Dopo aver aperto l’edizione ibrida del 2021, ora tocca a Zhang Yimou chiudere (insieme al classico dello heroic bloodshed hongkonghese "A Moment of Romance" di Benny Chan) la venticinquesima edizione del Far East Film Festival con la sua ultima regia, la colossale, nei numeri e nelle dimensioni produttive, commedia thriller in costume "Full River Red", che tra l’altro al momento è il secondo incasso del 2023 (dopo "Super Mario Bros. - Il film"). Il successo commerciale dell’opera può essere considerato come l’ennesima dimostrazione del mestiere di Zhang Yimou, che nel suo venticinquesimo (guarda caso) film inserisce tutti gli elementi che hanno reso il suo cinema riconoscibile, dall’attenzione minuziosa al décor e ai costumi alla regia dagli ampi e scenografici movimenti, passando per il costante ricorso a comic relief di varia natura, l’alternanza continua di registri e generi, l’introduzione di qualche talentuosa e bella "Yimou girl" e, ovviamente, la propaganda nazionalista cinese. Se da un lato "Full River Red" può essere considerato un ottimo biglietto da visita per chi non sapesse ciò che il cinema del regista cinese è diventato, dall’altro la pellicola dimostra presto di avere ben poco da offrire a chi abbia già visto buona parte della filmografia di Zhang Yimou, a eccezione, ovviamente, di due ore e mezza di raffinato, e prevedibile, spettacolo.
Prendendo spunto dall’eponimo poema "Mǎn Jīang Hóng" e da cronache di palazzo della dinastia Song, il regista cinese (qui anche co-sceneggiatore) allestisce un’intricata storia di complotti, misteri rimasti celati per decenni e continui colpi di scena, tutta ambientata dentro le mura dell’immensa residenza del primo ministro Qin Hui appena prima che incontri la delegazione diplomatica del popolo Jīn. L’ambientazione urbana (quasi domestica, verrebbe da dire) non impedisce a Zhang Yimou di proporre la solita panoplia di long take a seguire e complessi movimenti di macchina, accompagnando fin dall’inizio gli spostamenti tra i vicoli della residenza con carrelli dall’alto, i quali, come già avveniva nel precedente "Cliff Walkers" offrono una leggibilità spaziale che manca ai protagonisti della vicenda, degna di un narratore onnisciente, contrapposta a una leggibilità narrativa decisamente inferiore, all’interno di questo turbinio di personaggi, riferimenti storici e colpi di scena. Questa dicotomia registica rende "Full River Red" potenzialmente molto rappresentativo dell’idea di cinema sviluppata da Zhang negli ultimi anni, basata sull’immersione degli spettatori di una dimensione esteticamente impressionante e apparentemente leggibile grazie alla mobilità della macchina da presa, in cui però solo la guida del regista rende possibile muoversi nel racconto, fino a condurre chi guarda al finale previsto, dopo numerosi colpi di scena.
Questa ingannevole trasparenza e leggibilità di ciò che accade in scena è ben rappresentata dal momento nel confronto prefinale fra il primo ministro Qin Hui e il neo-capo delle guardie Sun Jun, quando il giovane cerca di pugnalare il premier considerato traditore attraverso una barriera trasparente che lo scherma finendo per trafiggere solo un manichino. E anche quando riesce a colpire il traditore il risultato della sua azione è diverso da quanto prevedibile, grazie all’ennesimo colpo di scena. Se c’è una cosa che difatti non manca a "Full River Red", oltre alla notevole cura dal punto di vista produttivo e della ricostruzione storica, è la presenza di plot twist che infestano soprattutto l’ultimo quarto della pellicola, portando a una serie di torsioni narrative che possono rendere ostico capire chi sia coinvolto nel complotto per far fallire le trattative con i Jīn ed eventualmente uccidere Qin Hui e chi no, e soprattutto chi sia consapevole di ciò che sta avvenendo. Una narrazione così arzigogolata è probabilmente l’unico modo di portare avanti e concludere in maniera soddisfacente un racconto con così tanti personaggi (la galleria di co-protagonisti è davvero notevole) e così carico di implicazioni (si potrebbe leggerlo difatti anche come un’esaltazione dell’importanza della memoria e una critica della censura) ma è difficilmente negabile che finisca per raffreddare il dramma tipico di questo cinema popolare, e patetico, e potenzialmente ridurre il coinvolgimento di chi guarda.
Tali constatazioni valgono per tutto il recente cinema ad alto budget di Zhang, che ormai pare prigioniero del suo ruolo di cantore degli eroi dimenticati (un punto che non viene sottolineato abbastanza), e quindi forse mai esistiti, della storia cinese, e ne sono da anni alcune fra le principali criticità, cui in "Full River Red" si aggiungono un ricorso eccessivo a parentesi comiche, addirittura appositamente sottolineate dalla colonna sonora, e alcuni maldestri tentativi di modernizzazione di quello che rischia di parere un ingessato dramma in costume, nuovamente a partire dalla colonna sonora, con l’inserimento di brani moderni che accompagnano le sequenze di raccordo. Sembra quasi che, qui più che in passato, Zhang Yimou sia divenuto meno fiducioso della sua capacità tecnica, nonostante sia probabilmente uno dei più grandi metteur en scene dell’intera industria. I numerosi spiegoni inseriti nella parte finale della pellicola per rendere le motivazioni occulte dei protagonisti e i vari colpi di scena più comprensibili sono una chiara prova di esitazioni in fase di sceneggiatura, nonché forse di scarsa fiducia nelle (bellissime) immagini della pellicola, similmente alla ridondanza di alcune sequenze prima della conclusione.
La sequenza della recitazione collettiva dell’eponima poesia, scritta dallo sconfitto rivale di Qin Hui, il "falco" Yue Fei, vorrebbe essere infatti il culmine emotivo e retorico della pellicola ma si rivela piuttosto un’esitante sottolineatura dell’enorme valore produttivo della pellicola (la monumentale set della residenza, l’enorme armata di comparse, i complessi movimenti di macchina, etc.), uno showing off quando non vi è più altro da mostrare. E infatti il protagonista, dopo essersi dimostrato come in "Cliff Walkers" non un quadruplogiochista ma anzi il più fedele alla linea e il più spassionamente dedito alla causa (e per questo vincente), sparisce nelle sabbie del tempo e della storia come quasi tutti i protagonisti di Zhang. Che sia arrivata l’ora di mettere fine a questa titanica, pur discontinua, parte della storia del cinema? Quel che si può aggiungere a questo punto è che, se ancora dopo quasi 900 anni i cinesi imparano a recitare "Mǎn Jīang Hóng", probabilmente fra più di otto secoli nessuno si ricorderà del film a cui ha dato il nome, se non forse per i suoi record produttivi e commerciali, riecheggiando il destino del suo protagonista. Forse Zhang Yimou apprezzerebbe l’ironia di ciò. D’altronde, per dirla à la occidentale, sic transit gloria mundi.
cast:
Shen Teng, Wei Xiang, Ou Hao, Guo Jingfei, Yu Ailei, Pan Binlong, Wang Jiayi, Yue Yunpeng, Lei Jiayin, Zhang Yi, Jackson Yee, Zhang Chi
regia:
Zhang Yimou
titolo originale:
Man Jiang Hong
durata:
157'
produzione:
Huanxi Media Group Ltd. (BJ), Yixie (Qingdao) Pictures Co., Ltd.
sceneggiatura:
Chen Yu, Zhang Yimou
fotografia:
Zhao Xiaoding
scenografie:
Lu Wei
montaggio:
Li Yongyi
musiche:
Han Hong