Atto I: The Director Gone Home
"So, without trust, without confidence, we cannot invite you here."
Da "Liberation Day"/Laibach, "Welcome Speech"
Presentato fuori competizione al Festival di Cannes 2018 e ora posto a conclusione della rassegna a lui dedicata al Far East Film Festival, l’ultimo film di Yoon Jong-bin è un ritorno a generi e registri più tipici del cinema sudcoreano internazionalmente noto dopo l’instabile coacervo di modelli e ispirazioni "Kundo: Age of the Rampant", pur ribadendo la rielaborazione dei generi cinematografici e dei loro topoi come uno dei tratti centrali della produzione di Yoon. Questa può essere addirittura letta come un’esplorazione delle categorie stereotipiche del cinema del paese asiatico, passando dai drammi di ambientazione contemporanea denuncianti la sperequazione e la violenza tacita insita nella società coreana alle pellicole in costume che mettono in immagini momenti significativi della storia moderna del paese (o del percorso verso essa, come in "Kundo"). Con "The Spy Gone North" tocca alla spy story, genere molto frequentato dal cinema coreano anche in virtù della storia recente della nazione, vittima di varie occupazioni, nonché della traumatica separazione fra Nord e Sud che ha fatto del sospetto e della paranoia i pilastri delle relazioni fra i due stati a più livelli, come la pellicola di Yoon mostra con efficacia in numerose occasioni.
Il film del 2018 si distanzia però dalla maggior parte dei film di spionaggio sudcoreani, pellicole ad alto budget piene di azione e ambientazioni esotiche (ben rappresentate da "Deliver Us from Evil" in questa edizione del FEFF), in sostanza ben più vicine a 007 che a le Carré, optando per una rappresentazione strettamente realistica delle attività spionistiche e adattando con fedeltà quanto si sa della missione di Corea del Nord dell’agente Park Chae-seo. A metà degli anni 90 questi, ufficialmente dopo essere stato allontanato dal servizio segreto nazionale del Sud per cattiva condotta, iniziò, reinventatosi imprenditore, delle attività commerciali prima con la Cina e poi col Nord, continuando in realtà a lavorare sotto copertura per la propria agenzia, col fine di entrare nel circolo degli alti funzionari di Partito nordcoreani e ottenere informazioni sull’incipiente programma nucleare del paese. Per quanto la storia della spia sudcoreana che, fingendosi un imprenditore senza scrupoli interessato a girare delle pubblicità in Corea del Nord, incontrò Kim Jong-il sia a dir poco bigger than life, Yoon evita costantemente un approccio spettacolare al racconto e alla messa in scena, perseguendo una rappresentazione rigorosa degli eventi e soprattutto del contesto sociale e storico in cui si sono svolti. "The Spy Gone North" accumula nomi, fatti e date nel corso delle sue oltre due ore senza però ridursi a una calligrafica ricostruzione degli anni 90 coreani (i quali sono comunque resi in maniera magistrale grazie alle scenografie e alla fotografia degli usuali collaboratori del regista), ma fornendo un ricco e denso canovaccio in cui tracciare le forti polarizzazioni che sono centrali nel cinema dell’autore.
Atto II: Il linguaggio del genere
"Si ritiene che il sentimentalismo sia una prerogativa femminile, ma questo
è palesemente un errore. Essere sentimentali significa essere virili."
Mishima Yukio, "L’età verde"
Fin dall’esordio "The Unforgiven", testimonianza carica di pathos delle difficoltà collegate al lungo servizio militare obbligatorio sudcoreano, Yoon Jong-bin ha concentrato la sua attenzione sull’omosocialità maschile e quindi sulle relazioni che si sviluppano all’interno di comunità composte solamente da maschi, o in cui essi sono comunque totalmente dominanti. Non va interpretato come un dato puramente secondario il fatto che i protagonisti delle sue pellicole siano pressoché esclusivamente uomini e che, qualora sia concesso spazio anche a personaggi femminili, essi siano poco più che plot device finalizzati allo sviluppo della trama, come le clienti dei protagonisti di "Beastie Boys", o siano esplicitamente connotate come poco femminili, come la guerriera Ma-hyang di Yoon Ji-hye in "Kundo". Se film d’azione in costume come quest’ultimo o gangster movie di foggia scorsesiana come "Nameless Gangster: Rules of the Time" sono tradizionalmente popolati soprattutto da figure maschili, le spy story spesso divergono, attribuendo a personaggi femminili ruoli significativi o quantomeno appariscenti: ma, come ritengo sia ormai chiaro, in "The Spy Gone North" non c’è spazio né per super agenti segrete, né per Bond girl.
