Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
8.5/10

Cemetery of Splendour

Atto I: The Past Is Another Country

“Il tempo speso a far nulla, è un tempo senza fine.”
Dal film

All’interno dello sfaccettato mondo del cinema d’autore contemporaneo Apichatpong Weerasethakul (per i più coraggiosi, si pronuncia /ʔà.pʰí.tɕʰâːt.pʰōŋ wīː.rá.sèːt.tʰà.kūn/) si è distinto nel Terzo millennio come uno dei cineasti più originali e indefinibili, le cui pellicole sono suggestive collazioni di immaginari di apparentemente impossibile interpretazione, soprattutto se la si intende come esplicazione. Per questo motivo la maggior parte delle recensioni dei film del regista thai si concentra sulla resa, in maniera spesso bozzettistica, delle suggestioni visive che questo cinema al contempo trascendentale e prosaico suscita. Le ragioni sono ben evidenti a chiunque si sia trovato a dedicare del tempo al cinema nomade e ineffabile del cineasta thai, che da vent’anni si serve di convenzioni narrative e riferimenti culturali molteplici per creare immagini tanto potenti quanto ermeneuticamente opache.
La nomadologia di Deleuze, d’altronde il filosofo più citato negli studi accademici sul cinema di Weerasethakul, è stata raramente usata in maniera più ficcante da parte dei critici cinematografici ed è legittimata fin dalla biografia del regista. Figlio di due medici di ascendenza cinese di Bangkok trasferiti nella provincia settentrionale di Khon Kaen, non a caso il setting di “Cemetery of Splendour” (il cui titolo originale significa “amore a Khon Kaen”), Apichatpong Weerasethakul ha un curriculum internazionale, essendosi formato in filmmaking alla School of Art Institute di Chicago. Tornato in Thailandia e fondata la propria casa di produzione, Kick the Machine, il regista si è distinto per il legame viscerale con la regione di confine a maggioranza laotiana in cui ha trascorso la propria infanzia e la simultanea vicinanza al panorama internazionale della videoarte e del cinema d’autore più eccentrico. L’esplicito ritorno nel Khon Kaen che è “Cemetery of Splendour” permette di inquadrare superficialmente la pellicola nel corpus del cineasta.
Spesso tracciare uno stretto legame fra la biografia dell’autore e le sue opere è un escamotage con cui evitare di approfondire in maniera critica le matrici culturali di queste, una convenzione critica che finisce per banalizzare la polisemicità di un’opera. In maniera quasi paradossale sono proprio pellicole così ricche e, apparentemente, poco trasparenti come quelle di Weerasethakul a prestarsi a un’interpretazione che si serva di una prospettiva anche biografica, come ribadito dallo stesso regista, non a caso messosi al centro di almeno una sua pellicola, la breve “Mekong Hotel” del 2012. Dopo quella riepilogazione dei fondamenti del suo cinema, quasi una sorta di “Weerasethakul for dummies”, i suoni della foresta e poi quelli dell’emergente attività antropica che altera l’ambiente immergono nuovamente lo spettatore in una dimensione transitoria di totalizzante ibridazione. L’ennesimo statico long take rende consapevoli che si sono di nuovo valicate le porte della dimensione personale dell’autore de “Lo zio Boonmee si ricorda le vite precedenti”.
Ciò che stupisce sempre di questo cinema, qualora si abbia la pazienza di accettarne le ostiche premesse (in questo somiglia a un altro grande protagonista del cinema d’autore del Sud-est asiatico, Lav Diaz), è la facilità con cui reinterpreta la maggior parte delle convenzioni, narrative, registiche, tecniche, del cinema narrativo e, molto spesso, le trasla in una dimensione in cui il confine fra i generi, i registri e i tipi di filmmaking si fa poroso. Ciò non viene ottenuto tramite la decostruzione degli stereotipi, l’allentamento della logica narrativa e la distensione dei tempi del racconto, o meglio non solo, ma in primo luogo con l’apparente sovvertimento della logica unitaria della regia che si legittima mediante l’autorialità. La narrazione quindi si sfilaccia in una sequela di rivoli non sempre esplicitamente legati, il limite fra fittizio e reale (o meglio, documentario) si dissolve e la sintassi filmica si congela in quella che sembra la regia più basica possibile, pochi campi lunghi e medi fissi e prolungati, spesso nemmeno accentrati sul soggetto dell’azione.

