avere alcuna idea riguardo alla musica e concesse carta bianca a Morricone, che si divertì a inventare bizzarri suoni prodotti con la gola o la laringe, per poi montarli in varie sovrapposizioni.
Se è impossibile immaginare soluzioni simili ad accompagnare le cavalcate di Clint Eastwood negli sterminati spazi andalusi, esse ben si prestano ad evocare le storture della psiche che inquietano il delirante universo thrilling di Dario Argento. È il 1970 quando il compositore accoglie l'invito dell'esordiente regista romano e accetta la sfida di costruire un nuovo linguaggio musicale, pronto a farsi epitome del proprio variegato orizzonte culturale, conglobando in un'estetica del pastiche le pulsioni configgenti dell'improvvisazione jazzistica più sperimentale, dell'approccio atonale di certa avanguardia, nonché di quella tradizione pop già esplorata in pellicole precedenti - particolarmente significativa la parentesi di Diabolik (1968) di Mario Bava. Un gesto che potrebbe apparire gratuito, ma rivela, ancora una volta, l'abilità di Morricone nel ragionare oltre le consuetudini, concependo un mondo di suoni il più aderente possibile alla natura delle immagini. Al cospetto di un cinema dichiaratamente schizofrenico e feticista, improntato ad un citazionismo estensivo, che mescola Blow-Up e Sei donne per l'assassino, la colonna sonora innerva di morbose pulsioni le ossessioni di Argento, dando vita ad un paesaggio sonoro inestricabile.
Con L'uccello dalle piume di cristallo (1970) giunge a compimento l'evoluzione di quel linguaggio di matrice aleatoria, emerso durante le prime sperimentazioni con Petri. La partitura non si compone di temi, ma di strutture irrelate per ogni strumento, sequenze di un certo numero di battute, che rappresentano un ventaglio di possibilità tra cui l'esecutore, chiamato a partecipare al processo compositivo, deve effettuare una scelta. Padrone di una precisa tecnica gestuale, il direttore d'orchestra organizza le entrate, adattando gli eventi musicali ai contenuti delle singole scene. La difficoltà principale di una simile metodologia è evidente: ogni esecuzione rappresentava un unicum, l'esito irripetibile di una precisa concatenazione di scelte, in parte del direttore, che improvvisava i gesti e gli attacchi, in parte dell'orchestra, dato che gli esecutori potevano tracciare un proprio percorso combinando, secondo il gusto del momento, le brevi sequenze scritte da Morricone (emblematico il "Fraseggio senza struttura"). E possiamo immaginare con un certo divertimento le difficoltà che dovette affrontare Argento, costretto a confrontarsi, ad ogni prova, con un differente materiale sonoro, senza contare le estenuanti sessioni di registrazione, necessariamente effettuate con le sequenze del girato sullo sfondo, per calibrare correttamente le entrate. L'esito è uno score indimenticabile, obliquo, ma tutt'altro che sgangherato, capace di turbare gli animi degli spettatori con dissonanti vette ai limiti della cacofonia.
Profondamente diversi, nonostante le parentele stilistiche e il costante ricorso a soluzioni d'avanguardia, i successivi contributi al cinema di Argento. Il gatto a nove code (1971) si caratterizza per un crescente incedere del ruolo percussivo degli strumenti e per l'abbandono della tecnica aleatoria in virtù di una più coerente organizzazione delle dissonanze. Agli ingressi improvvisi e le insospettabili derive ritmiche di una partitura che instillava riflessi paranoici nel tessuto filmico, si sostituisce la compattezza di un approccio che non lavora più sui frammenti, ma sulla continuità evocativa di sonorità distorte, fiati scordati e voci lamentevoli. Un tappeto indistinto di sonorità punteggiate dai grotteschi interventi di un basso, quasi l'orribile carezza di un'angoscia insinuata sottopelle. Di scarso interesse lo stucchevole tema ("Ninna nanna in blu") che accompagna le scene tra il co-protagonista cieco e la nipotina.
Il successivo Quattro mosche di velluto grigio (1971) si presta, invece, facilmente all'ascolto svincolato dalle immagini, grazie ad un più consapevole legame con il progressive rock in voga negli anni Settanta, il che dimostra, ancora una volta, l'attenzione di Morricone alla scena musicale internazionale e la profonda malleabilità del suo stile. Sono le folli rullate di una batteria impazzita a gettare lo spettatore nel cuore di un universo visivo frastornato dal montaggio sospeso, quasi onirico delle prime sequenze. L'intreccio di chitarra elettrica e organo hammond sembra presagire uno scarto dalle pellicole precedenti e offrire un orizzonte sonoro più convenzionale, ma l'illusione è rapidamente frantumata dalle improvvise pause, che spezzano il ritmo del brano e traducono i rintocchi di grancassa nei colpi ovattati di un battito cardiaco. L'evoluzione stilistica è, comunque, evidente nei brani successivi, caratterizzati da una drastica riduzione delle dissonanze e da un incedere più marcatamente melodico delle tracce. L'intera colonna sonora risulta più asciugata ed essenziale, al punto che grande rilievo è dato, nel film, ai silenzi (e si veda la tensione della sequenza iniziale nel teatro), esito di una studiata sottrazione dell'orchestra e valorizzazione dei rumori di scena, soffusi o intensificati (i clic della macchina fotografica) secondo le esigenze. Nonostante la sensazione di uno score normalizzato, non mancano momenti di ardito sperimentalismo; basti notare il trattamento del sonoro nel quarto brano ("Quattro mosche di velluto grigio II"), dove si innesta, su un tappeto di legni gorgoglianti, il sinistro frinire di un violino, che ricorda il coevo uso del glissando nel celebre "Black Angels" di George Crumb.
I primi anni Settanta sono, però, anche quelli in cui va consolidandosi il felice sodalizio con Petri. L'ansia di ricerca del compositore, infatti, trova una straordinaria affinità nello stile del regista romano, così grottesco, iperbolico e violentemente sarcastico, teso alla restituzione di una "realtà" altra, in cui si manifestano i risvolti occultati di una società malata.
