Dopo aver ottenuto una piccola retrospettiva all’interno del Far East Film Festival nell’anno della famigerata edizione only online Watanabe Hirobumi è divenuto uno dei cineasti più apprezzati nel contesto della kermesse udinese, probabilmente uno dei luoghi più adatti alla sua peculiare idea di un cinema ultra-indipendente e pop nel senso più autentico di sviluppato a partire da riferimenti alla cultura popolare, anche quella strettamente locale della città natale di Otawara. Se proprio a partire dal 2020 il cinema di Watanabe è andato incontro a una progressiva espansione dei propri orizzonti, aprendosi all’uso del colore e al ridimensionamento dell’estetica da home movie che l’ha reso riconoscibile, è forse con le sue pellicole più recenti, ambedue presentate alla venticinquesima edizione del FEFF, che si vedono le più evidenti conseguenze di questa evoluzione. Sia "Way of Life" sia "Techno Brothers", entrambe presentate in anteprima mondiale a Udine, proiettano il cinema di Watanabe verso nuove dimensioni, pur essendo apparentemente molto diverse e che solo a uno scrutinio più attento rivelano un indiscutibile continuità tematica e stilistica.
Se il primo film può essere considerato una sorta di video-diario del regista al tempo della pandemia che mette in scena la sua reclusione domestica e poi i primi tentativi di apertura al mondo, il secondo film, il cui making of è tra l’altro al centro dell’ultima sequenza, la più divertente e riuscita di tutte, di "Way of Life", persegue questa ritrovata apertura al mondo nella forma più congeniale di un road movie dai toni progressivamente surreali. Come sempre nel cinema di Watanabe, ciò non toglie che i confini fra fiction e documentario siano all’interno delle due pellicole molto più sfumati, inserendo nel video-diario sequenze che sono state quasi sicuramente ricostruite per l’occasione e dedicando ampio spazio alla ricognizione del Giappone più provinciale all’interno di "Techno Brothers". Il fatto che uno dei due film termini con una sequenza (una delle più iconiche, prevedibilmente) dell’altro certifica la continuità fra i due progetti, così come i colori vividi delle sequenze in cui il regista e attore scopre in "Way of Life" la pittura, uniche parentesi in un oceano di grigiore pandemico, assumono una connotazione più precisa all’interno della fotografia satura e sovraesposta di "Techno Brothers" e nelle mise pacchiane e multicolori dei suoi protagonisti.
Prendendo evidente ispirazione da alcuni punti fissi della cultura cinefila come i "Blues Brothers" di John Landis, da cui riprende l’idea di un road movie via via più eccentrico e contiguo con le realtà più marginalizzate del proprio contesto nazionale, e "Leningrad Cowboys Go America" di Aki Kaurismäki, chiaro modello invece della comicità surreale e dell’accumulo di catastrofi sui sfortunati protagonisti, Watanabe abbandona Otawara, ambientazione di quasi tutti i suoi film precedenti e getta i suoi protagonisti sulla strada verso Tōkyō. Assecondando il volere della dispotica presidente della loro etichetta discografica i muti e inespressivi Techno Brothers, interpretati dal regista, da suo fratello Yuji, anche compositore della colonna sonora, e dall’amico, nella vita come nel film, Kurosaki Takanori si ritrovano sulla strada per la metropoli dove la loro ambiziosa e tirannica agente Himuro, una surreale Anna Wintour nipponica, è convinta che troveranno fortuna grazie alla loro techno retrò. Prendendo ancora una volta palese ispirazione a dei mostri sacri della cultura pop, in questo caso i Kraftwerk, omaggiati fin dalla mise dei protagonisti, la musica del gruppo ottiene ovviamente uno spazio preminente, intervallando le varie tappe dell’Odissea dello sfortunato quartetto (destinato a diventare un quintetto e poi a ridursi nuovamente di numero) con stranianti performance riprese con campi fissi frontali, occasionalmente alternati da brutali zoom in post-produzione.