 

Atto II: uno, nessuno, due(mila)

“Just let him stir in that dream worn
And grey
Of us coming, coming in waves
Like dogs leaping for throat and face
Tearing, tearing away”
Rome, “Nurser

Tramite l’abbattimento del principio ordinatore sembra venire meno anche l’autorialità, dato che i film di Weerasethakul, e “Cemetery of Splendour” più di tutti, paiono svilupparsi come un libero flusso di immagini non instradato in una precisa direzione narrativa o discorsiva. In questo modo l’individualità del regista può essere messa in scena ponendola nei personaggi che condividono con lui parte della biografia, trasformando questi film anche in esperimenti mentali su di sé (si pensi alla love story fra l’indigeno e il forest di “Tropical Malady”), senza però ammorbare il pubblico con un’autoreferenzialità narcisistica. Superato lo choc di un cinema che pare accumulare quadri in maniera snobisticamente non causale, si è introdotti al percorso di Jen, presente come la non attrice che la interpreta in tutte le pellicole più recenti di Weerasethakul. Questo non corrisponde alla linea narrativa principale del mistero che sta dietro il sonno in cui cadono i soldati che sorvegliano uno scavo segreto nelle campagne del Khon Kaen ma la interseca, così come si trova a collimare con le vicende degli altri coprotagonisti di questa sorta di affresco di un mondo immobile, in perenne transizione.
I soldati dormienti si fanno anche immagine di questo principio cardine della weltanschauung del cineasta thai: il divenire di tutte le cose come garanzia e causa dell’immutabilità del tutto, così ben reso a livello registico tramite l’uso dei campi statici (le carrellate in “Cemetery of Splendour” si contano sulle dita di una mano e proprio per questo sono sempre significative) al cui interno avviene ogni genere di evento. Nei loro coma individuali i soldati vivono e combattono insieme in una dimensione onirica che forse è solo un tempo passato che il magico sonno collega al presente, fornendo un rispecchiamento che però non produce banali dualismi sonno/veglia, sogno/realtà, finzione/documento ma che serve a disgregare l’idea di una realtà (cinematografica, in primo luogo) unica. In un mondo in cui due spiriti di principesse secolari si manifestano a una sciancata operatrice sanitaria e condividono della frutta (e delle preziose informazioni) con lei il solo pensiero che ci sia una concezione esclusiva di Storia, di racconto e di cinema è insostenibile.
Weerasethakul ribadisce questo concetto inserendo all’interno della pellicola il trailer del presunto fantasy-horror “The Iron Coffin Killer”, film annoverabile alla new wave del cinema di genere thai esplosa all’inizio del millennio che fornisce un apparente controcanto, ben più ludico e triviale, delle inafferrabili ghost story che in fin dei conti sono quasi tutti i film del regista di Bangkok. Il fantasma, non a caso figura centrale di quasi ogni immaginario cinematografico, è una delle più evidenti immagini del doppio ed è per questo un elemento focale del cinema di Weerasethakul. In “Cemetery of Splendour” è anche il cinema a divenire esplicitamente fantasma, copia sbiadita e fugace, di sé stesso col raddoppiamento, rivelando la concezione simulacrale (sui generis, certo) della Settima arte che ha Weerasethakul. D’altronde tutti i film del regista sono legati fra loro da personaggi ricorrenti, situazioni che si ripetono e medesimi sviluppi in una uguale e progressiva rielaborazione degli stessi temi e immaginari, mentre l’emersione dell’elemento documentaristico (nel senso che documenta situazioni esistenti nel mondo al di fuori del profilmico) crea un rispecchiamento quasi unico fra la realtà degli attori, della produzione e della Thailandia e la messa in scena di questi elementi nella finzione.

 

Atto III: Eyes Wide Shut

“E non è detto che sia soltanto il sogno della Ragione a generare mostri:
esiste anche la veglia, l’insonnia del pensiero.”
Gilles Deleuze, “Differenza e ripetizione”