Nella partitura di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) si codificano gli sviluppi di una ricerca sull'essenzialità del suono, che vedeva impegnato il compositore già ai tempi della collaborazione con Leone (e che aveva raggiunto l'apice con i venti minuti di rumori amplificati che introducono C'era una volta il West). Lo score si articola in un numero di elementi sorprendentemente ridotto ed è di una purezza magnifica. Con poche note e una ancor minore quantità di interventi strumentali, Morricone delinea un intero mondo di allusioni, in cui prendono lentamente corpo le ossessioni di una personalità dissociata, interpretata nel film da un indimenticabile Gian Maria Volonté. L'ingresso del protagonista nella prima sequenza, dopo il silenzio dei titoli di testa, potrebbe far pensare alla semplice passeggiata di un elegante borghese, ma le note di Morricone sono già pronte a pedinarlo, a stanare dal principio le pieghe allucinate e grottesche della sua finta quotidianità. Nel corso del film si alternano due temi fondamentali: il primo, quello che accompagna l'ingresso del "dottore" di Volonté, si articola in tempo di tango, con sovrapposto un tema arpeggiante, quasi una marcetta popolaresca, dalla bizzarra accentuazione metrica, che si fa sbilenca sul finale, nell'ultimo ottavo di una battuta in 4/4. Il secondo, che traduce "l'allucinata e grottesca sensualità dei due protagonisti", ha un andamento morbido e sonnolento e consta della progressiva accumulazione di tre distinte linee melodiche. Fondamentale, poi, la scelta dei timbri, tra cui un pianoforte stonato, un mandolino, un fagotto e l'irrinunciabile marranzano, che conferiscono alla colonna sonora un senso di intimo degrado, di nascosta precarietà, quasi l'intuizione di un crollo imminente.
Questa poetica dell'artificio nascosto, della strategia sonora che inerisce ad un intero mondo extramusicale, predicando la psicologia del personaggio, viene ulteriormente sviluppata nel successivo La classe operaia va in paradiso (1971), in cui riemergono le suggestioni della musica concreta negli interventi rumoristici di una fresa, una pressa ed una saldatrice. Mentre Petri si immerge nel ritmo della catena di montaggio, offrendo uno squarcio del degrado cui il capitalismo industriale induce l'uomo-macchina, Morricone, con un movimento speculare, traduce le ossessioni dei lavoratori nella rigida cadenza di una marcia dolorosa, che ripete i suoi ipnotici sviluppi nel movimento circolare di un eterno ritorno. Insolito, ma emblematico del sodalizio con Petri, l'ingresso inatteso di un lacrimevole violino, che modula una breve cadenza romantica in risposta alla volgare aggressività espressa dal trombone; un inserto che potrebbe apparire inesorabilmente kitsch, perfino una stravagante incoerenza stilistica, ma solo a chi non avesse compreso i meccanismi dell'arte morriconiana. Per capire le ragioni della scelta basta ricordare l'ambiente in cui vive il protagonista Lulù Massa, la sua abitazione, piena di souvenir di dubbio gusto, scialbi quadretti e ricami, che alludono alle ambizioni di chi, vagheggiando un'improbabile ascesa sociale, si crogiola in un'abbondanza di pacchianeria. Andando oltre le apparenze e le ruffianerie tipiche di certa musica "delle buone maniere" Morricone si fa carico di un'interpretazione che penetra nei valori ideologici della pellicola; una musica che non teme di farsi sporca, fino ad aderire totalmente al senso del film.
Ancora luoghi chiusi, ancora la claustrofobia di un mondo a parte, che risuona, stavolta, non del clangore efferato e metallico delle macchine industriali, ma degli echi disturbanti di un penitenziario, nel film di Damiano Damiani L'istruttoria è chiusa: dimentichi (1971). Franco Nero, architetto accusato di omicidio, si addentra nelle torbide atmosfere della reclusione, dove si intrecciano le vessazioni dei suoi compagni di cella e il sottobosco malavitoso che dirige la vita del carcere. Camaleontica come in poche occasioni, la musica di Morricone si abbandona alle suggestioni dell'elettronica e sovrappone squarci sonori incommensurabili per comporre un'atmosfera da incubo. Nel brano "Disordini" squallide marcette e brandelli di musica classica si accavallano senza freni, mescolandosi agli echi distorti di bercianti ordini militareschi, ai respiri affannosi, al crepitio disturbante di bisbigli confidenziali. Oltrepassati i riferimenti alla musica concreta e al di là del bruitisme futurista, l'insolito esperimento di Morricone si configura come un atipico collage sonoro, che lavora sulla manipolazione elettronica di materiali preesistenti e trova, forse, una corrispondenza figurativa nella combine-painting di Rauschenberg.
Travolto da un incontenibile furore creativo, in quello stesso 1971 Morricone collabora per la quinta volta con l'amico Sergio Leone: l'esito è la straordinaria partitura di Giù la testa, apice in cui confluiscono le intuizioni del decennio appena trascorso e, nel contempo, modello per le successive germinazioni di quella concezione modulare, improntata alla frammentazione di una partitura madre nelle più difformi soluzioni di missaggio. La colonna sonora che accompagna il film è, dunque, il risultato di un assemblaggio di segmenti autonomi, la forma possibile di un processo generativo infinito. Scorrendo con gli occhi il pentagramma si scorgono, infatti, modi alternativi, combinazioni inedite dei diversi segmenti, che moltiplicano le strutture potenziali in un vertiginoso gioco di specchi. Non è, però, la sola celebrazione della dello schema modulare a sorprendere e lasciare ammirati, quanto l'abilità del Maestro nel conglobare (molto più di quanto non avvenga in C'era una volta il West) le esigenze ricettive del testo e, dunque, la sua natura armonica con gli influssi di un'ardita ricerca, che continua a guardare alle avanguardie europee. Muovendo dalla convenzionalità di una melodia che torna ad un unire il fischio e la voce umana, lo score precipita ben presto in un mondo di dubbi, tracce allusive e iterazioni armoniche, sorprendentemente affine a certi esperimenti di musica colta (parallelamente sviluppati dallo stesso Morricone nella sua produzione da concerto - si veda il brano "Bambini del mondo"). Il trattamento degli Archi è esemplare: alla prima sezione è affidato uno sviluppo contrappuntistico di impianto tonale; la seconda muove dall'idea puntillista dell'autocelebrazione delle sonorità e sovrappone poche note isolate, che, però, non smarriscono il legame con la tonalità fondamentale della prima sezione. In tal modo due procedimenti compositivi diversissimi vengono a coincidere nell'accumulo delle piste, fondendosi con le invenzioni leitmotiviche del pianoforte e del contrabbasso elettrico. Ogni sezione dell'orchestra si fa portavoce di un distinto linguaggio musicale, melodico, ritmico o armonico, sviluppando un modulo di otto battute (o multipli), mentre la sovrapposizione delle piste in fase di montaggio, a seconda dei segmenti coinvolti, produce una cangiante varietà di stili, adattandosi compiutamente ai diversi momenti del film. Basti vedere come la celebre "Marcia degli accattoni" accompagni indifferentemente lo sviluppo melodico dei titoli di testa e i momenti più grotteschi della narrazione, quando l'interpolazione di un rutto al posto delle pause ("Uhà", che allittera goffamente il nome di un personaggio, Juan) fa emergere la vena più sarcastica del brano. Esilarante, poi, la citazione, assurda e anacronistica (in linea col tono ribelle della pellicola), del notturno mozartiano "Eine kleine Nachtmusik" in doppia esecuzione: errata la prima volta (quando un Si naturale viene bemollizzato), in coincidenza con l'apertura di una porta sbagliata, corretta successivamente, quando accompagna il ritrovamento della cassaforte.
