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FAR EAST FILM FESTIVAL XXV - Anche quest'anno, al termine della venticinquesima edizione della kermesse udinese, è giunto il momento di riflettere sull'andamento del festival, sulle sue prospettive e, soprattutto, sulla sua ricca rassegna, forse mai così variegata

Alla fine, come hanno ricordato anche gli organizzatori del Far East Film Festival nel loro editoriale, dopo tre anni transitori si è arrivati, in occasione del venticinquesimo anniversario della kermesse udinese, a un’edizione del festival totalmente tradizionale. Col venire meno delle ultime misure di contenimento della pandemia infatti lo svolgimento del FEFF è tornato del tutto alle modalità precedenti all’edizione only online del 2020. Un modello a cui ha arriso un successo con pochi precedenti nella storia del Far East Film Festival, con circa 60 mila spettatori in presenza e oltre 10 mila online (sì, nonostante il costante ridimensionamento la porzione in streaming del festival continua ad esistere), oltre alle presenze record di 200 ospiti ufficiali e di 1600 accreditati. Proprio partendo da questo ritorno alle forme e ai numeri del passato (se non superandoli) si legano sia gli auspici degli organizzatori sia il tema principale di questa edizione: piantare radici nel passato per poter crescere di più nel futuro.


Il Teatro Nuovo "Giovanni da Udine" durante il FEFF XXV

Se i precedenti editoriali consuntivi del sottoscritto iniziavano con considerazione personali o con riflessioni sul formato del festival, quest’anno è parso più opportuno iniziare con i numeri, in quanto si tratta del FEFF numero 25, un anniversario che non tutti i festival possono vantare, soprattutto quando germogliano ai margini del contesto nazionale. E parlando di numeri non si può che citare la line up del festival, prossima alle 80 pellicole (da questo punto di vista non si sono ancora eguagliati i record del decennio scorso) e composta per quasi metà da film fuori dal concorso, circa metà dei quali sono a loro volta stati inseriti nella copiosa retrospettiva di 15 film sul "cinema da FEFF" prima del FEFF, ovvero i classici del cinema pop dell’Asia orientale che sono usciti fra gli anni 80 e gli anni 90. Si può capire da questo dato quanto la nostalgia e la celebrazione di un grande passato abbiano avuto un ruolo centrale in questa edizione del Far East Film Festival, la quale ha comunque cercato di indicare prospettive future, come d’altronde sottolineato dagli organizzatori.


"Abang Adik"

Un elemento di indubbia novità è stata la vittoria, per la prima volta nella storia, del più ambito dei premi della kermesse udinese, il Gelso d’oro, da parte di un film non proveniente da nessuna delle "quattro grandi" cinematografie dell’Asia orientale e del Sud-est asiatico, ovvero Giappone, Hong Kong, Cina e Corea del Sud. Ha infatti vinto, anzi trionfato, l’efficace e visivamente molto curato dramma sociale malaysiano "Abang Adik", che tra l’altro è valso anche il Gelso bianco al miglior esordio al regista Jin Ong, in realtà esperto produttore che ha deciso di passare alla regia. "Abang Adik" ha inoltre colpito anche il pubblico di esperti del cinema asiatico e professionisti della categoria di accreditati Black Dragon, meritandosi il premio omonimo, e distinguendosi per una delle vittorie più ampie della storia del festival.


"Rebound"

Mentre la Cina, dopo i due piazzamenti sul podio dell’anno scorso, non ha ottenuto quest’anno nessun premio, Corea del Sud e Giappone si sono meritati rispettivamente il secondo e il terzo posto negli Audience Award votati dal pubblico del FEFF con l’emozionante dramma sportivo "Rebound" di Chang Hang-jun e la commedia dedicata alla cultura nipponica dei bagni onsen "Yudo" di Suzuki Masayuki. Anche il cinema di Hong Kong non ha convinto del tutto il pubblico, ottenendo al massimo una menzione speciale per il Gelso bianco col drammone "Lost Love" dell’esordiente Ka Sing-fung, lasciando quindi Taiwan a portare alta la bandiera del mondo sinofono vincendo il premio alla Miglior sceneggiatura col bel dramma sulla quotidianità "Day Off" di Fu Tien-Yu. Anche l’ultimo premio, quello attribuito dal pubblico online che partecipa tramite la piattaforma MyMoviesOne, è andato quest’anno a una cinematografia mai vincente prima d’ora (e che anzi aveva partecipato solo a un’altra edizione), ovvero la Mongolia, con la commedia dai toni leggermente erotici "The Sales Girl" di Janchivdorj Sengedorj.


