Probabilmente il concorso di Cannes 2010 non sarà ricordato negli anni come il migliore della storia festivaliera (anzi...), tuttavia, ci sono vari motivi per prendere con soddisfazione la notizia della prima palma d'oro assegnata ad un film thailandese. Innanzi tutto perché la giuria (presieduta da Tim Burton e composta anche dalla nostra Giovanna Mezzogiorno) ha premiato un film visionario, che se non altro ha il pregio di non scadere nel già visto. Poi perché la cinematografia "
made in Thailand" è stata negli ultimi anni, fra quelle del Far East, una delle più interessanti, capace di offrire successi cari al grande pubblico come "OngBak" e "Chocolate" (pellicole che oltre a diventare dei veri
blockbuster panasiatici hanno anche lanciato personaggi diventati celebri come la star delle arti marziali Tony Jaa e la sua controparte femminile JeeJa Yanin) e soprattutto una new wave di registi che, attraverso i propri film, hanno cercato di descrivere le contraddizioni e le controversie della patria, sfociate anche nella crisi politica che recentemente ha raggiunto dei livelli a dir poco preoccupanti. In tale gruppo spiccano nomi come Pen-Ek Ratanaruang, Ekachai Uekrongtham e, soprattutto, Apichatpong Weerasethakul. Quarantenne, formatosi negli Stati Uniti, già autore di opere come "Tropical Malady", "Blissfully Yours" e "Syndromes And A Century" che sono state accolte con grande attenzione e hanno fatto capire che ci troviamo di fronte ad un regista singolare. Weerasethakul (soprannominato Uncle Joe) è, infatti, autore di un cinema rarefatto e anticonformista che concede poco allo spettatore e non a caso i suoi detrattori senza troppi giri di parole lo accusano di realizzare film soporiferi ed eccessivamente ermetici. Alla base di queste considerazioni c'è, sicuramente, il ricorso del regista a simbolismi estremi e il suo rifiuto di una narrazione di tipo convenzionale. Pareri che molto probabilmente questo vincitore di Cannes non farà che rinfocolare.
Ispirato ad un libro pubblicato negli anni ottanta, scritto dal monaco buddista Phra Sripariyattiweti, nel quale il religioso raccontava i suoi incontri con un uomo chiamato Boonme, il quale asseriva di ricordare le sue precedenti esistenze. Nonostante questo spunto, il film non va considerato come un adattamento del libro, fermo restando che alcuni episodi sono mutuati dalla fonte letteraria. Il regista, piuttosto, lo considera parte integrante di un progetto multimediale, il Primitive Project, del quale fanno parte anche i suoi corti Phantoms Of Nabua e A Letter To Uncle Boonme, nonché l'installazione Primitive e un ponderoso volume pubblicato in Italia dal periodico Cujo. Elemento centrale del progetto, quindi anche del film, è il territorio a nord della Thailandia, zona di confine...non solo politico. Qui, nella giungla, il personaggio del titolo (Thanapat Saisaymar), affetto da una grave insufficienza renale, si è ritirato per trascorrere i suoi ultimi giorni. Ad assisterlo con affetto ci sono la cognata Jen (Jenjira Pongpas), una donna immigrata dal Laos, e l'amico di famiglia Tong (Sakda Kaewbuadee, attore presente in molte opere del regista), intenzionato ad entrare in un tempio buddista. Le giornate sono caratterizzate da ritmi molto tranquilli, cadenzati soprattutto dai lavori alla fattoria di proprietà del protagonista dove il terzetto risiede, aiutato da un gruppo di operai provenienti dalle zone oltre confine. Di notte però strane presenze arrivano dalla foresta e si materializzano ai protagonisti. Fra queste il fantasma della moglie del protagonista, morta da anni, e quello del figlio, scomparso senza lasciare tracce. E' curioso notare che i vari personaggi reagiscono alle perturbanti presenze notturne in maniera piuttosto tranquilla e che, a differenza di quanto succederebbe in una ghost story tradizionale (sia orientale che