Ancora Hiroshima, ancora due gang rivali, ancora un poliziotto che non esita a scendere a patti con una delle due e finisce per prevalere sul malvagio, sull’antieroe per eccellenza, ancora sequenze improntate allo splatter; ma soprattutto più colpi di scena e virtuosismi registici, anche se non sempre in linea con la capacità da parte del pubblico di poterli pienamente assecondare. "The Last of Wolves", l’ultimo lavoro di Shiraishi Kazuya, presentato al FEFF 23, si presenta esplicitamente come il seguito de "Blood of Wolves" ed è ambientato nel Giappone dei primi anni 90, quando fu rinforzata la Boryokudai Taisakuo, ovvero la legge anti-yakuza, volta a una lotta senza quartiere al crimine organizzato.
Il poliziotto Shuichi Hioka, dopo l’omicidio di Shoei Irako, era riuscito a garantire un’apparente tregua tra le due fazioni criminali contrapposte degli Odani-gumi, con base a Kurihara, e dei Jinsei-kai, che agiscono invece a Hiroshima. Il giovane Yoshida Shigeru, uscito dal carcere, si presenta in occasione della terza ricorrenza della morte del boss Shoei accusando gli epigoni dell’associazione di convivenza con i nemici storici della Odani e rivendicando la necessità di liquidarli. Inizia così una catena di efferati omicidi che destano l’attenzione di Hioka, il cui fiuto lo conduce a individuare in Shigeru una minaccia per la pace. Kazuya, è abile a ribaltare le carte in tavola grazie all’imprevedibilità della diegesi. Per una buona parte del film, anche grazie a quanto noto dal prequel, Hioka è considerato il poliziotto scomodo e che per primo usa metodi poco ortodossi, tanto che ha la fama del duro. Il pubblico tende, ovviamente, ad identificarsi con lui, ma quel velo di sospetto su come sia riuscito a suggellare il congelamento delle ostilità tra i mafiosi continua ad aleggiargli intorno e quindi ad alimentare la tensione drammatica fino al punto di svolta che non coincide con il duello finale con Shigeru, ma con la scoperta che il rilascio di costui anzichè l’esito della buona condotta era stato frutto del timore che il detenuto potesse nuocere ai famigliari delle guardie carcerarie. Ad essere dunque connivente con il crimine è la polizia nei suoi elementi apicali, e non Hioka! Insomma il bianco è nero, e viceversa.
In "Last of the Wolves" uno degli elementi cardine del racconto è che la verità non appare mai integralmente per quella che è, ma viene mostrata parzialmente, tanto che necessita sempre di una tessera mancante perché il puzzle sia completo. Il punto è che le tessere mancanti vengono fornite allo spettatore (cui non è concessa la minima distrazione) in circostanze del tutto inaspettate. A questa verità centellinata si aggiunge un’altra caratteristica della pellicola: il ricorso a un montaggio ellittico che grazie al jump cut, escludendo alcune porzioni della narrazione rende più concitato e imprevedibile il suo sviluppo. Ad esempio, quando Hioka si reca alla stazione di polizia con il sospetto che la sezione scientifica non abbia fatto fino in fondo il proprio dovere, al termine delle sue rimostranze si sentono i suoi passi di corsa; vi è poi uno stacco in seguito al quale si vede lo stesso Hioka che bussa insistentemente ad una porta metallica, senza risposta. Ora, in base a ciò che è accaduto, Kazuya porta lo spettatore a credere che il buon Hioka sia stato ristretto in qualche stanza della stazione di polizia. Quando però l’inquadratura si allarga, scopriamo di trovarci all’esterno della stazione, e che Hioka sta bussando alla porta di casa del collega Seshima Takayuki, di cui sospetta. Nel film non solo Hioka, ma anche gli altri personaggi non vengono mostrati mentre si spostano da un luogo all’altro; semplicemente vi si materializzano. Questo montaggio bulimico che divora i tempi narrativi e ci spiattella ubique epifanie (giacchè i personaggi possono di conseguenza comparire dovunque e pressoché in qualunque momento) è croce e delizia del film, poiché vi si ricorre troppo spesso ed è una pratica che tende a diventare maniera. Il personaggio simbolo di questa tendenza è il giornalista che sembra essere continuamente sulle tracce di Hioka.
