È notte. Su un treno, un uomo prepara una sigaretta per poi accenderla, guardandosi intorno, mentre il vagone continua a sferragliare chissà dove, su un fondale nero pece. Terminato il viaggio, con la valigia in mano, si appoggia stanco su una panchina e si assopisce, mentre le luci di Helsinki baluginano in lontananza. Nel sonno, la sventura: una banda di giovani delinquenti lo atterra a bastonate per sottrargli pochi quattrini dal portafoglio e qualche cianfrusaglia dalla borsa. Il giorno dopo, all'ospedale, lo straniero è dato per morto. Il tempo di uno stacco e si rialza dal lettino, si allontana; la testa è un gomitolo di bende. Altro stacco, e giace sulla riva di un fiume. Un vagabondo del posto lo osserva respirare, per poi aiutarlo a rialzarsi e ospitarlo nel suo tugurio, regno di una moglie premurosa e autoritaria. Nel giro di qualche giorno il disgraziato si rimette in forze, ma senza più memoria del suo passato. Sconosciuto a se stesso (e agli spettatori che del lui-che-fu ricordano solo quella tabaccata e quello sguardo fugace), senza disperarsi, sceglie saggiamente di restare tra gli ultimi, e tra gli ultimi di rifarsi una vita.
Tracciato con la solita, concisa raffinatezza, l'incipit del capodopera di Aki Kaurismäki introduce, in compendio, tutte le qualità espressive dell'autore che, in ogni caso, è sempre rimasto fedele alle proprie personalissime forme d'interpretazione della realtà. E non importa se impegnato in atipiche trasposizioni di capolavori letterari ("Delitto e castigo", "Amleto si mette in affari", "Vita da bohème"), ritratti più lividi e sfiduciati ("La fiammiferaia"), spassosi road movie musicali (i due "Leningrad Cowboys", ma anche "Calamari Union"), libere reinterpretazioni del cinema muto o del noir ("Juha", "Ho affittato un killer") o ritratti sociali pronti a trasfigurarsi in resoconti esistenziali di irripetibile potenza intimistica ("Nuvole in viaggio", "Le luci della sera", "Miracolo a Le Havre"): lo sguardo del Nostro resta sempre lo stesso, coerente e inossidabile.
Se però esiste un'opera-manifesto del Kaurismäki touch, questa è proprio "L'uomo senza passato". È in essa che, calibrate, convergono tutte le anime del Finlandese.
Il silenzio, la solitudine, la morte. Com'è evidente, i risvolti delle storie di Kaurismaki hanno uno stampo tipicamente nordico. Eppure i ruoli che i temi costeggiati rivestono nel funzionamento narrativo dei lavori del regista e in particolare del film in analisi, sono tutt'altro che abituali.
Definitivo congedo dall'esistenza e immutabile punto d'arrivo, la "morte" del protagonista, dichiarata dai medici, diventa qui motore del racconto e, coincidendo con la rottura di ogni vincolo (geografico, affettivo, psicologico) col passato, libera il personaggio da un vivere inautentico e dalle briglie di una (sapremo in seguito) triste condizione familiare, per gettarlo in una mite e solitaria indigenza. In questo limbo senza memoria, la povertà e la solitudine, anziché produrre depressione e isolamento, paradossalmente legano i personaggi, e da emergenze si trasformano in sentimenti "comunitari". Alla mensa dell'Esercito della salvezza, tra le lamiere dei container fatiscenti, o durante i torpidi movimenti dei tanghi finlandesi, si è soli insieme. E per il pianto o l'autocommiserazione non c'è spazio, né motivo.
Allora è con massima cautela che bisognerebbe avvicinarsi a "L'uomo senza passato" pensando a un Kaurismaki "proletario" o "realista". Il regista, certamente vicino al socialismo ed estimatore del neorealismo italiano, si mantiene lontano da entrambe queste fonti, sia in teoria (non c'è l'ombra di fini politici e tantomeno rivoluzionari) che in pratica (al bando qualsiasi drammatizzazione della sofferenza sociale). Al contrario, utilizza questi spunti come bagaglio di suggestioni, per raccontare e identificarsi in vissuti ancorati a realtà socialmente marginali e per questo vicini alla sua poetica.