Dopo quest'annus mirabilis che vide il Maestro portare a termine, oltre a quelle analizzate, ben diciotto partiture per il cinema, tra cui quella per Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo che gli valse un Nastro d'Argento (una media, comunque, tutt'altro che insolita e che non tiene conto dei lavori da concerto), la vena creativa del compositore non si acquietò, sebbene alcune scelte di quegli anni rivelino un atteggiamento più cauto verso le sperimentazioni sonore. Del resto, si è già sottolineato quanto esse siano debitrici di una singolare comunione di intenti con i registi, che talvolta, in un'epoca in cui le commissioni cominciavano a farsi insistenti, sembravano essere più interessati a ripetere i successi del passato, sciorinando soluzioni già sperimentate, piuttosto che disporsi ad accettare nuove idee. Grazie all'intelligenza del compositore, comunque, si possono individuare risultati di rilievo anche in questi anni di crescente popolarità. Si ascolti, come esempio, la celebre soundtrack de Il mio nome è nessuno (1973), in cui la presenza del tema fischiato dal flauto e i cori sullo sfondo anziché adagiarsi nella retorica del luogo comune sanno colorare con sfumature ironiche e scanzonate l'allegria di un film consapevolmente aperto alla comicità.
Quel che emerge, in questi anni, è soprattutto l'affermarsi di una scrittura sempre più tesa alla conquista di un alto profilo melodico, caratteristica già presente in molti lavori precedenti, ma spesso adombrata dagli aspetti più innovativi dello stile morriconiano. Nel film di Bolognini Fatti di gente perbene (1974) è la nostalgia ad impadronirsi del tessuto musicale, attraverso i saliscendi di un violino che si strugge sul ritmo punteggiato dal pianoforte ("Accadde a Venezia"). Le impressioni melodrammatiche del film, stavolta, non sono suggerite da un'inconsueta scelta timbrica, ma dalla semplice melodia, accarezzata dagli archi, che non rinuncia a passaggi oscuri e dissonanti ("L'inizio delle indagini") nei momenti di maggior tensione dell'intreccio.
Il 1976 è l'anno dell'ambizioso Novecento di Bernardo Bertolucci, smisurato affresco che si propone di affrontare cinquant'anni di storia italiana. Il film si apre con la morte di Giuseppe Verdi, evento simbolo che si sedimenta sul fondo di una colonna sonora consapevolmente rivolta alla tradizione del melodramma. Il tema principale, "Romanzo", si articola nella forma di un prologo organizzato sul ritmo introspettivo della melopea, che introduce due distinti segmenti tematici, uno sorretto dagli archi e l'altro dai fiati, intrecciati sullo sfondo di un coro soffuso. Fuori luogo i maliziosi commenti di molta critica, che ha visto nella colonna sonora null'altro che un apporto stucchevole e melenso alle tesi del film. In realtà lo score di Morricone, lungi dal cedere al romanticismo d'accatto, ha la forza di penetrare negli anfratti di una realtà storica ricca di suggestioni e contrasti senza lasciarsi intrappolare dalla retorica del melodramma. Con grande accortezza il compositore tiene a bada sia gli influssi di un melodismo troppo enfatico che la retorica popolaresca dei canti di lavoro, coniugando i due contributi in pagine capaci di assumere vesti liriche e solenni, nella tradizione della cantabilità verdiana. In questo senso "Il Quarto Stato" ben rappresenta la sensibilità di Morricone nel contenere la deriva potenzialmente stucchevole di un patriottismo risorgimentale, pur aderendo allo stile delle canzoni popolari e pone un netto scarto rispetto alle concessioni di maniera che faranno talvolta capolino nelle partiture scritte per Tornatore negli anni Novanta.
La partitura più significativa di quegli anni rimane, comunque, quella scritta per Il deserto dei tartari (1976), che sintetizza la singolare capacità di Morricone di inseguire una personalissima linea di maturazione stilistica, adattando il proprio percorso alle esigenze contestuali delle varie pellicole. Zurlini aderisce diligentemente alle atmosfere sospese, che caratterizzano l'opera di Buzzati e la musica di Morricone si fa carico del valore espressivo delle scene, impostando soluzioni tonali su un tappeto di sonorità dilatate. Due temi si avvicendano nello score: quello del deserto, in Re magg., misterioso e sacrale, costruito su una sonnolenta frase della tuba, mentre, sullo sfondo, le legature degli archi disegnano geometrie sconfinate; e il magnifico tema della famiglia, in Si min., che accompagna i titoli di testa e riassume le suggestioni dei ricordi d'infanzia. La rarefazione degli interventi musicali, la capacità di allargare le frasi melodiche del pianoforte per poi esaurirle nella sospensione di accordi prolungati conchiude il senso della pellicola in un realismo metafisico, che i frequenti indugi della regia di Zurlini ribadiscono con forza. L'accordo con le immagini è totale, l'introspezione suggerita dagli sviluppi della musica vertiginosa, al punto che certe scelte del regista non possono che lasciare amareggiati per non aver saputo sfruttare appieno le possibilità aperte dal compositore. Si vedano le prime sequenze, in cui il fraseggio sui titoli di testa viene bruscamente interrotto, azzerando l'impressione di un tempo astratto e dilatato che il suo ingresso lento ed impercettibile aveva suscitato nello spettatore. Al netto di alcuni dispiaceri di questo tipo, la partitura rimane uno dei vertici dell'opera morriconiana, uno score che introduce per la prima volta quel concetto che lo stesso Morricone definirà di "immobilità dinamica" (poi esplorata in gran parte della produzione da concerto).
Ad enfatizzare le possibilità offerte dalla musica cinematografica così come è intesa da Morricone, nel 1977 esce nelle sale Il gatto di Comencini, stralunata commedia che muove al versante giallo, senza rinunciare a interventi grotteschi. Un intreccio, al netto delle ambizioni, ancor oggi molto godibile (specie grazie alla coppia Tognazzi-Melato), ma quel che affascina maggiormente è la cura riservata ad una colonna sonora, che nelle volute ovattate del clarinetto mima con sconvolgente precisione il pigro incedere del soriano della coppia. L'idea, in effetti, non è nuova e già quarant'anni prima il russo Prokofiev aveva immaginato una corrispondenza tra lo strumento ad ancia e un felino nella celebre partitura di "Pierino e il lupo". Eppure lascia a bocca aperta la capacità del compositore di piegare quest'intuizione ai motivi dell'intreccio, sviluppando un buffo registro interpretativo in bilico tra grottesco e divertita suspense.
All'anno successivo risale la collaborazione con Terrence Malick per I giorni del cielo (1978), ottima partitura, che, però, poco aggiunge alle già note capacità melodiche del Maestro e ciò anche a causa dell'interpolazione di brani spuri, tra cui quello che accompagna i titoli di testa e che arrangia "Il carnevale degli animali" di Camille Saint-Saëns, divenendo uno dei fondamentali leitmotiv dello score.