"Yudo"

Poche edizioni del Far East Film Festival hanno quindi visto un palmares così eterogeneo, pur considerando che una singola pellicola ha vinto ben tre premi, e ci sia augura che ciò sia l’inizio di una maggiore apertura del pubblico votante a cinematografie asiatiche solitamente meno considerate, così come di un ulteriore aumento della qualità media delle pellicole che da quelle industrie arrivano al festival udinese. Se è permessa un’illazione, è possibile che un numero di pellicole in concorso leggermente ridotto abbia contribuito a un maggiore equilibrio nella competizione, laddove in passato la presenza di nazioni presentanti anche una dozzina di film potrebbe aver reso meno contendibile la vittoria dei premi votati dal pubblico. Quel che è certo è che questo equilibrio relativo non si è visto fra le ben 36 pellicole presentate fuori concorso, quasi tutte di provenienza giapponese, sudcoreana e hongkonghese, nonostante un certo numero di film filippini, oltre che più prevedibilmente cinesi e taiwanesi. Si auspica però che ciò sia testimonianza di quanto la produzione cinematografica asiatica sia divenuta ancora più eterogenea e meno qualitativamente diseguale nel corso dei decenni in cui il FEFF si è progressivamente affermato.


"Day Off"

Non resta che partire a questo punto proprio dalle cinematografie definite, a torto, "marginali" e analizzare le loro ridotte, ma comunque molto variegate, rappresentanze. Un evidente esempio di ciò è proprio la Malaysia, che ha presentato sia il dramma vincente "Abang Adik" sia il, diversissimo, muscolare action propagandistico "Coast Guard Malaysia: Ops Helang" di Pitt Hanif, dimostrando che una selezione ridotta non rende impossibile la vittoria di un premio, come è capitato anche col già citato "The Sales Girl", unico film proveniente dalla Mongolia. Hanno presentato solo una pellicola anche Singapore, da cui viene il film d’apertura del festival, la bella dramedy co-prodotta con la Corea del Sud "Ajoomma" di He Shuming, e la Thailandia, con la peculiare commedia "gemellare" "You & Me & Me" di Wanwaew e Waewwan Hongvivatana.


"The Sales Girl"

Leggermente più nutrite sono invece state le line up di Indonesia e Filippine, col primo paese che ha fatto gran sfoggio delle sue capacità produttive col film supereroistico "Sri Asih" di Upi Avianto e l’appassionante, nonostante le due ore di durata, horror "Satan’s Slave: Communion" di Joko Anwar (tra l’altro produttore di "Sri Asih"). Dall’arcipelago pacifico provengono invece una storia ambientata nel tragico passato del paese come la fiaba horror "In My Mother’s Skin" di Kenneth Dagatan e due pellicole immerse nella contemporaneità come l’horror digitale "Deleter" dell’aficionado Mikhail Red e la black comedy tra transfobia, fake news e manipolazione "Where Is the Lie?" di Quark Henares.