La marginalità, nell'economia kaurismäkiana, diventa infatti una condizione morale quasi benigna, il retroterra privilegiato non solo di relazioni autentiche e rapporti schiettamente solidali, ma anche di un'indole più pura e profondamente contemplativa. In quest'ottica andrebbe riletto lo spoglio "minimalismo" che permea la pellicola, perfetta adesione estetica a una radicata convinzione etica. Ed è sempre in quest'ottica che la storia d'amore tra M e Irma, principale punto di svolta narrativo, acquisisce un'importanza quasi "epica". Essa, fondata su una continua laconicità e una reciproca contemplazione, privata di quei gesti e di quelle parole che solitamente rientrano nelle grammatiche amorose, da semplice infatuazione diventa una salvifica "affinità elettiva", in cui ogni gesto, per quanto impacciato, dichiara affetto e nobiltà d'animo. Quindi - sembrerà ossimorico - ma è proprio la surreale e ghiacciata fissità della messinscena la via maestra verso il cuore "caldo" e chapliniano de "L'uomo senza passato" e di tutto il cinema di Kaurismaki.
La sospensione grottesca (se non proprio "alcolica") di ogni sequenza, le improvvise dilatazioni del ritmo narrativo, i serafici e assurdamente letterari scambi di battute, lo straniamento bressoniano delle interpretazioni (perché "tutti i sentimenti possono essere espressi solamente con il sopracciglio destro" [1]), il nitido e cartoonesco tono pastello della fotografia del fido Timo Salminen, il montaggio frastagliato e parlante creano un inconfondibile impasto atmosferico che svela l'anomalo umanesimo del suo autore.
Per non parlare, poi, della banda sonora che, montata - come il regista suole fare [2] - quasi estemporaneamente, a postproduzione terminata, commenta "in diretta" la colonna visiva, senza preoccuparsi di un'omogenea sincronia, ma traducendo piuttosto il senso autentico delle immagini. Così le musiche non servono d'ausilio al racconto ma zampillano fuori e dentro i confini diegetici per scandire e glossare, spesso ironicamente, le sventure del protagonista.
Dopo un flusso ininterrotto di panorami vagamente hopperiani (alcuni dei quali non troppo distanti neppure dalle composizioni raggelate di Roy Andersson), abitati da corpi flemmatici e sproporzionati, e di spigolosi primi piani da cui si affacciano figure asimmetriche, il punto d'arrivo torna paradossalmente a coincidere con quello di partenza. Questa volta, però, l'amnesia non è più un drammatico capriccio del caso, ma una scelta serena e consapevole: accantonare un passato dimenticato, anche dopo la sua riscoperta, per progettare, finalmente, un futuro.
Un lieto fine, dunque? Forse, ma non inequivocabile. [3] L'immagine di M e Irma che si allontanano, fianco a fianco, mano nella mano, è un sigillo di palese romanticismo, non necessariamente roseo: più che aver fiducia in un avvenire che resta ignoto, si può gioire per uno spirito rigenerato e uno sguardo riaperto al presente. E così rinascere una volta per tutte.
[1] Dall'intervista contenuta in "Aki Kaurismaki", Bergamo Film Meeting, 1990 (ripresa nell'antologia "Miracolo Kaurismäki", Feltrinelli, 2012)
[2] È Kaurismäki stesso a spiegare che l'assemblaggio dei brani avviene "all'ultimo, quando il film è stato montato e il tecnico ha preparato la colonna sonora. [...] Di solito durante questa fase lavoro in Svezia e allora un giorno prima mi fermo davanti a un negozio di dischi, compro questo e quello; poi durante il missaggio il tecnico lascia aperto un canale per me e io ascolto la musica mentre scorrono le immagini e i dialoghi e mi faccio un'idea di dove potrebbero andare bene i pezzi." (tratto da "Aki Kaurismäki", op. cit.)
[3] "Un happy end che non consoli la "malora" a cui si oppone è già inusuale, ma un happy end che non consoli, consolando è Kaurismäki" (C. Fausti, da "Close Up", anno 1997, vol. I,2)
cast:
Markku Peltola, Kati Outinen, Juhani Niemelä, Kaija Pakarinen, Sakari Kuosmanen, Annikki Tähti
regia:
Aki Kaurismäki
titolo originale:
Mies vailla menneisyyttä
distribuzione:
Bim
durata:
97'
produzione:
Bavaria Film
sceneggiatura:
Aki Kaurismaki
fotografia:
Timo Salminen
scenografie:
Markku Pätilä
montaggio:
Timo Linnasalo
costumi:
Outi Harjupatana
musiche:
Olli Kykkänen