Ma è con la memorabile colonna sonora scritta per Le buone notizie (1979), ultimo film di Petri, che Morricone sintetizza il viluppo di interessi sperimentali e di commistioni stilistiche, che hanno attraversato la sua opera nel trascorso decennio. La controversa pellicola, che rimane uno dei più disperati saggi sul rapporto tra realtà e simulazione, sull'imperante annullamento dell'umano nello spettacolo di se stesso e sulla tremenda indifferenza della morte, rilancia il gusto straniante di una recitazione brechtiana, l'iperbole visiva che produce alienazione, l'inesorabile connubio tra satira e grottesco. Non tutto è riuscito in quest'opera sbilenca, che forse confondeva persino lo stesso autore (abbandonato, ormai, alla rassegnazione: "Io credo che la realtà non ci sia più [...], che la nostra sia un simulacro di vita"), ma gran parte del suo fascino retrospettivo è legato alle sonorità progettate da Morricone, che torna qui al concetto di partitura-madre maturato con Giù la testa. Ancora una volta a ciascuna sezione dell'orchestra è affidato un modulo da interpretare, ma contrariamente al film di Leone, in cui le tracce erano registrate a parte e poi arbitrariamente sovrapposte nel missaggio, qui è il gesto direttoriale a decidere gli ingressi e le uscite di ogni strumentista. Possiamo immaginare una sessione di registrazione in cui tutti gli orchestrali siano presenti e ciascuno segua mentalmente la propria partitura per poi cominciare a suonare ad un cenno del direttore. La combinazione di una tecnica aleatoria (che ad ogni esecuzione chiamerà in causa diverse componenti dell'orchestra) e di una notazione musicale preesistente produce uno spazio sonoro di grande fascino, in cui l'aspetto timbrico si fa, ancora, assoluto protagonista con gli interventi grotteschi di un fagotto, un mandolino (che immerge il film in un viluppo di rimandi allusivi degno di "Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto") e una fisarmonica che "respira" ("ho fatto fare degli accordi aprendo e chiudendo il mantice e poi ho esaltato l'effetto nel missaggio, perciò si sente questo suono popolaresco; dissi al musicista che anche lui avrebbe dovuto respirare assieme allo strumento"). Ad ulteriore conferma del ruolo di compendio esperienziale dello score valga il fatto che lo stesso Morricone si intrufolò nell'orchestra per suonare la tromba scordata , che fa irruzione a metà del brano "Buone notizie", virando le sfumature ballabili della viola nel carattere spigoloso dell'improvvisazione jazzistica: "La tromba jazz l'ho suonata io perché volevo che fosse suonata malissimo, rovinando il suono dello strumento. Serviva una certa ironia, serviva la distruzione del suono come equivalente della distruzione di un uomo, il protagonista del film".
4. Verso il sinfonismo
Il dissidio che infarciva di stridente vitalità gli esordi dell'attività di Morricone, questo suo continuo barcamenarsi tra seduzioni colte ed esigenze applicative comincia, negli anni Ottanta a trovare un instabile equilibrio nella separazione netta tra musica da concerto e musica cinematografica. Gli arditi esperimenti (spesso ignoti al regista e invisibili al pubblico) che per vent'anni si sono intrecciati nelle partiture per il cinema, ora riemergono nella cornice autonoma della musica d'arte, mentre la produzione di colonne sonore (in numero inferiore rispetto al passato) rinuncia alle intrusioni avanguardiste, per abbracciare la più consueta armonia tradizionale. Sebbene questo non implichi una minor inventiva nelle soluzioni adottate, è indubbio che si tratti di un modo per estendere il gradimento ad un orizzonte fattosi sempre più internazionale; il modello cui guardare non è più quello estroso, cerebrale e dissonante de L'uccello dalla piume di cristallo, ma Giù la testa, partitura chiave nella maturazione stilistica del maestro.
Emblematico di questo atteggiamento è lo score realizzato per Marco Polo (1982), miniserie della Rai (poi esportata in 42 paesi) con cast straniero e la regia di Giuliano Montaldo. La colonna sonora dei titoli di testa coniuga brillantemente le esigenze di un approccio tonale (e, dunque, classico, lontano dall'avanguardia) con l'innesto di alcune brillanti invenzioni sul piano musicale. Il brano si sviluppa in Re min. col delicato incedere di un'arpa, poi sorretta dall'ingresso delle viole, ma nella parte centrale Morricone inventa strane modulazioni verso tonalità lontanissime: "Mi pareva opportuno lavorare sulle cadenze plagali, perché erano molto usate nel periodo in cui visse Marco Polo. Non se ne accorge nessuno di questa soluzione, però mi interessava applicarla". Filologia a parte, questo ci consente di entrare nel metodo di lavoro del compositore e capire il doppio movimento per cui il contesto agisce sull'invenzione musicale e questa restituisce allo spettatore le seduzioni del contesto. Poco importa che non si conosca la cadenza plagale, essa è là e ci parla con la forza delle allusioni; non occorre certo essere musicologi per provare un brivido di piacere durante le straordinarie modulazioni degli archi, quelle impennate che intuiamo essere spurie e, per questo, non smettono di affascinarci col loro potere evocativo.
Salvo alcuni momenti isolati, comunque, la produzione per il cinema di questo periodo è tutt'altro che memorabile, contrariamente a quella da concerto, quasi Morricone volesse rifarsi dei molti anni spesi unicamente sulle partiture per il cinema. A differenza delle belle invenzioni che rinverdivano il topos del fischio in Lo chiamavano Trinità, nelle partiture realizzate per Verdone, tra cui Un sacco bello (1980) e Bianco, rosso e verdone (1981) si avverte la stanchezza di un gesto ripetitivo e, ormai, quasi automatico; musiche sbarazzine, finanche divertenti, ma nulla più. Nel 1982 collabora con John Carpenter per la colonna sonora de La cosa, ottimo remake del film di Hawks, in cui, però, la musica di Morricone, pur apprezzabile, non si distingue per particolari meriti, soprattutto se confrontata con la nervosa essenzialità della partitura scritta dallo stesso Carpenter anni prima per Halloween.