Non è la metaforizzazione, e quindi la letterarizzazione, della realtà extra-filmica ma la sua esplicita messa in immagine a creare questi doppi, trasportando in maniera diretta nel mondo di “Cemetery of Splendour” i dolori e i turbamenti della protagonista Jen/Jenjira Pongpas Widner, le considerazioni del regista sulla nuova svolta militarista della politica thailandese e molto altro. Nel cinema di Apichatpong Weerasethakul non si ricorre a correlativi oggettivi di matrice letteraria ma alla diretta immaginazione di eventi, persone e idee, vividi come raramente accade nell’audiovisivo, forse come mai prima all’interno di un cinema che, seppur attraverso ritmi contemplativi e scelte da cinema vérité, mette in scena racconti fantastici e manifestazioni spiritiche. Si può a tal punto affermare che fra i moltissimi temi che trovano ospitalità nel peculiare universo cinematografico di Weerasethakul il cinema stesso sia probabilmente il più importante di tutti, come ribadito non solo dalla cinefilia e dalle parentesi metalinguistiche, ma soprattutto dall’importanza che hanno al suo interno la ripresa e la rielaborazione del passato e dell’immaginario, così come la riflessione sulla loro materialità e la loro consunzione.
All’interno di questo corpo senza organi audiovisivo il montaggio può sembrare uno strumento tecnico secondario ma la sua importanza non viene sminuita dall’ampio ricorso al long take, in quanto è strumento della giustapposizione fra situazioni differenti, esplicitando così i rapporti impliciti fra queste, come si può evincere dal reiterato ricorso al montaggio analogico. Il montaggio quindi rimarca e complica la coesistenza delle diverse realtà messe in immagini in “Cemetery of Splendour” ottenuta con il long take e la profondità di campo, seppur in maniera meno esplicita rispetto a pellicole frammentarie come “Tropical Malady” e “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. L’origine della differenza forse sta nella centralità di Jen, protagonista come nessuno prima nel cinema di Weerasethakul, pure più del Boonmee della pellicola omonima, al quale è vicina per l’enfasi sul corpo lesionato, immagine di un cinema (non solo quello del regista e del suo paese) mai così fragile. Il tema dell’identità, così importante nella filmografia del regista thai, può sembrare in secondo piano per i medesimi motivi ma invece viene ulteriormente valorizzato dalla sequenza metanarrativa dell’immedesimazione della giovane medium Keng col soldato dormiente Itt, così da permettere a Jen di interagire col giovane senza famiglia che ha deciso di “adottare”.
Solo un interprete, un termine medio, permette l’interazione fra realtà apparentemente distanti, così come le offerte votive fanno sì che pure il consorte statunitense di Jen possa entrare in contatto con i culti di un paese così lontano da quello natio. Questi tramite possono essere considerati altre immagini del cinema, strumento fondamentale per relazionarsi col mondo dall’aspetto sempre più precario, se si pensa che nelle precedenti pellicole di Weerasethakul chiunque poteva entrare in contatto con le dimensioni parallele, senza ricorrere a medium. Ma nella sempre più autoritaria Thailandia il contatto con gli altri sé e col passato può portare a conseguenze patologiche (la narcolessia che colpisce i soldati) e i sogni che nascono da questo sonno (?) della ragione possono mutilare la realtà senza che ce se ne accorga, come avviene nel finale, coi ragazzini che continuano a giocare nel campo da calcio come nulla fosse, nonostante la profonde buche scavate dagli operai del governo. Nel frattempo, Jen, testimone della molteplicità e specularità della realtà, rimane forse l’unica persona a rendersi conto di ciò che sta avvenendo, mentre fissa la devastazione con gli occhi forzatamente spalancati, specchi (e porte) dell’anima che riflettono sempre il reale, così da renderne possibile la visione e la comprensione.


21/05/2020

Cast e credits

cast:
Jenjira Pongpas, Banlop Lomnoi, Jarinpattra Rueangram, Sakda Kaewbuadee, Petcharat Chaiburi, Richard Adamson


regia:
Apichatpong Weerasethakul


titolo originale:
Rak Ti Khon Kaen


durata:
122'


produzione:
Kick the Machine, Illuminations (Past Lives)


sceneggiatura:
Apichatpong Weerasethakul


fotografia:
Diego Garcia


scenografie:
Pichan Muangduang


montaggio:
Lee Chatametikool


costumi:
Phim Umari


musiche:
Akritchalerm Kalayanamitr (sound design)


Trama
Provincia di Khon Kaen, Thailandia nord-orientale (Isan). I soldati che sorvegliano uno scavo voluto dal governo cominciano a soffrire improvvisamente di narcolessia. In attesa di scoprire la causa gli uomini vengono stanziati in una vecchia scuola, presso cui si reca Jen, da poco tornata nella regione, per lavorare come operatrice sanitaria. Lì conoscerà Keng, una giovane medium che aiuta le famiglie a restare in contatto coi dormienti, e Itt, soldato che è fra i primi a risvegliarsi per poi piombare nuovamente nel sonno, che decide di adottare come figlio.
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