Il focus sull’omosocialità permette di approfondire tipologie di legami sociali proprie di una virilità facilmente considerabile agée, concentrandosi così sulla socialità stereotipicamente maschile fatta di competizione, onore, micro-aggressività e gerarchie, individuandone anche i tratti più celati e cortesi, spesso occultati sia nei discorsi apologetici dell’omosocialità maschile che in quelli esplicitamente critici. I protagonisti dei film di Yoon possono difatti sembrare spesso monolitici e inflessibili e sono per l’appunto interpretati da attori dall’espressività generalmente contenuta, come ben esemplifica il magistrale Hwang Jung-min in "The Spy Gone North" con l'agente Park Seok-young, ma sono figure stratificate e complesse, che si esprimono, in maniera ancora stereotipicamente maschile, tramite le loro azioni e il cui dramma sta quasi sempre negli sguardi e nei dettagli dei movimenti, nelle esitazioni dei corpi. Gli agenti segreti della pellicola, con le loro facciate da mantenere a tutti i costi e la loro continua interpretazione di vari ruoli, si fanno quindi sia perfetta metafora, sia ottimo terreno di prova di questo stile recitativo costruito per sottrazione, distante dall’eccentricità grottesca che il cinema popolare sudcoreano ha spesso privilegiato.
Un altro tratto centrale di questo cinema costruito attorno all’omosocialità maschile e fondato, per quanto a prima vista non sembri, sugli attori sono le forti contrapposizioni che si sviluppano fra i personaggi principali, spesso riducendo due di questi a incarnazioni di diverse mentalità e visioni di mondo, che pur nell’estenuante polarizzazione condividono diversi tratti in comune, come una posizione socialmente marginale, sancendo una vicinanza nella distanza che ben si addice all’impianto ideologico di questa stringente omosocialità maschile. In modalità alquanto peculiare i film di Yoon finiscono per divenire delle specie di buddy movie in costume e seriosi, in cui i due compari vogliono in primo luogo avere la meglio l’uno sull’altro, pur finendo eventualmente per rispecchiarsi reciprocamente, come i protagonisti di "Kundo" o del film in analisi, facendo così dialogare fra loro anche alcuni aspetti della società e della storia coreana. Park Seok-young e il funzionario nordcoreano Ri Myung-woon si elevano così a personificazioni dei rispetti paesi e del loro posizionamento nello scacchiere internazionale di ideologie e influenze, mostrando al contempo l’enorme e innegabile vicinanza dei due stati nonostante l’abisso che li divide.
Atto III: Once Upon a Time… in Pyongyang
"The audience is blind
To what takes place
In the pillory
Life is a stage"
Quest’ultima annotazione permette di introdurre un altro tema centrale nella produzione di Yoon Jong-bin, ovvero la rielaborazione dei generi cinematografici più frequentati dall’industria sudcoreana e dei loro topoi, che si fa a sua volta strumento per riflettere sulla storia e la situazione della Corea, tramite i riferimenti alla cultura popolare che l’hanno resa celebre e riconoscibile. Mentre il dramma di denuncia sociale diviene il tramite per esplorare aspetti marginali della società sudcoreana, come il servizio militare obbligatorio oppure la prostituzione maschile nei quartieri benestanti di Seoul, e il gangster movie permette di riflettere sulla corruzione del paese e la violenza endemica al suo interno fin dai tempi dei regimi militari, il film di spionaggio rende possibile la messa in scena delle innegabili convergenze fra Nord e Sud. Infatti ambedue, nonostante l’enorme differenza politica e ideologica, sono gestiti da autocrati che ostentano, così come i loro sottoposti, il mandato popolare, il quale viene fatto capire quanto sia pretestuoso tramite le varie parentesi dedicate alla vita quotidiana nei due stati.