La svolta si ha nel 1984 quando il compositore torna a collaborare con l'amico di sempre Sergio Leone dando vita ad uno dei risultati cine-musicali più straordinari nella storia del cinema. È l'anno di C'era una volta in America. L'approccio del musicista è, però, meno libero che in passato e la crescente notorietà del duo se, da un alto, imponeva un riguardo verso il profilarsi di un gusto il più possibile internazionale, dall'altro si rivelava un ostacolo al rinnovamento, indugiando sul riutilizzo di modelli estetici collaudati. Senza contare che in seguito ad anni di felici collaborazioni si finisce, ed è inevitabile, con l'affezionarsi a peculiari soluzioni stilistiche, specie se in origine si erano rivelate rivoluzionarie, e a ricorrervi più del necessario. In questo senso va probabilmente intesa la presenza dei sensuali vocalizzi, che si intrecciano nella partitura alle sonorità dell'orchestra, spesso al di là di una reale urgenza musicale. Quegli angelici ingressi canori che in C'era una volta il West balzavano alle orecchie integrandosi con il tessuto narrativo e ribadendo la centralità della protagonista femminile, vengono qui delegittimati a pura tappezzeria, senza più alcun ruolo di sostegno. Si può, dunque, capire perché, nonostante il fascino intramontabile delle sue inebrianti melodie, questa partitura venga spesso accusata di essere tra le meno ricercate del Maestro. In realtà l'importanza dello score va ben al di là dei suoi meriti compositivi, ponendosi ai vertici del cruciale connubio tra musica e immagini; qui la colonna sonora non si limita ad accompagnare il film, ma diventa quel film, si modella su di esso fino ad assumerne gli umori in un processo di identificazione totale. Per questo Morricone, adeguandosi all'incedere melodrammatico del corpo filmico, rinuncia agli accorgimenti più sofisticati e si immerge in un romanticismo intriso di nostalgia, in cui la dilatazione dei temi e l'avanzamento della partitura per accumulo orchestrale si fanno riflessi di una simbiosi perfetta con la pellicola. Al punto che musica e girato nascono in contemporanea, anzi alcuni temi arrivano a precedere le riprese e vengono suonati sul set, con un organico ridotto, per aiutare la concentrazione degli attori e l'immersione in quell'atmosfera elegiaca che aleggia su tutta l'opera.
Raro esempio di efficacia drammatica, la colonna sonora di C'era una volta in America intavola una prosecuzione del discorso modulare già affrontato con Giù la testa e Le buone notizie, ma, stavolta, in maniera meno innovativa. Lo sviluppo delle frasi melodiche è affidato ad un solo strumento (indifferentemente violino, pianoforte o flauto di Pan) e il resto dell'orchestra disegna variazioni contrappuntistiche sul tema principale, secondo un climax che raggiunge l'apice nella parte centrale, per poi scivolare discreto verso una conclusione affidata alle legature degli archi o ai rintocchi d'arpa ("Poverty"). Quel che colpisce è soprattutto l'estrema concentrazione della cellula melodica, strutturata in appena una battuta, che consente brusche sterzate verso ritmi altrimenti irraggiungibili (e si ascolti la naturale evoluzione di "Once upon a time in America" in un motivo da jazz band).
Sebbene un simile amalgama tra materiale visivo e sonoro sia rimasto ineguagliato nella carriera di Morricone (e non solo - pochi esempi analoghi si riscontrano nella storia del cinema), l'apice raggiunto non contribuì, certo, a mitigare l'inarrestabile creatività del compositore. Un'altra, indimenticabile opera, infatti, aspettava dietro l'angolo. Trascorsi due anni dall'ultima collaborazione con Sergio Leone, il Maestro accetta l'incarico offertogli da Roland Joffé e nel 1986 dà vita alla colonna sonora di Mission, in cui la concezione modulare e l'abilità nel costruire un'interna dialettica tra le parti giungono al massimo grado di maturazione. L'articolazione dei moduli si fa più ampia rispetto al passato, al punto che ogni voce della partitura racchiude uno sviluppo autonomo del tema, ma capace di interagire con gli altri in variegate combinazioni, che si fanno carico di precisi valori simbolici.
La melodia più celebre dello score è senza dubbio "Gabriel's Oboe", che viene eseguita in più occasioni nel corso della pellicola da uno dei protagonisti (Padre Gabriel, appunto) e, nel suo sviluppo, raccoglie l'eredità di una tradizione post-rinascimentale, legata, nello specifico, all'epoca settecentesca in cui il film è ambientato. Ciò nonostante, il fatto che da elemento interno alla storia venga assunto come parte integrante del commento musicale astrae la melodia dalla contingenza del momento, traducendola in un valore metaforico. Il "Gabriel's Oboe" diventa, così, un riflesso del personaggio, del mondo di idee che lo accarezza, la sua "incarnazione etica" e difficilmente si potrebbe immaginare uno svolgimento della melodia più consono. Nel suo incedere assorto e sognante il tema di Gabriel prefigura quell'ideale sentimento di comunione che spingerà il padre gesuita a continuare a credere in un'evangelizzazione scevra da opportunismi, solidarizzando con i Guarani, ma rifiutando di mettere mano alle armi.
A questo tema dal sapore meditativo si uniscono l'ostinato corale degli indigeni ("Vita, vita nostra"), unico in 3/8, e un contrappunto a quattro voci che sviluppa il testo latino "Conspectus Tuus", in cui si fondono rimandi allo stile palestriniano (e in questa rievocazione della musica Cinquecentesca è impossibile non scorgere la voce ufficiale della Chiesa) e soluzioni tipicamente cinematografiche, quali l'ampio respiro degli archi, che sottrae il coro al rigore formale dello stile "a cappella". Dal rosario di note del tema etnico, il compositore ha, poi, ricavato un'ulteriore melodia, scandita dal ritmo percussivo dei flauti di legno e capace di accompagnare i momenti più riflessivi della pellicola.
Per tutto il film Morricone si impegna a gettare ponti fra l'autonomia delle tre parti, presentandole singolarmente o in combinazioni binarie, a suggerire uno schema che va al di là del semplice gusto contrappuntistico e dialoga direttamente con il racconto. Le sovrapposizioni tematiche si fanno valori allegorici, riflessi dell'intreccio di relazioni che muovono la trama e culminano nel brano "On Heart as it is in Heaven" con la convergenza di tutte e tre le linee melodiche in un viluppo di pura bellezza. Aderendo così profondamente all'evoluzione caratteriale dei protagonisti, alle spinte interne del racconto, la colonna sonora restituisce tutto il piacere di un'esperienza oltremodo avvolgente, in cui le note "agiscono" come attori e gli interpreti accolgono in sé l'universo simbolico della musica.
Con Mission Morricone raggiunge il vertice dell'evoluzione compositiva nel cinema, dando vita ad un connubio rimasto insuperato tra elaborazione formale, complessità linguistica e aderenza all'intreccio. Per questo è ancor maggiore il dolore per l'occasione che Joffé si è lasciato sfuggire, dimostrandosi incapace di gestire con piena consapevolezza il prezioso materiale offertogli dal compositore. Lo stesso Morricone racconta che "Joffé è un grande regista, però è uno di quelli che ha paura della musica e forse teme che l'espressività data dalla musica alla scena metta in risalto una sua carenza. [...] Ad esempio, nel finale, durante la strage, ha voluto mescolare l'Ave Maria Guarani e il tema dell'oboe. Io non avrei voluto, ma lui non mi ha dato retta e ha fatto un pasticcio". Questo punto di vista dà ragione della scarsa eloquenza del commento sonoro in alcune sequenze chiave, che rivelerebbero una maggiore intensità drammatica se la musica non fosse tenuta troppo bassa. Ciò nonostante l'opera del Maestro ha dimostrato di saper resistere anche al di là dei valori formali del film, come dimostrano le entusiaste reazioni del pubblico ad ogni esecuzione della partitura.
