Ogni sbarco in una città portuale meriterebbe di essere immortalato in una foto o, ancora meglio, in un dipinto. Meriterebbero di essere scolpiti i volti incuriositi che stanno per raggiungere la terraferma, quelli spaesati che muovono i passi su un suolo sconosciuto o visitato abitualmente, quelli malinconici, delusi o sollevati che tornano a casa. C'è chi va e chi viene a Le Havre, che resta perennemente una finestra aperta sul mondo: molti umili e qualche ricco, lavoratori, pescatori, immigrati in un microcosmo capace di farsi oggetto di studio socio-economico.
E c'è chi c'era e resterà a Le Havre. Sono loro che immortalano gli sbarchi degli stranieri, loro che si arricchiscono delle immagini del viavai che hanno visto per una vita intera e che vedranno fino alla fine dei loro giorni.
Tra chi arriva e chi va, bisognerebbe fare una pulizia. Spazzare via pregiudizi e regole sociali, leggi politiche e cattiveria gratuita. Pulire il suolo dalla sporcizia causata dalla cattiveria umana. Impossibilitato da ciò, Marcel Marx si accontenta di pulire le scarpe, le cui impronte restano indelebili su territorio straniero e, nell'oggi, rischiano di restare unico lascito dell'altro agli occhi di autorità e potenti, incapaci di conoscere, arricchirsi, aprirsi all'unico nuovo che avanza capace di rendere il prossimo cittadino del mondo (lo straniero, per l'appunto), piuttosto che conservare la vecchia corazza che li tiene arroccati nella loro vecchia dimora.
Il mestiere del protagonista del suo film, quello di lustrascarpe, esplica mirabilmente l'idea che Aki Kaurismäki ha della società e del cinema. Benché la sua Le Havre sia riconducibile al cinema popolare francese degli anni Trenta (da Carnè a Clair, ma per la mescolanza di tragico e comico sarebbero pertinenti rimandi anche ai "Sobborghi" del sovietico Boris Barnet), sembra essere immobilizzata al dopoguerra e, più precisamente, agli anni Cinquanta. Nostalgia? Lentezza? Rifiuto della contemporaneità? Non accade spesso che il cinema europeo affronti il tema della sempre più grave crisi economica, politica e soprattutto morale che ha portato alla questione irrisolta dei profughi, dice il regista che, non avendo soluzioni da proporre, dona all'attuale problema il suo stile. Uno stile che mescola l'essenzialità di Bresson alla leggera ma profonda commozione chapliniana, eppur mai pedante, divertente, discreto, colto di riferimenti, ma unico al mondo, certamente tra i più inconfondibili del cinema contemporaneo. L'umanità dei suoi personaggi, in contrapposizione con la recitazione antinaturalistica di quasi tutto il cast, raggiunge con questo film un vertice nell'itinerario dell'autore finlandese e, in generale, nel cinema contemporaneo.
"Miracolo a Le Havre" è dunque immerso nel presente per tematiche sociali, ma al contempo raffigurato con un'anima avulsa da ogni tentazione post-moderna. In questo modo risulta un film sull'oggi non solo per l'oggi, ma per tutte le stagioni. Potrebbe essere catapultato nel passato o proiettato tra cento anni. Sicuramente film necessario, giusto al momento giusto ma, senza esagerare, già immortale, come poteva essere un film di Charlie Chaplin degli anni 20 o 30.
E come in quei capolavori, sotto la scorza comica c'è sempre un discorso di lotta di classe: qui i potenti sono messi al bando, oscurati, castigati e liquidati da una frase di un dottore che, per mentire e suggerire mezze verità - dice - basta fare come i ministri.
Aki Kaurismäki continua a schierarsi dalla parte degli umili, di coloro che continuiamo a definire emarginati, ma che comunque trovano nel povero quartiere che abitano quella fratellanza, forse unico spicchio residuo che ancora non è stato del tutto usurpato dal motto nazionale della Repubblica Francese.
Se il nome della moglie del lustrascarpe, Arletty, ricalca quello della leggendaria attrice francese di "Amanti perduti", Marcel Marx sposa il cinema (Marcel come il Carnè che diresse il "Il porto delle nebbie" ambientandolo proprio a Le Havre) e il socialismo di Marx che nell'Europa contemporanea, sembra dirci il regista, non stonerebbe.
Senza dimenticare i problemi sociali e privati (malattia, morte, povertà, immigrazione) lo spudorato ottimismo che imprime Kaurismäki al suo film è da considerarsi come un gesto di ribellione: in tempi tanto bui un po' di ottimismo almeno al cinema e nella fantasia è ossigeno. Potete chiamarla fiaba, se vi va, senza scordare la statura morale di molte delle più note fiabe che da secoli arricchiscono grandi e piccoli.
Miracoloso nel fondere etica ed estetica, antidoto contro le brutture del mondo e i catastrofismi cinematografici, "Miracolo a Le Havre" è un capolavoro che riconcilia col cinema e con la vita, toccato dalla medesima grazia della natura che scolpisce la bellezza di un ciliegio in fiore.
cast:
François Monnié, Pierre Étaix, Jean-Pierre Léaud
regia:
Aki Kaurismäki
titolo originale:
Le Havre
distribuzione:
Bim
durata:
93'
produzione:
Yleisradio (YLE), Pandora Filmproduktion, Pyramide Productions, Sputnik
sceneggiatura:
Aki Kaurismäki
fotografia:
Timo Salminen
scenografie:
Wouter Zoon
montaggio:
Timo Linnasalo
costumi:
Frédéric Cambier