In questa ottica il sospetto passa dall’essere solo un tratto tipico della connotazione dei personaggi a divenire atteggiamento basilare di ogni possibile relazione, facendo della pellicola stessa un’opera paranoica, tesa alla creazione di indizi per lo spettatore destinati a sviarlo, e a sviare poi lo svolgersi del racconto stesso, similmente a quanto avviene in classici come "La conversazione", spingendo gli spettatori, così come tutti i personaggi, alla continua ricerca di tracce, di sintomi, della colpevolezza altrui. Allo stesso modo la macchina da presa si concentra spesso sui dettagli, non solo nei prevedibili momenti di indagine, ma anche in situazioni apparentemente ordinarie, riproducendo così l’insaziabile fame di prove dei regimi autoritari (e lo sono entrambi, fino a poco prima della fine del film) e dei loro funzionari. I protagonisti di "The Spy Gone North", e in primis Park Seok-young, sono per questo così "trasparenti", connotati e interpretati in maniera apparentemente piatta, in quanto mostrano la stratificazione dell’identità e la sua costruzione a partire da stereotipi, per rendersi decodificabili più facilmente all’interno di un regime paranoico.
Questo sistema poi deflagra nelle concitate sequenze prefinali, in cui i due buddy, pur sospettando l’uno dell’inaffidabilità dell’altro, decidono di collaborare per convincere Kim Jong-il a cambiare il piano discusso assieme a vari funzionari governativi sudcoreani (fra cui il superiore di Park) per sabotare le elezioni del Sud e impedire al democratico Kim Dae-jung di venire eletto, in quanto bloccherebbe il prosieguo dell’ambizioso accordo pubblicitario. Interpretando a lungo il ruolo di un personaggio realmente devoto al progetto il protagonista ha finito per supportarlo realmente, portando la sua recita fino alle estreme conseguenze d’immedesimazione, a costo di far fallire la missione originale. Così i topoi del cinema popolare sudcoreano messi in scena da Yoon in ognuno dei suoi film finiscono per assumere una complessità diversa e dare così un nuovo significato al loro utilizzo: né pigrizia di scrittura, né sentito omaggio, ma piuttosto risignificazione in un diverso contesto. Ne deriva che l’adrenalinica azione tipica di una spy story anneghi nella statica tensione di un film che non mostra (quasi) mai una goccia di sangue, una storia di complotti cerebrale e minimale ma diversa dalla fredda e disincantata distanza di un’opera come "La talpa", come la sentita e teatrale sequenza finale rende chiaro.
In questa, che per via della costruzione artificiosa dello spazio può parere quasi onirica e che devia da quanto ricostruito della vicenda della vera spia Park Chae-seo, i due protagonisti si incrociano a distanza, due figure rese quasi bidimensionali da accecanti fari e che restano ai margini della scena e lontane dallo svolgersi manifesto della Storia, pur conoscendo il reciproco fondamentale ruolo in questa (e avendo modo di provare la propria vicinanza spirituale). Se in "Kundo" si era rintracciato un che di tarantiniano nell’approccio al sovvertimento dei generi e dei cliché (ma lo si potrebbe in realtà individuare già in "Nameless Gangster"), "The Spy Gone North" rimarca la correttezza dell’intuizione ampliandone i margini di utilizzo. L’impianto teatrale, anzi, cinematografico dell’ultima sequenza, in cui è letteralmente coinvolta una troupe che sta registrando un fondamentale documento storico, permette di ritenerla non una semplice licenza poetica che romanza lo svolgimento dei fatti ma una voluta riconfigurazione della Storia ricorrendo alla potenza del Cinema, dando ai suoi dimenticati protagonisti un ruolo di primo piano che mai avrebbero potuto ottenere in realtà. Si può suggerire a questo punto che la sovversione dei generi per Yoon Jong-bin, così come già per il regista americano, non sia stata che l’inizio di un percorso di concezione del cinema come strumento per ridefinire il reale e il suo fluire. Nel lento declino del cinema popolare coreano forse c’è ancora qualcuno in cui riporre la propria fiducia, sperando non sia, come i suoi eroi, un impostore.
cast:
Hwang Jung-min, Lee Sung-min, Cho Jin-woong, Ki Joo-bong, Kim Hong-pa, Jeong So-ri, Yeong Chae
regia:
Yoon Jong-bin
titolo originale:
Gongjak
durata:
137'
produzione:
Sanai Pictures, Moonlight Film
sceneggiatura:
Kwon Sung-hui, Yoon Jong-bin
fotografia:
Chan-min Choi
scenografie:
Il-hyun Park
montaggio:
Jae-beom Kim, Sang-beom Kim
musiche:
Yeong-wook Jo