I memorabili titoli di testa scritti per Gli intoccabili (1987) di Brian De Palma e le melodie malinconiche che accompagnano Nuovo cinema paradiso (1989), prima collaborazione con Tornatore, chiudono un incredibile decennio, in cui Morricone ha saputo coniugare la spontanea evoluzione del proprio personalissimo discorso musicale, ragionando a fondo sugli elementi che da sempre lo caratterizzano (dall'impronta timbrica alla concezione modulare), e l'esigenza di una cantabilità sovrana che rendesse appetibili i commenti sonori al di là delle sperimentazioni inoculate nel cinema di genere. Anche quando il gusto tematico prende il sopravvento, sino a farsi perno del discorso musicale, l'approccio del compositore stimola un costante dialogo con la classicità, dall'impiego di corali al recupero di forme di ispirazione sacra (quali i "mottetti"), fino alle più scaltre risorse del contrappunto. Basti considerare l'epico intreccio di fiati e archi che alimenta il vibrante crescendo nella scena della cavalcata ne Gli intoccabili, o, ancora, la ricchezza di spunti e invenzioni che accompagnano il finale di Nuovo cinema paradiso, col pianoforte e l'orchestra d'archi a disegnare un tappeto di sonorità cangianti su cui scivola l'intensa melodia intonata dal clarinetto.
5. Il ritorno alle origini
A partire dagli anni Novanta l'impegno di Morricone nel cinema si fa contenuto, mentre diventa sempre più cospicua la produzione da concerto. Troppo spesso questa coincidenza è stata sfruttata per corroborare l'ipotesi di un crescente disinteresse da parte del compositore verso la musica applicata, quasi che, avendo finalmente raggiunto una notorietà internazionale, volesse sbarazzarsi delle stringenti etichette attribuitegli e dedicarsi alla produzione di lavori più elitari. C'è del vero in questa considerazione, ma non si tratta di sostenere il primato di una musica rispetto all'altra. Il fatto è che l'applicazione alle opere da concerto, oltre a costituire un entusiasmante fronte di ricerca per la creatività inesausta di Morricone, richiede uno sforzo di concentrazione maggiore e, dunque, più tempo per tradurre in termini musicali un'intuizione sonora: "C'è stato un lungo periodo in cui ho quasi completamente tralasciato di scrivere musica per concerti. [...] Quando mi sono rimesso a scrivere avevo bisogno ogni volta di prendermi un buon periodo di tempo per disintossicarmi, per rientrare nei ranghi". Non c'è, quindi, nella scelta di ridurre la produzione per il cinema alcun rinnegamento delle esperienze che gli hanno regalato notorietà internazionale, ma la naturale conseguenza del più rigido ed impegnativo approccio richiesto dalla musica colta. Oltretutto va notato che la produzione di quel periodo annovera 4-5 colonne sonore all'anno, un numero tutt'altro che trascurabile, sebbene non paragonabile al furore creativo degli esordi.
A onor del vero, si conta un maggior numero di lavori "alimentari" o, comunque, caratterizzati da scelte piuttosto convenzionali, talvolta addirittura riciclate dai successi trascorsi, come Nel centro del mirino (1993), in cui fanno capolino brevi strutture percussive e disegni degli ottoni che rimandano, in sordina, al tema de Gli intoccabili.
Non mancano, comunque, momenti di grande interesse. Tra questi spicca la colonna sonora di Stato di grazia (1990), che permette a Morricone di lasciare un'impronta indelebile nel decennio appena iniziato. Per quanto non si possa parlare di minimalismo, è indubbio che una direttrice fondamentale della ricerca morriconiana sia sempre stata la semplificazione del materiale melodico (e si veda il contrasto con la complessità dell'architettura contrappuntistica che lo sostiene). L'eliminazione del "sovrechio", la rinuncia agli orpelli già dichiarata nell'essenzialità strutturale delle prime collaborazioni con Petri (su tutte Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) emerge anche nel film di Joanou, specialmente nel brano "Hell's Kitchen", in cui il materiale tematico si riduce al minimo, a tre suoni per grado congiunto. Lo sviluppo del tema si innesta, così, su una circolarità obbligata, su uno stretto ostinato a spirale, sempre teso a precipitare verso un impossibile epicentro. L'evoluzione si fa quasi ipnotica, in un continuo avvicendarsi di arresti e riprese, mentre si aprono, intorno al tema, piccoli slittamenti come alternativi poli di attrazione. È il caso del Mib sovrapposto al Mi nat. in tonalità di Do magg., espediente capace di introdurre un movimento allusivo, che ci riporta alla tradizione del blues e, dunque, in una precisa stagione culturale. Molte le dissonanze che alimentano questa suggestiva partitura, finalizzate alla creazione di poli di interesse che squarcino d'improvviso la ripetitività dell'ostinato affidato agli archi. Per quanto Morricone abbia cercato di giustificare questo tema con la scusa di dover addolcire la durezza di certe sequenze ("Io sono un tipo pacifico. Quando c'è un duello cerco sempre di ammorbidirlo"), il suo atteggiamento rivela un tratto singolare dell'etica compositiva che lo contraddistingue: la concezione della musica come strumento di riscatto umano e sociale (si pensi al procedimento modulare in Mission). Difficile, comunque, credere che un simile tema possa ammorbidire alcunché: all'opposto, la sua disperata immutabilità comunica un'impressione di ansia epidemica, che bene interpreta l'atmosfera angosciosa del film.
L'anno seguente il compositore poté ripetere questa ricerca sulla sinesi dei materiali sonori nel film di Barry Levinson Bugsy (1991). L'esito è, stavolta, una partitura più chiara, più pulita rispetto agli aspri intrecci di "Hell's Kitchen", in cui l'organizzazione delle dissonanze si fa meno dispersiva, collocata com'è nelle pause che dilatano gli spazi della partitura. In proposito va evidenziata la prosecuzione di quel lavoro sulla dilatazione del tema già visto ne Il deserto dei Tartari, ma qui realizzato con l'aggiunta di silenzi, che, spezzando il tema in frammenti ripetuti, ne prolungano idealmente la durata.