Altro esempio dell’effetto straniante dovuto al montaggio sono le inquadrature che iniziano con gli stacchi sui quotidiani: in tutto il corso del film l’identità di chi legge la notizia (aspetto importante tanto quanto cosa è scritto sul giornale) viene sempre mostrato dopo il giornale, mai prima. In questo modo allo spettatore non sono concesse pause, ma viene imposta una serie di tappe forzate che fanno da giuntura con le sequenze successive. Una sequenza invece più classica, e che tecnicamente ricorda le inquadrature delle opere del conterraneo Yasujiro Ozu (ad esempio "Viaggio a Tokyo") è quella dedicata all’uccisione di Seshima. Costui, dopo una partita a carte, fuoriesce da un’abitazione e lungo un silenzioso e breve vicolo raggiunge una strada ad esso perpendicolare. Grazie alla macchina da presa fissa all’estremità del vicolo, dopo che, Seshima ha svoltato a sinistra, si vede un automezzo transitare lungo la strada, poi si percepisce una frenata e uno schianto. Sempre con la macchina da presa immobile, dopo qualche secondo, una donna spunta dalla strada e si immette nel vicolo in direzione dell’abitazione: è Mao Chikada ad aver così vendicato la morte del fratello Kota.
Altro elemento caratterizzante del film sono i flashback, che sono importanti per almeno due ragioni: innanzitutto perché, in una realtà fenomenica così prismatica nella quale nulla è certo, essi costituiscono i rari momenti in cui lo spettatore può fidarsi di ciò che vede e sente, in quanto la voce fuori campo che commenta le fotografie è un narratore onnisciente che, in quanto tale, non mente; poi per il fatto che in questo modo si è risparmiato del tempo filmico che va a vantaggio della narrazione al presente. Anche nelle scelte di fotografia Kazuya non si smentisce nel suo tentativo di cogliere di sorpresa lo spettatore: la sequenza più buia del film, con i volti che a malapena emergono dall’oscurità è quella in cui è proprio il giornalista che seguiva Hioka per averne delle informazioni a rivelargli che Shigeru Uebayashi ha ottenuto dalla polizia campo libero contro i nemici.
Gli autori che più apertamente paiono citati in "Last of the Wolves" sono, ovviamente, i predecessori del genere yakuza eiga. Più precisamente Seijun Suzuki, autore di "Tokyo Drifter", per il tema della lealtà al vecchio boss e lo showdown finale come preludio al ridimensionamento sociale e lavorativo del vincitore; e Fukasaku Kinji, per l’impiego della voice over, l’introduzione della figura dell’antieroe e l’ambientazione ad Hiroshima di "Lotta senza codice d’onore". Non poche sequenze ricordano inoltre film di Martin Scorsese incentrati sulla mafia italoamericana ("Casinò" e "Quei bravi ragazzi").
cast:
Ryohei Suzuki, Miwako Kakei, Rino Katase, Tôri Matsuzaka, Yoshiko Miyazaki, Nijirô Murakami, Baijaku Nakamura, Shido Nakamura, Kiyohiko Shibukawa, Sho Aoyagi
regia:
Kazuya Shiraishi
titolo originale:
Korou No Chi Level 2
distribuzione:
Toei
durata:
149'
produzione:
Toei
sceneggiatura:
Jun'ya Ikegami, Yûko Yuzuki
fotografia:
Kohei Kato
musiche:
Yasukawa Goro
Hioka, il poliziotto dai metodi discutibili ma abile, indaga sull’omicidio di una pianista. Sullo sfondo il Giappone sull’orlo di una rovinosa guerra tra due fazioni contrapposte della Yakuza. Shigeru, restìo a un accordo tra la propria fazione e quella nemica, inizia la propria ascesa criminale fino allo scontro finale con Hioka.