"Satan’s Slave: Communion"

Passando alle "quattro grandi" cinematografie asiatiche, si opta per quella con il maggior numero di pellicole inviate, il Giappone, che ne presenta ben otto, a cui se ne aggiungono altre 10 non in concorso, fra retrospettive, tributi e special screening. All’interno della selezione ufficiale vale la pena segnalare il divertente "Yudo", arrivato terzo all’Audience Award, così come il film a episodi "She Is Me, I Am Her" di Nakamura Mayu, tutto costruito attorno alle interpretazioni dell’eclettica Nahana, e lo strano ibrido fra commedia, mockumentary ed effettivo documentario sulla crisi dei cinema di provincia "Your Lovely Smile" di Lim Kah Wai. Protagonista di questa pellicola è l’attore e regista Watanabe Hirobumi, che ha presentato in concorso, e in anteprima mondiale, anche il surreale road movie "Techno Brothers", gemello del video-diario pandemico "Way of Life", visto invece fuori concorso. Fra gli special screening nipponici si segnalano anche "Convenience Story" dell’habitué Miki Satoshi, qui meno demenziale del solito, e "You’ve Got a Friend", dramedy erotica a tema BDSM che è probabilmente uno dei più felici risultati recenti del prolifico Hiroki Ryūichi, sicuramente migliore del discontinuo dramma sentimentale a tema reincarnazione "Phases of the Moon", presentato in concorso.


"She Is Me, I Am Her"

Non si distanzia molto per numero di pellicole partecipanti al festival la Corea del Sud, che fra i suoi sette film in concorso può vantare il secondo classificato (di un soffio) agli Audience Award "Rebound", così come l’atteso thriller/spy movie ambientato durante l’occupazione giapponese "Phantom" di Lee Hae-young, invero poco memorabile al di fuori della confezione estetica. Simile sorte, a dir la verità tipica di ormai buona parte del cinema pop sudcoreano, tocca al loffio horror psicologico "The Other Child" di Kim Jin-young, che da affascinante emulo di "Two Sisters" si trasforma in un irresoluto horror dalle note thriller, mentre il gradevole remake "Ditto" di Seo Eun-young si limita ad aggiornare i cliché di un classico della commedia sentimentale sudcoreana. Innalza fortunatamente la qualità media della selezione della Corea del Sud l’affascinante dramma storico "The Night Owl", che valorizza i molti colpi di scena e i topoi del filone per proporre un’interessante riflessione sulla visibilità e sul rapporto tra storia e mito.


"The Night Owl"

È tempo ora dell’altra grande dominatrice, quanto meno dal punto di vista numerico, del venticinquesimo Far East Film Festival, ovvero Hong Kong. L’ex-colonia britannica propone una line up di ben otto pellicole in concorso, in buona parte caratterizzate dalla nostalgia che è sia un tema di questa edizione ma soprattutto un tratto ormai quasi retorico del cinema hongkonghese recente, passando dal malinconico gangster movie "Where the Wind Blows" di Philip Yung al fieramente contemporaneo "Everyphone Everywhere" di Amos Why, una sorta di "Perfetti sconosciuti" incontra "Rashōmon" (mi si perdoni l’eresia) a Hong Kong. La nostalgia è un tratto centrale anche del bell’esordio di Anastasia Tsang "A Light Never Goes Out", sentita celebrazione dei realizzatori delle insegne al neon tanto caratteristiche della città cantonese, mentre non hanno tempo di indugiarvi i protagonisti del labirintico e trascinante nuovo thriller/noir di Soi Cheang, il notevole "Mad Fate".


"A Light Never Goes Out"

Manca invece di pellicole veramente notevoli la, comunque ridotta, selezione cinese, che si limita al remake del film strappalacrime più noto nella storia del cinema recente ("Hachiko" di Xu Ang), così come al classico action imbevuto di orientalismo (ma si può dire parlando di un film cinese?) nella forma di "Home Coming" di Rao Xiaozhi. Più riuscite dal punto di vista formale ma ugualmente poco impattanti sono la raffinata spy story propagandistica "Hidden Blade" di Cheng Er e la produttivamente titanica ma narrativamente poco convincente ultima fatica di Zhang Yimou, il thriller/black comedy/dramma storico "Full River Red", pellicola di chiusura del venticinquesimo Far East Film Festival.