Questo progressivo asciugarsi dello sviluppo melodico, sempre più incernierato sull'ossessivo ripetersi di pochissime note, tocca l'apice nel film di Oliver Stone U Turn - Inversione di marcia (1997). Morricone giunge qui al paradosso di un tema negato, risolto brillantemente nell'oscillazione tra due gradi, in cui un flauto e una voce femminile dal forte afflato erotico dialogano su un movimento costante e ripetitivo, attorno al quale si disegna un'impalcatura timbrica di grande fascino evocativo. Alla cantabilità dell'assunto melodico il compositore unisce un'attenta indagine sul materiale sonoro, realizzando il difficile obiettivo posto dalla musica applicata al cinema: "l'orecchiabilità, senza rinunciare all'interesse nello scrivere".
A sottolineare quanto il crescente impegno nella musica colta non abbia distolto il Maestro da una costante riflessioni sugli stilemi della propria arte, si veda come negli anni Novanta il ruolo della voce umana torni a farsi preponderante nelle sue partiture, sia a livello di nenia ossessiva nel discutibile La sindrome di Stendhal (e qui l'autocitazione degli esordi argentiani è fin troppo evidente), sia come vera e propria canzone. I due maggiori risultati sono, forse, il brano scritto per Una pura formalità (1994), uno dei più originali esiti del cinema di Tornatore, intonato dalla voce ruvida di Gerard Depardieu e "A brisa do coracao", dal film di Roberto Faenza Sostiene Pereira (1995). Qui, oltre al brillante utilizzo dell'ostinato che diviene leitmotiv della partitura e si estende ad abbracciare l'intero film, notiamo uno dei tipici "divertimenti" del Maestro: il difficile equilibrio tra il tema binario dell'accompagnamento orchestrale e quello ternario della melodia di Dulce Pontes.
Nel 1998 Morricone collabora per la sesta volta con Giuseppe Tornatore; l'esito è il film La leggenda del pianista sull'oceano, tratto da un pretenzioso libretto di Baricco. Il risultato musicale è sorprendente, meno quello cinematografico, ma c'è chi ha voluto cogliere l'occasione per accusare Morricone di rifare se stesso e campare di rendita "da almeno vent'anni"; un curioso orizzonte cronologico, che escluderebbe tra l'altro la partitura scritta per Mission. Provando a ragionare a mente fredda e al di là di inutili giudizi tagliati con la mannaia, si possono ben comprendere i meriti di una partitura che prosegue la ricerca sulla cantabilità del tema principale, intrecciando le evoluzioni del vasto organico orchestrale in un magistrale contrappunto, organizzato, come sempre, per accumulazione e spinto al parossismo da un'audace sferzata degli archi. Quella che Morricone ci consegna è una pagina memorabile della musica per il cinema, in cui l'innesto di deviazioni jazzistiche, che rimbalzano dal nucleo narrativo alla partitura, si rende possibile non più grazie alla brevità delle cellule melodiche (come in C'era una volta in America), ma alla dilatazione del tema, che appoggia, come spesso accade negli ultimi anni, su un'accurata disposizione degli intervalli.
È in questo periodo che, coerentemente con la fama e il conseguente sviluppo di un apparato critico sempre più vasto, ha preso piede il confuso ritratto di un Morricone ormai stanco, annoiato dalla musica applicata e incapace di ripercorrere i fasti del passato. Se guardiamo, però, alla produzione degli ultimi anni ci accorgiamo che il profilo diventa inconsistente, forse dettato dalla delusione di alcuni per una ricerca musicale che ha definitivamente rinunciato all'avanguardismo degli anni Settanta, fino a porsi nei binari più rassicuranti del consenso popolare. Non serve dire quanto sia sterile e fiacco il tentativo di fare critica attraverso un pregiudizio ed è curioso che siano spesso i sostenitori di certo cinema fieramente popolare a sprezzare il ripiegamento dell'arte morriconiana. Ripiegamento che, si badi bene, non ha nulla a che vedere con la volgarizzazione delle idee musicali, ma guarda, anzi, alla conquista emotiva del pubblico attraverso uno studio severo e approfondito dei mezzi compositivi. Potremmo dire che quel che negli anni Settanta era in vetrina, ora è stato riposto lontano dagli sguardi più superficiali, nascosto nel tessuto musicale e rivestito di belletti. In questo atteggiamento emerge una volontà di ritorno alle origini, uno sguardo retrospettivo gettato alle prime esperienze con il grande Goffredo Petrassi, che non è, però, offuscato dalla nostalgia, ma nutrito da una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e dei mezzi espressivi a disposizione. Non è, infatti, estranea a questo mutamento di prospettiva la convergenza compiutasi tra le due anime di Morricone, che verso la fine degli anni Novanta può affermare: "mi sembra che si sia verificato una sorta di avvicinamento fra due mondi [quello della musica assoluta e quello della musica cinematografica, ndr] che fino a pochi anni fa erano in me così separati, e che anche qualche convergenza tra essi possa essersi messa in atto". Una crescente fiducia muove l'opera di Morricone, al punto che stilemi tipicamente associati alla musica assoluta fanno capolino nella produzione applicata, mentre il metodo compositivo adottato per il cinema apre la musica da concerto ad una maggiore trasparenza, tale da consentire un più diretto rapporto con l'ascoltatore. Pur mantenendo un rispettoso distacco, i due mondi cominciano a sfiorarsi, a instaurare un dialogo potenzialmente infinito, da cui ciascuno emerge arricchito nella sua espressività.
Il mancato approfondimento di questa rivoluzione teorica è, forse, alla base del dissenso riservato da una parte della critica alle più recenti opere del compositore, per quanto molti siano stati colti dal dubbio anche in seguito ad alcune incomprensibili (e sconvenienti) collaborazioni. Caso emblematico quello di Senso ‘45 (2002), spudorata rivisitazione del capolavoro di Visconti da parte di un infoiato Tinto Brass all'apice delle sue ossessioni ginecologiche. Non è una novità che Morricone decida di collaborare ad opere di scarso rilievo (la sua filmografia è costellata da simili esempi), ma interpretare il fatto come l'estremo rifugio di una creatività frustrata è altrettanto scandaloso. Per capirne le ragioni bisogna scindere la valutazione critica del film dall'atteggiamento del regista; l'ideologia del compositore è al di là dell'estetica: "In tempi andati, quando veramente non avevo nemmeno una lira, mi sono stati proposti dei film che erano la [...] bruttissima imitazione di Mondo cane. Malgrado la mia condizione, e pur essendo in un periodo in cui accettavo molto, li ho rifiutati. Però quando vedo l'amore del regista, la necessità che esprime nei confronti del mio operato, mi butto". Possiamo concederci una duplice conclusione: da un lato questo testimonia la scarsa disposizione critica di Morricone verso il lavoro altrui e, dall'altro, celebra il primato di un'etica lavorativa che va oltre le ragioni dell'arte (si è, del resto, già detto quanto la musica sia, per il Maestro, una forma di riscatto). Non bisogna, però, credere ad una ingenuità del compositore; egli stesso afferma di essersi "pentito qualche volta di avere messo in un film una musica che era troppo importante per quel film, cercando [...] di salvarlo con la musica. Niente di più sbagliato. Non si può mettere una musica importante in un film di bassa lega, perché si otterrà un risultato opposto a quello voluto".