Non si può ovviamente parlare del cinema di Watanabe Hirobumi senza accennare alla perseguita imperizia tecnica che contraddistingue tutta la sua produzione, apparentemente disinteressata alla cura all’immagine e alla composizione dell’inquadratura, non di rado "bruciando" l’immagine con una eccessiva esposizione e proponendo riprese dalle prospettive asimmetriche e sghembe. In questo cinema di ricercata amatorialità la scelta di un racconto più complesso, e soprattutto più complicato da girare, finirebbe facilmente per rivelarsi un’arma a doppio taglio ma diventa chiaro dopo solo un paio dei capitoli in cui la pellicola è divisa che Watanabe ha scientemente compiuto questo azzardo, portando il suo minimalismo a nuove vette. Vi è un indubbio, per quanto ambiguo, fascino nella regia da slow cinema con cui il cineasta nipponico riprende il viaggio della speranza di questi improbabili musicisti, apparentemente incapaci di fare qualsiasi cosa senza la loro manager, la quale li ricompensa con ogni genere di angherie. I long take delle performance di Techno Brothers, sempre più spesso col procedere del film interrotti da reaction shot del pubblico perplesso, diventano di conseguenza un invito a focalizzarsi sulla musica del trio e a divagare con lo sguardo in inquadrature solo apparentemente non composte, inquadrature in cui infatti un motivo d’interesse può provenire da ogni direzione.
Come esemplifica molto bene, anche per via del suo umorismo crasso e inaspettato, la sequenza in cui Himuro cerca i musicisti sfuggiti alle sue grinfie per poi incappare nel proprietario di un locale in cui si sono esibiti, il quale, interpretato da Watanabe stesso, invade l’inquadratura celebrando la portata della sua defecazione, e violando ogni regola sensata di composizione dell’inquadratura. Come suggerisce la divisione in capitoli "Techno Brothers" va interpretato quasi come un film a episodi, il cui flusso narrativo è necessariamente frammentario e discontinuo, similmente a come i suoi long take spesso si spezzano in una sequela di riprese apparentemente slegate, all’interno di cui quasi ogni cosa può entrare nella scena e ottenere rilevanza. Diventa così progressivamente chiaro quanto il focus della pellicola di Watanabe Hirobumi sia soprattutto sul piccolo mondo antico di imprese di famiglia, festival di paese e orticoltori musicofili che i protagonisti attraversano come una sorta di corpo estraneo che però passa attraverso senza lasciare ferite profonde (anche da questo punto di vista si è vicini al cinema di Kaurismäki).
Verrebbe da chiedersi quale miglior esplorazione, e omaggio, della dimenticata provincia giapponese (che in certi momenti ricorda veramente troppo anche la profonda provincia italiana ed europea) possa esserci che un anodino road movie che parla di falliti che viaggiano senza meta e senza certezze, incrociando altri left behind nella loro Odissea verso la metropoli (che significativamente non raggiungono mai). Allo stesso modo come potrebbe un film raccontare al meglio questa storia senza essere a sua volta un film "fallimentare", pieno di difetti dal punto di vista tecnico e pieno di eventi che paiono infiltrarsi nella narrazione fuori dallo script come nel miglior cinéma vérité, coerentemente d’altronde con l’apertura che Watanabe sperimenta dagli esordi e che "Way of Life" ha esasperato. Per concludere, non si chiede similmente che questo cinema riesca ad attrarre chiunque fra le sue maglie fatte di cattiva grammatica registica, accumulo di digressioni narrative e citazionismo sfrenato. Del resto neanche il suo regista, e protagonista, pare volerci rimanere intrappolato, come si evince dalla fuga prefinale di lui e del fratello. Anche questa è apertura, d’altronde.
cast:
Watanabe Hirobumi, Watanabe Yûji, Kurosaki Takanori, Yanagi Asuna, Ino Katsumi, Hisatsugu Riko, Iso Kiyotaka, Yanagi Kokona
regia:
Hirobumi Watanabe
durata:
97'
produzione:
Watanabe Hirobumi, Watanabe Yûji
sceneggiatura:
Watanabe Hirobumi
fotografia:
Watanabe Yûichirô
montaggio:
Watanabe Hirobumi
musiche:
Watanabe Yûji