"Hidden Blade"

Più interessante, e in questa edizione anche più numerosa, è la selezione proveniente da Taiwan, capace di passare da umili e minimalisti drammi sulla vita quotidiana di una parrucchiera per uomini come il già citato "Day Off" a horror comedy poliziesche piene di colpi di scena e stilisticamente sopra le righe come "Marry My Dead Body" di Cheng Wei-hao. Tutte le pellicole provenienti dalla "provincia ribelle" meritano in effetti una menzione, dal brutale e in fine dei conti poco convincente divertissement "Bad Education" di Kai Ko, praticamente un rip-off di "Mon Mon Monsters" del suo produttore e sceneggiatore Giddens Ko, al bel dramma famigliare su una comunità di aborigeni taiwanesi "Gaga" di Laha Mebow, passando per il suggestivo e ben fotografato ma narrativamente involuto "The Abandoned" dell’esordiente Tseng Ying-ting e la struggente e carica di spunti storia corale dei tempi del Terrore bianco "Untold Herstory" di Zero Chou.


"Untold Herstory"

Se si cerca la qualità si fa forse prima a dare un’occhiata alle varie retrospettive, quest’anno particolarmente numerose, comprendendo anche i tributi a varie eminenti personalità delle industrie cinematografiche asiatiche giunte al FEFF. La più nota di queste è probabilmente il maestro dell’action e del thriller hongkonghesi Johnnie To, di cui sono state proiettate soprattutto pellicole distanti dalla sua produzione abituale, come il musical "Office" o la commedia nel mondo della criminalità hongkonghese "Sparrow". Hanno portato al venticinquesimo Far East Film Festival una breve rassegna della loro produzione, anche in questo caso accompagnata da una masterclass, sia uno dei più iconici protagonisti del cinema di genere hongkonghese, Po-Chih Leong, capace di passare in pochi mesi dal cupo e violento dramma bellico "Hong Kong 1941" al peculiare e sardonico teen horror "The Island", sia uno dei precursori della golden age del cinema sudcoreano, il maestro del dramma erotico e psicologico Jang Sun-woo, le cui pellicole, come la memorabile "Lies", hanno fatto il tutto esaurito nelle sale del cinema Visionario, anche stavolta sede parallela del festival. Non va dimenticato il tributo dedicato alla vincitrice del Gelso d’oro alla carriera Baishō Chieko, volto del Giappone popolare dagli esordi con Yamada Yōji negli anni 60, come il leggendario "Tora-san, Our Lovable Tramp", fino ai drammi para-futuristici del presente come "Plan 75" dell’esordiente Hayakawa Chie.


"Tora-san, Our Lovable Tramp"

Le brevi rassegne dedicate a Jang e Leong si può dire che fungano da antipasto alla più vasta retrospettiva dedicata al "cinema da FEFF" prima che il FEFF iniziasse, una sequela di capolavori o pellicole comunque interessanti provenienti dalle cinematografie asiatiche in espansione fra anni 80 e 90. Se il Giappone alterna coming of age, pur fra loro diversissimi per stile e tematiche, come l’avanguardista "2/Duo" di Suwa Nobuhiro e lo stilizzato esordio "800 Two-Lap Runners" di Hiroki Ryūichi, e classici del j-horror del calibro di "Cure" di Kurosawa Kiyoshi, la Cina propone drammi di grande rigore stilistico come il violento "Bloody Morning" di Li Shaohong e il notevole artist drama al femminile "A Soul Haunted by Painting" di Huang Shuqin. Oltre alle pellicole di Jang Sun-woo si segnala tra i restauri e recuperi sudcoreani degli anni 90, anche l’opera seconda di Park Chan-wook "Trio".