occidentale), le figure spettrali, per quanto inquietanti possano apparire (ad esempio il figlio si è tramutato in uno spirito dalle fattezze di uno scimmione con caratteristici occhi rossi), non rappresentano mai una vera minaccia per i protagonisti. Come hanno fatto notare vari recensori, queste creature sono da considerare simboli di un "mistero" che i protagonisti della pellicola non riescono a chiarire del tutto (o almeno il film in questo non è categorico), ma che probabilmente li indirizza verso un più profondo rapporto con lo spazio e il tempo. La giungla nella quale il protagonista e i suoi amici si sono ritirati è un luogo "altro" per eccellenza, una terra di confine fra vari paesi ma anche un luogo dove si riesce ad entrare in contatto con una realtà ultrasensoriale che ti permette di riconciliarti col tuo presente, di recuperare la memoria del tuo passato e, forse, di prepararti meglio al tuo futuro. La memoria come tematica è stata già presente nei lavori del regista, che qui l'affronta su diversi livelli: i fantasmi che visitano il protagonista simboleggiano i ricordi di una vita passata, rivissuti con amarezza ma anche rassegnazione; le altre creature soprannaturali e metamorfiche che si accompagnano alla vicenda dei protagonisti (vale la pena di ricordare che il film non si sviluppa secondo canoni tradizionali), come pesci gatto, bufali e principesse uscite quasi da una fiaba, sono filiazioni di una cultura collettiva (il regista si sarebbe ispirato ai fumetti ma anche a produzioni televisive thailandesi); mentre probabilmente le immagini delle violenze perpetrate da militari che si vedono nella parte finale del film sono da considerarsi un monito al presente.
Altra costante del suo lavoro è la dicotomia giungla/città, la prima vista come teatro ideale per un ritrovato rapporto con la natura. Per quanto rarefatto il cinema di Weerasethakul possa essere, è certo che nei suoi film la presenza dei luoghi non passa inosservata: si notano nella loro interezza (campi medi e lunghi sono le inquadrature predilette dal nostro, pochissimi i primi piani) e soprattutto si SENTONO! Se la componente sonora è fondamentale sempre per creare le atmosfere, Uncle Joe fa sì che nei suoi film i suoni d'ambiente siano contributi irrinunciabili, perché da loro dipende molto del pathos insito in ciò che vediamo e quindi anche gran parte della credibilità dei luoghi stessi. La casa, la foresta, la caverna dove si compie il destino del protagonista, sono elementi portanti della vicenda e i personaggi devono necessariamente attraversarli per portare avanti il loro percorso. Solo dopo potranno (almeno i superstiti) tornare in città, altro luogo, altro stato mentale, per continuare la propria esistenza. Dopo il loro ritorno, i gesti e i riti di pacata quotidianità che apparentemente sembrano segnali di una normalità ripristinata, dopo le "avventure" vissute nella giungla, sono smentiti da piccoli (grandi) segnali: l'abbigliamento e l'aspetto di Tong testimoniano la sua nuova vita monacale e una sua capatina con Jen a tarda sera in un ristorante, in barba alle convenzioni sociali ci aiutano a capire che per i due l'esperienza nella foresta non è passata invano (poco conta se la donna prima di uscire voglia sincerarsi di non essere vista). Nello spazio ristretto di un piccolo ristorante il volto visibilmente stanco ma rasserenato della donna (uno dei pochi primi piani di tutto il film, non a caso) ci lascia con un'immagine positiva. E' probabilmente la maniera giusta per terminare un film in cui, a modo suo, sono state affrontate tematiche (la vita, la morte, l'amicizia, la famiglia, i ricordi) che in fondo fanno parte della vita di tutti. Universalità tematica grazie alla quale il cinema criptico di Weerasethakul continuerà molto probabilmente ad esprimersi e a trovare un suo referente...
15/08/2010