Coming of age: è con quest’espressione che la critica anglosassone indica un racconto nel quale un protagonista giunge a maturità attraverso una serie di esperienze che lo trasformano dal profondo. Nelle sconfinate pianure steppose della sua Mongolia il regista Sengedorj Janchivdorj avrebbe trovato tutti gli spazi per fare del viaggio la metafora e il luogo della metamorfosi interiore. Eppure ambienta il suo quindicesimo film a Ulan Bator, la capitale, che ci appare in modo non troppo dissimile da una qualsivoglia metropoli, perfino occidentale. Da sempre attento al mondo giovanile in tutte le sue sfaccettature, mette in scena una commedia divertente ma delicata al tempo stesso, originale e profonda. Per cambiare davvero, non è importante dove si va quanto con chi si va. E questo assunto è un primo punto fermo nella riflessione che si può fare sul film.
La protagonista è Saruul, una studentessa che, più nei piani dei genitori che non nei suoi desideri, dovrebbe un giorno diventare un ingegnere nucleare. “E per costruirci che cosa, bombe atomiche?” le chiede pungolandola Katya, una donna di mezza leggermente sfiorita nel corpo ma fiera nell’animo. Le vite delle due si incrociano perché Saruul cerca un lavoro per pagarsi gli studi e guarda caso una sua compagna che fa la commessa in un sexy shop si è appena fratturata una gamba e offre alla giovane la possibilità di un lavoro temporaneo ma semplice e relativamente sicuro. Katya è invece la proprietaria dell’attività. Fin dall’inizio stabilisce con Saruul un rapporto che supera le contingenze professionali, fatto di graduali aperture, di intime confidenze, sapide riflessioni, tanto che ne sorge un rapporto d’amicizia. La donna si pone nei confronti della ragazza con lo stesso piglio con cui abbiamo tante volte visto Clint Eastwood approcciarsi alle giovani generazioni: quello di un mentore; ad esempio in "Gran Torino". Un mentore paziente, che non pretende che il giovane virgulto allunghi di botto i propri rami solo perché lo si è innaffiato con una spropositata quantità d’acqua. Aspettare. E forse chi è cresciuto/a o discende da civiltà che col loro DNA, oltre ai caratteri ereditari, hanno trasmesso il senso dello spazio e quello del tempo necessario a goderne appieno, inevitabilmente si sente in dovere di farne a sua volta dono a chi verrà dopo. Già, il senso del tempo. Altro snodo fondamentale di "The Sales Girl": lo si nota non dalla rapidità con cui i personaggi si muovono, quanto dalla morbidezza dei movimenti di macchina. L’operatore non ha fretta. Una delle sequenze migliori del film è quella in cui Katya parla a Saruul, mentre entrambe sono sedute su una panchina. Le due sono riprese di spalle e parlano rivolte a un fiume che scorre lento davanti a loro. A completare questo quadretto concorre un albero, leggermente discosto sulla sinistra. Ovviamente l’albero rappresenta la vita e il fiume il trascorrere del tempo. “Bisogna conoscere la sofferenza, per poter riconoscere la felicità” è l’epigrafe a un lungo discorso, che ha affrontato questioni difficili con parole semplici. Un quadro zen, con una tecnica di ripresa che ricorda quella vista nei film di Yasujiro Ozu.
Katya ha un vissuto che le permette di toccare tutte le sfaccettature dell’affettività: l’amore, l’amicizia, il sesso, il matrimonio, la gelosia, la morte di una persona cara. La delicatezza del tono con cui tutto ciò viene scandagliato stupisce, anche quando tra le due sembra insinuarsi un dissidio. Il grado di complicità che Katya ottiene prescinde la prossemica dei corpi: è la vicinanza ideale, quella fatta di parole, più che di baci e abbracci. Saruul apprende anche sul posto di lavoro che la perfezione umana è del tutto chimerica e il diverso approccio che i clienti (e le clienti) del negozio hanno nel manifestare i loro gusti e le loro esigenze le forniscono una galleria di ritratti umani quanto mai variegata. Nella nota commedia "Tutto ciò che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere" Woody Allen aveva trattato il tema del sesso in modo ironico e scanzonato, quasi liberatorio, in "The Sales Girl" invece c’è un angolo visuale freudiano sull’argomento, che smaschera il perbenismo e le convenzioni sociali, e ha il merito di farlo in modo affatto morboso, anche quando il contesto sembra farsi pruriginoso.
Ma il film di Janchivdorj è anche altro: una riflessione sugli affetti, sulla nostalgia e soprattutto sulla solitudine, vera malattia sociale che non conosce latitudini. La durata del film e il sistema dei personaggi estremamente semplificato consentono appunto di far virare i dialoghi in diverse direzioni. Saruul cresce perché pur parlando poco coi propri genitori vede che quando anch’essi gettano le maschere delle convenzioni sociali, il loro orizzonte educativo coincide con quello intravisto nel dialogo con Katya. L’acquisizione da parte della ragazza di una visione olistica della realtà, assimila in fin dei conti Katya ad una sorta di sorella maggiore, di seconda madre. Quando invece Saruul sente il bisogno di staccarsi dalla realtà o di rifiutarla perché inaccettabile, allora è la musica che arriva dalle sue cuffie a proteggerla e soccorrerla, a proiettarla in una dimensione spazio-temporale esclusiva, tutta sua.
Dal punto di vista della fotografia non vi sono particolarità da segnalare, se non per il fatto che nelle ore notturne i diversi fasci luminosi delle insegne pubblicitarie alternano la loro policromia sul volto della protagonista, dando alle sequenze una dimensione antinaturalista, quasi in ossequio a un gusto tutto orientale di giocare con le luci sul volto, come ad esempio accade in "Nido di vipere" (2020), del coreano Kim Yong-Hoon. Più in generale, Janchivdorj sembra a tratti voler smorzare i toni, ad esempio quando musicisti e cantanti si affiancano con i loro strumenti a Saruul mentre le melodie che si percepiscono sono palesemente extradiegetiche, oppure quando in un campo/controcampo fa in modo che Katya guardi in macchina in modo insistito, quasi a spezzare un incantesimo, ad attenuare la tensione, a ricordare che si tratta solo di un film.
cast:
Bayartsetseg Bayangerel, Enkhtuul Oidovjamts
regia:
Janchivdorj Sengedorj
titolo originale:
Khudaldagch ohin
durata:
123'
produzione:
A Nomadia Pictures, Mongolia Film Industry Assn. production.
sceneggiatura:
Janchivdorj Sengedorj
fotografia:
Otgondavaa Jigjidsuren
montaggio:
Munkhbat Shirnen
musiche:
Dulguun Bayasgalan