"A Soul Haunted by Painting"

Dalle Filippine, negli ultimi anni sempre più protagoniste delle retrospettive del Far East Film Festival, arrivano due melò, genere di punta dell’industria nazionale, pur fra loro diversissimi, cioè il violento dramma carcerario su femminilità e resilienza "Flowers in the City Jail" di Mario O’Hara e il fluviale family drama psicologico "Separada" di Chito S. Roño. Da Taiwan arriva invece un’altra coppia di livello, composta dal gangster movie "Dust of Angels" di Hsu Hsiao-ming e il mesmerico "Dust in the Wind" di sua maestà Hou Hsiao-hsien. Un’ultima menzione va a Hong Kong che, con soli due film, propone forse le pellicole migliori dell’intera retrospettiva, ovvero il magnifico "Romeo e Giulietta nella malavita hongkonghese" diretto da Benny Chan (e prodotto da Johnnie To) "A Moment of Romance", ultimo film visto a questo FEFF, e l’attesa director’s cut con restauro annesso del clamoroso "Nomad" di Patrick Tam, precursore di tutta la new wave di Hong Kong. Due visioni così intense da far dimenticare la tristemente ridotta presenza di documentari a questa edizione del festival udinese e anzi far sperare per la qualità dei restauri che verranno presentati ai FEFF futuri.


"Nomad"

Sebbene la decisione di concludere la venticinquesima edizione del Far East Film Festival con un fastoso baraccone propagandistico cinese del presente e uno struggente capolavoro hongkonghese del passato non si possa definire esattamente felice, e possa apparire in contrasto col tema del "piantare radici nel passato per crescere in futuro", essa si rivela paradossalmente coerente, mostrando lo stato dubbio in cui alcune cinematografie contemporanee versano e proponendo di superare il presente a partire da quanto fatto in passato. O almeno questa è la (sovra)interpretazione del sottoscritto. L’alternativa sembra altrimenti quella di sprofondare nel futuro indolente e fin troppo simile al presente di "Plan 75", omega della carriera di Baishō Chieko proposto al FEFF in contrapposizione al suo alfa "Tora-san", per sottolineare quanto il cinema, non solo il mondo in cui viene realizzato, sia cambiato in oltre 50 anni. Proprio dal film di Hayakawa si può partire per un’ultima riflessione, in quanto si tratta di una co-produzione fra Giappone, Francia e Filippine, oltre a essere un’opera saldamente legata al contesto in cui è stato concepito ma capace di rivolgersi a pubblici in tutto il mondo (o almeno in quello post-industriale): un’opera che quindi crea legami fra mondi diversi, così come fra tempi diversi, un ponte che pare rispondere alla ricerca di "connessioni perdute" che era al centro della precedente edizione del festival.


"A Moment of Romance"

Presumibilmente ci vorrà tempo per capire cosa crescerà dalle "radici future" piantate in questa venticinquesima edizione del FEFF e se il suo successo vada oltre i notevoli numeri celebrati dagli organizzatori del festival. Chissà se, come si augurano Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, vi saranno ampi investimenti pubblici per permettere a quello che è nato come un piccolo festival di appassionati di divenire una delle principali realtà cinematografiche d’Europa, e del mondo. Per il momento si può solo sperare che ciò avvenga e che il Teatro Nuovo Giovanni da Udine finisca per ospitare sempre di più le proiezioni dei capolavori del futuro, oltre che di quelli del passato. Concludendo questa trilogia di retrospettive sulle edizioni post-pandemiche del Far East Film Festival non si può che notare la chiusura del cerchio tematico iniziato nel 2021 con l’invito, anzi il comando, a "moving forward" e proseguito intessendo "connessioni" perdute l’anno successivo, fino ad arrivare a piantare "radici future" nel 2023, dopo essersi potuti finalmente fermare alla fine di questo viaggio (post)pandemico, per guardare ora al futuro.
Al prossimo anno, e ai prossimi 25 anni di Far East Film Festival!




P.s. come da tradizione, il sottoscritto intende ringraziare Alessio Cossu per aver collaborato alla copertura della presente edizione del FEFF, e per i numerosi spunti di riflessione emersi discutendo dei film visti. Allo stesso modo ringrazio anche Giuseppe Gangi per i frequenti confronti riguardo alle pellicole presentate al festival.





Piantare radici per il futuro. In conclusione al Far East Film Festival XXV