I primi minuti della nuova pellicola del giovane ma già prolifico Lee Thongkham presentano tutti i topoi del cinema horror thailandese, sottoponendo fin dal prologo gli spettatori a un tour de force visivo e soprattutto auditivo, accumulando jump scare, flashback traumatici, riprese che alternano staticità insistita a movimenti di macchina convulsi, spettri vendicativi, spettri che forse non sono tali, scimmie spettrali che probabilmente non sono né scimmie, né spettri, etc… In sostanza tutto l’ambaradan che gli appassionati del filone hanno imparato a conoscere negli ultimi decenni tramite le pellicole di autori come Wisit Sasanatieng e Yuthlert Sippapak, i quali hanno per la maggior parte adattato i tratti centrali del J-horror al contesto thai, favorendo interpretazioni più spirituali e folkloriche dei fantasmi che vi appaiono. I minuti introduttivi e il primo capitolo presentano tutti gli elementi tipici del filone succitato, giustificando i timori di chi s’aspettava di trovare in “The Maid” l’horror estremamente convenzionale e anche un po’ bruttino che pare una tradizione inossidabile di ogni Far East Film Festival. E invece dopo i primi 40 minuti ci si accorge che l’intreccio si sta svolgendo troppo rapidamente, che ci sono troppi elementi sopra le righe perché possa trattarsi solo dell’ingenuità di un giovane cineasta e che non tutto torna come dovrebbe non solo nella sfarzosa villa in cui è ambientato il film ma anche in quest’ultimo.
Presto diviene chiaro che la prospettiva più adatta per interpretare il film di Thongkham sia quella della rielaborazione dei cliché e della sovversione delle aspettative spettatoriali, portando gradualmente una banale ghost story thai in territori che non sarebbe inappropriato definire pulp. Per quanto lo sconvolgimento delle precedenti concezioni del film non avvenga in maniera repentina, ma anzi venga costruito progressivamente dal passaggio dal primo al secondo capitolo e da questo al terzo, esso raggiunge il climax in maniera molto rapida, trasformando quasi istantaneamente sospetti inverosimili in rivelazioni che spingono a vedere l’intera narrazione da una prospettiva completamente diversa (e per questo motivo non priva di zone d’ombra nell’interpretazione di certi passaggi, le quali anzi aumentano dopo il coup de théâtre). Se difatti la prima sezione di “The Maid” si distingue per l’adozione di ogni stereotipo dell’horror thailandese, dall’ambientazione domestica alla presenza di oggetti posseduti, passando per la regia geometrica e la fotografia molto curata, già nella seconda, utilizzando il topos del fantasma come guida alla comprensione dell’arcano (si pensi anche a un film diversissimo per contesto e stile come “Cemetery of Splendour” di Apichatpong Weerasethakul), il film si connota come un mistery più che un horror stricto sensu, arrivando poi, con la prima grossa rivelazione, nel territorio del puro dramma. Ma è quella successiva a far transitare il film all’ultimo capitolo e alla sua ultima incarnazione, quella del vendicativo gioco al massacro pulp, mentre la protagonista da vittima diviene carnefice, passando per detective.
Si potrebbe a questo punto leggere “The Maid” anche come una riflessione sulla recitazione e sul mettere, e mettersi, in scena. La forte enfasi sulle caratteristiche restrittive dell’isolato nucleo famigliare che risiede nella fastosa villa isolata nella campagna thailandese e la necessità di conformarsi a questo stile di vita per chiunque ivi lavori, proietta fin da subito il tema dell’adattamento a un ruolo predefinito e l’adesione quanto più fedele e partecipe a esso, cosa in cui la protagonista Joy pare inizialmente molto versata. La ragazza, figura centrale nell’azione del racconto e nella ratio che la guida come ben poche protagoniste di film dell’orrore, pare però inizialmente una comparsa, una figura scialba e timida che vaga per le stanze della magione subendo (o forse “cercando”) continui spaventi, la cui recitazione è tanto trasparente da potersi dire inesistente. Ma, come si è già anticipato, il film di Thongkham fa del rovesciamento delle aspettative spettatoriali e dei cliché del genere la sua ragione fondante, e quindi, insieme alla trama, anche la recitazione della giovane Ploy Sornarin si adatta a questa inversione a U narrativa, o meglio è lei stessa a determinare questo cambio, trasformando un compassato ed esangue horror gotico in un metanarrativo festival dell’eccesso grand-guignol, adattandosi allo stile recitativo enfatico e sopra le righe per cui ora si distingue in mezzo all’ancora posato resto del cast.
Da questo punto di vista il film stesso si presta a una ratio e a un copione apparentemente esterni agli assunti iniziali, in maniera simile a quanto avviene mediante la recitazione, evidenziando sia le ambizioni metacinematografiche di Lee Thongkham, sia l’insistita meccanicità dello sviluppo narrativo. “The Maid” si rivela a questo punto come un giocattolo metalinguistico e pulp che non può essere considerato fuori tempo massimo solo perché diparte da un contesto cinematografico che raramente ha fatto della sovversione uno strumento narrativo e discorsivo abituale. Il meccanismo funziona però ottimamente, in quanto la connotazione stereotipata di ogni singolo capitolo è egregiamente sviluppata e non pochi sono gli interrogativi secondari che lascia dietro di sé in modo da far continuare il gioco, perlomeno al cervello di chi guarda. Al netto dei riusciti momenti drammatici e della brutalità del redde rationem finale, “The Maid” va preso quindi come un divertissement piuttosto innocuo, la cui forza sta nella consapevolezza con cui sottotraccia presenta se stesso come opera intrinsecamente ludica e chiede di non essere preso sul serio (difficile ritenere verosimile quasi ogni cosa che avviene negli ultimi 30 minuti). Non sia mai che questo sia a sua volta un nascondimento con cui il film, minuto e poco credibile come la sua protagonista, porta avanti una lotta contro la mediocrità che contraddistingue il proprio panorama cinematografico.
cast:
Ploy Sornarin, Savika Chaiyadej, Theerapat Sajakul, Kannaporn Puangtong
regia:
Lee Thongkham
titolo originale:
Sao-lab-chai
durata:
102'
produzione:
Global Film Station, Hollywood, Thongkham Films
sceneggiatura:
Piyaluck Tuntisrisakul
fotografia:
Brandt Hackney
scenografie:
Naphat Sakulniphat
montaggio:
Lee Thongkham
musiche:
Bruno Brugnano