Tornando allo squallore della fantasia brassiana, è innegabile quanto la musica vi aderisca in un senso molto più alto di quello inteso dal regista, esemplificando la discrasia tra messa in scena e colonna sonora, autocompiaciuta la prima, consapevolmente grottesca la seconda.
Del resto, caratteristica fondamentale dell'approccio morriconiano è sempre stata quella di impegnare al massimo la creatività indipendentemente dal valore effettivo della pellicola. Per questo ne L'umanoide (1979) di Aldo Lado, ascoltiamo, nel brano "Incontro a sei", un'incredibile fuga a sei parti, che intreccia lo sviluppo a tre voci dell'orchestra con quello, sempre a tre voci, del sintetizzatore. La complessità della partitura tesse una rete che imbriglia il modello bachiano negli spazi sconfinati di un universo fantascientifico, opponendosi consapevolmente alle marce trionfali composte da John Williams per Guerre stellari. È chiara la sproporzione tra il valore del film e la qualità indiscutibile della colonna sonora (così come è chiaro che solo un europeo avrebbe potuto costruire una fuga per alludere alla solennità del cosmo; per lo yankee Williams l'universo è uno spazio da conquistare), ma questo ci riporta all'assunto aureo del Maestro: "Il mestiere del compositore nel cinema non deve mai essere di routine. Bisogna, invece, auto stimolarsi, fare degli esperimenti, trovando sempre una maniera per divertirsi".
Coerentemente con la sua personalità schiva, i crescenti impegni come direttore d'orchestra e una notoria ritrosia ai lunghi viaggi, negli ultimi anni Morricone ha drasticamente ridotto i suoi contributi alla settima arte, declinando le continue offerte piovute dagli Stati Uniti (unica eccezione il tarantiniano Django Unchained) per coltivare poche, scelte collaborazioni.
Per l'amico Tornatore compone alcune tra le migliori colonne sonore degli ultimi anni, che spesso eccedono il reale valore della pellicola. Da Malèna (2000) - nel complesso il lavoro più debole - val la pena recuperare il brano "Passeggiata in paese", che racchiude in cornice grottesca i trascorsi vent'anni di sperimentazioni orchestrali e il tema dei titoli di coda, che sarebbe troppo facile leggere come la stanca ripetizione del modello collaudato in C'era una volta in America; a ben guardare, vi si introduce quel protagonismo degli archi, destinato a farsi col tempo sempre più incisivo. E basti ascoltare "Insopportabile ansia" dallo score de La sconosciuta (2006) per convincersi dell'interesse coltivato in questi anni per il colore dei violini, che qui si inerpicano su ostinati minimali, in un serrato dialogo con i fiati.
La ricerca timbrica di Morricone si fa sempre più profonda, rimbalza tra la musica da concerto e quella applicata, sino a culminare nella magnifica partitura costruita per La migliore offerta (2013). L'evocazione di un mondo impenetrabile, velato di incertezze, incapace di dichiarare la propria realtà emerge con forza nei lunghi sviluppi orizzontali, negli indugi di una musica che recupera e poi tradisce il modello mahaleriano, che si stende nel tappeto ipnotico di interminabili pedali ("La migliore offerta"), che guizza febbrile nelle cadenze dei violini solisti ("Un violino") e aggredisce lo spettatore in un travolgente rimbalzo degli archi ("Un cancello"). Morricone cattura le minime variazioni di tono della pellicola in un alto esercizio di mimesi che sfrutta l'intero corpus delle sue risorse compositive. L'accurata disposizione delle pause, che singhiozzano il tema sullo staccato dei celli, mescola le prime esperienze modulari ai silenzi di Bugsy, il frinire dei violini ci proietta verso i sibillini flautandi dei thriller argentiani, mentre l'intreccio dei vocalizzi in "Volti e fantasmi" ricuce il legame con la leggendaria Edda Dell'Orso. Bach e Frescobaldi continuano a sorvegliare con cura l'ispirazione morriconiana, che raggiunge qui uno dei suoi risultati più equilibrati: svaniti i dissidi, le incertezze, gli arzigogoli di partiture fin troppo "pensate" il compositore indovina un pregevole punto di raccordo tra musica per il cinema ed esperienza colta.
All'età di ottantacinque anni Morricone non ha perso la passione per lo studio assiduo, l'applicazione costante e ragionata ai problemi compositivi; non ha rinunciato ad un aperto dialogo con il suo pubblico, alle contaminazioni timbriche, al bisogno di una convergenza stilistica che allontani il rischio di una generica schizofrenia. Ed è in questa passione sempre rilanciata nel nome della sperimentazione, nel gusto impertinente delle commistioni musicali, nei continui moti di fiducia verso gli ascoltatori che si rinnova la freschezza di un'ispirazione inimitabile, capace di regalare alla settima arte il più straordinario, ampio e variegato corpus di commenti musicali. Non vi è genere che l'opera di Morricone non abbia attraversato, né forma cinematografica su cui non abbia lasciato un'impronta indelebile. I numeri, del resto, parlano da sé: ventisei dischi d'oro e cinque di platino, una pioggia di Nastri d'Argento, David di Donatello, BAFTA e Golden Globe, quattro nomination all'oscar (e scandalosamente uno solo vinto, alla carriera), fino al prestigioso Polar Music Prize e il Leone d'oro alla 52° Mostra del Cinema di Venezia. Per non parlare degli assidui tributi da parte dei maggiori artisti della scena internazionale (dai "Muse" a Bruce Springsteen, da Mike Patton ai "Metallica", fino all'album "We all love Ennio Morricone") e degli evidenti influssi del suo stile ormai correntemente sedimentati nelle opere di numerosi specialisti d'oltreoceano, tra cui spicca il nome di Hans Zimmer.
A fronte di una carriera irripetibile, l'opera di Ennio Morricone rimane una delle più complesse, stratificate ed estasianti esperienze nel campo della musica per il cinema; una continua sfida all'orecchio dello spettatore per far emergere i tessuti nascosti, le movenze inconciliabili, gli innesti rivelatori, nella consapevolezza che "comunicare a un pubblico è veramente la cosa più misteriosa che possa esserci. Noi crediamo alle nostre fantasie, e nel momento in cui ci accingiamo a scrivere le troviamo così presenti alla mente che ci sembrano perfettamente parlanti. Ma poi chi mai riesce a capire che cosa passa per la testa della gente che ascolta? Con quali criteri ascolta? Qual è la cultura che mette in atto nel giudicare? Questo per me è veramente il grande mistero della comunicazione musicale".
Per approfondimenti si consigliano i fondamentali testi del prof. Sergio Miceli:
Comporre per il cinema, ed. Marsilio
Musica e cinema nella cultura del Novecento, ed. Bulzoni