Spesso si dimentica quanto la seconda guerra mondiale sia stata effettivamente "mondiale" e quanto il suo svolgimento abbia profondamente influenzato parti del globo lontanissime da noi e alle quali la maggior parte del pubblico occidentale non penserebbe mai nel contesto di un film ambientato durante il secondo conflitto mondiale. Le Filippine sono perfettamente rappresentative di questo fenomeno, (poco) ridente colonia tropicale del Giappone e sede di efferatissimi scontri fra l’esercito nipponico e le forze alleate, in primis gli statunitensi, che d’altronde erano stati i precedenti dominatori dell’arcipelago pacifico. Fin dai primi istanti di "In My Mother’s Skin" si viene pertanto rapidamente immersi in una plumbea atmosfera bellica, con immagini di vittime trucidate e il racconto di crimini compiuti dalle forze d’occupazione nipponiche, la cui brama di risorse diviene subito il motore narrativo della pellicola. Proprio a causa loro il gangster locale Antonio perseguita la famiglia del benestante Aldo per capire dove si nasconda l’oro che è stato loro sottratto e di conseguenza il padre di famiglia parte nella foresta, alla ricerca delle truppe alleate in arrivo, lasciando la moglie malata, la volitiva figlia maggiore, l’impressionabile figlio minore e la domestica che sembra nascondere qualcosa. Tutti gli elementi sono apparecchiati e quando Aldo sparisce nel verde il racconto sovrannaturale può cominciare.
L’enfasi sulla foresta in questa sede non è casuale, in quanto la rigogliosa natura delle Filippine ha un ruolo centrale nel secondo film dell’apprezzato regista di folk horror Kenneth Dagatan, divenendo quasi un personaggio che osserva i movimenti dei giovani protagonisti che entrano nella foresta alla ricerca di cibo e che li guida nella loro maldestra esplorazione del bosco. Fra una crisi di tisi della madre e il proverbiale rimanere separati mentre si vaga fra gli alberi "In My Mother’s Skin" non perde tempo e già dopo pochi minuti introduce elementi orrorifici e sovrannaturali, culminanti nell’incontro che la giovane Tala fa con la Fata della foresta, surreale figura che sembra inquietantemente ispirata alle raffigurazioni locali della Madonna, una rappresentazione del sincretismo religioso molto vivido a quelle latitudini. Il film mette similmente in scena un sincretismo di immaginari horror e di credenze molto differenti, combinando folklore locali e riferimenti culturali occidentali, così come evidenti cliché dell’horror più weird contemporaneo, arrivando a produrre una fiaba horror che allo spettatore occidentale difficilmente non ricorderà il cinema di Guillermo del Toro.
Fosse uscito una quindicina di anni fa si sarebbe facilmente parlato di "In My Mother’s Skin" come la "risposta filippina" a "Il labirinto del fauno", a cui il film di Dagatan si avvicina non solamente per l’inusuale rappresentazione dell’elemento sovrannaturale come luminoso e colorato in contrapposizione ai colori plumbei del mondo reale ma anche per notevoli corrispondenze tematiche, come il focus sulla crescita individuale e la presa di responsabilità, la difficoltà di individuare modelli femminili in una società fortemente maschilista e l’ineluttabilità di fare i conti con la Storia durante la propria crescita. Alcune palesi citazioni (il fastoso banchetto "maledetto" nell’al di là) fanno intuire che forse Dagatan abbia effettivamente guardato al regista messicano come un modello, pur muovendosi in un contesto culturale (ma non storico e sociale) molto differente e rifacendosi in maniera generalmente più fedele ai canoni dell’horror, e del body horror nello specifico.
Ma non si può d’altronde negare che molti di questi punti di contatto possano derivare dalle forti somiglianze dei luoghi d’origine dei due cineasti. Filippine e Messico sono infatti paesi che hanno avuto una lunga storia di dominazione spagnola e che si sono distinti sia per le grandissime disparità sociali (il mondo della servitù e quello della borghese famiglia di protagonisti sono totalmente incompatibili) sia per la centralità del cattolicesimo nella società, quanto meno in una sua versione sincretica e non di rado focalizzata sugli aspetti più cupi e inquietanti del suo immaginario (si pensi al Día de los muertos messicano o il simile Araw ng mga Yumao filippino). Va inoltre considerato che nel film di Dagatan la riflessione sulla Storia non diviene mai centrale, concentrandosi soprattutto sul percorso di progressiva presa di responsabilità della protagonista, il quale non è, come succede in molti film simili, netto e lineare ma ricco di errori e di passi falsi, almeno fino a che la protagonista non si trova a contemplare il vuoto che i suoi desideri chiesti alla bizzarra fata degli insetti hanno lasciato.
È difficile considerare a questo punto casuali le molteplici riprese che enfatizzano gli ampi spazi vuoti di questa casa fin troppo grande, fatta di molti spazi direttamente comunicanti che possono offrire nascondiglio a numerosi orrori (anche se, economicamente, il mostro nella pellicola è praticamente uno solo). In quella che è sempre stata una sorta di casa dei fantasmi non ci può prevedibilmente essere un lieto fine e in un contesto quasi apocalittico (tutte le persone dei villaggi vicini paiono essere state uccise e nei pressi della villa si sentono solo sporadici e lontani combattimenti) la sopravvivenza è l’unica cosa che conta. Così "In My Mother’s Skin" muta rapidamente da un dramma storico dai toni fiabeschi in un horror purissimo per poi tornare a essere un tragico e violento dramma in costume, fino a un finale weird che fa quasi pensare che molto di quello che si è visto potrebbe non essere mai avvenuto. Forse Tala, che in tagalog vuol dire "stella", è sempre stata una luce che si muove nella foresta, uno spirito dei boschi, un’ennesima leggenda del paese dei monsoni e del sincretismo religioso, mentre Crono, la Storia, continua a divorare, letteralmente, i propri figli "fino all’ultima sillaba del tempo trascritto".
cast:
Felicity Kyle Napuli, James Mavie Estrella, Beauty Gonzalez, Jasmine Curtis-Smith, Ronnie Lazaro, Arnold Reyes, Angeli Bayani
regia:
Kenneth Dagatan
durata:
96'
produzione:
Epicmedia, Zhao Wei Films, Volos Films, Clover Films
sceneggiatura:
Kenneth Dagatan
fotografia:
Russell Morton
scenografie:
Benjamin Padero, Carlo Tabije
montaggio:
Kao Ming-Cheng
costumi:
Carlo Tabije
musiche:
SiNg Wu