Una riflessione, attraverso 20 titoli, sulla capacità di un pugno di autori di cambiare la Storia del cinema già al loro esordio. Ci siamo chiesti: quali sono le opere prime che hanno veramente segnato la Settima arte? Ecco la risposta
Ci sono registi ricordati solo per le loro opere prime. Oppure opere prime che hanno decretato la nascita di autori, correnti, innovazione nel linguaggio cinematografico. Determinato la definizione di generi, poetiche, periodi storici.
A scanso di equivoci, non vogliamo sottoporvi una classifica (seppur ragionata, ma sarebbe stato impossibile), ma una scelta, dopo una lunga e combattuta discussione redazionale, di venti opere prime che hanno segnato la storia del cinema: da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn con l'innovazione nel montaggio e il cinema collettivo a un faro come Orson Welles e l'imprescindibile "Quarto potere", vera summa, racchiusa in un'unica pellicola, delle potenzialità della macchina cinema ai suoi massimi livelli; dall'umanesimo della povertà dell'indiano Satyajit Ray a quello da kammerspiel psicologico americano in un thriller giudiziario come "La parola ai giurati" di Sidney Lumet; dalla definizione del noir, dell'horror, del poliziesco, agli autori che più di tutti hanno contribuito alla nascita della Nouvelle Vague (Alain Resnais, Jean-Luc Godard, Francois Truffaut), corrente che ha portato una ventata di aria nuova nel cinema degli anni 50 in Europa e influenzato al cinematografia mondiale; dal cinema d'autore in rivolta degli anni 60 di Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio e Roman Polanski alle opere della New Hollywood, sperimentali e innovative all'interno della crisi dello Studio System e la nascita del cinema indipendente americano, con John Cassavetes e Terrence Malick, fino agli anni 80 e 90 con film di autori che hanno espresso innovativa e personalissima rivisitazione del linguaggio cinematografico negli Usa (David Lynch e Quentìn Tarantino) e in Giappone (Shinya Tsukamoto e Takeshi Kitano).
Come vedrete il taglio della scelta è stato storico e ha cercato di spaziare in cinematografie affermate e nascenti, ma, appunto, la scrematura è stata compiuta da una lunga lista di opere prime che meritavano di essere prese in considerazione nei nostri ragionamenti critici: opere prime che ci hanno colpito per loro freschezza e attualità, per la potenza delle immagini e la complessità delle storie, per la capacità di lasciare un segno, pietre miliari immediate, di autori che hanno continuato poi in un percorso costruito con originalità di sguardo e coraggio produttivo, contro tutti e contro tutto, senza mai scendere ad alcun compromesso ma salvaguardando l'afflato artistico delle opere. Film che in qualche modo hanno aperto una nuova strada, un nuovo modo di rappresentare il gusto estetico, la poetica della visione, la bellezza della narrazione, dove emozioni e intelletto si sorreggono in modo vicendevole regalando un punto di vista inesplorato allo spettatore di ogni epoca.
Vi sottoponiamo quindi venti opere prime, a nostro parere significative, accompagnate ognuna da una nota ragionata scritta da un nostro redattore che spiega storicamente i motivi che ci hanno spinto a segnalare quella determinata pellicola e non un'altra. Un elenco rigorosamente cronologico, dal più antico al più recente, per coprire il Ventesimo secolo della Settima arte.
SCIOPERO! di Sergej M. Ėjzenštejn (1925)
The Show Must Go Out
Cosa meglio di uno sciopero per cominciare l'opera?
Nella Russia zarista, un operaio è accusato ingiustamente di furto e si impicca. Lo sciopero che ne segue sarà represso duramente. Opera prima e muta di Ejzenstejn, è l'esordio cinematografico più rappresentativo di un trentennio passato dai Lumière a Mèliés, dalle Avanguardie all'Espressionismo fino a Griffith poiché li sintetizza tutti e vi aggiunge una sua personalissima teoria della forma. Il montaggio attrattivo dell'attacco alla folla, alternato alla scene extra-diegetica dell'uccisione di un bue, fu un suo personale marchio di fabbrica, così come la tipizzazione balzacchiana di un personaggio attraverso una sua qualità, metonimia, o tratto materiale, sineddoche. Riguardo il contenuto, pur organico alla Rivoluzione, il nostro Eroe non potette esimersi da considerazioni eterodosse che molto irritarono Stalin e Z'danov e lo costrinsero a una sorta di esilio dorato nel paradiso della settima arte che comunque, Senza la sua Opera, sarebbe stata decisamente più povera...
(Piero Calò)
IL MISTERO DEL FALCO di John Huston (1941)
L'età dell'oro del noir
Se dovessimo chiederci perché "Il mistero del falco" di John Huston deve stare in questo elenco, le risposte sarebbero molteplici. Ma quella più semplice è la più ovvia: perché è grazie a questo capolavoro del 1941 che il noir entrò in un'età dell'oro luminosa. Certo, c'erano stati alcuni episodi gangsteristici che avevano posto le basi del genere, ma fu Huston, adattando un romanzo di Dashiell Hammett, ad esaltare al massimo il fascino dell'intrigo, del mistero, la luce soffusa e i bassi soffitti, la gestione miracolosa degli interni e le intepretazioni solo accennate dei protagonisti. Huston veniva da una carriera di sceneggiatore apprezzato a Hollywood, ma nessuno aveva mai scommesso sul suo talento sul set. Indimenticabile la sua collaborazione con Humphrey Bogart, fino ad allora onesto caratterista, di cui Huston seppe tirare fuori, da quella smorfia sempre uguale a se stessa, una tragicità e un'ironia che poi gli autori a venire cercheranno sempre nei loro protagonisti. Senza un Bogart d'origine controllata non potrebbe essere un vero noir.
(Giancarlo Usai)
QUARTO POTERE di Orson Welles (1941)
La precocità del genio
Nella prefazione all'edizione americana del volume che André Bazin ha dedicato a Orson Welles, François Truffaut scrive: "Allora, nel 1939, Orson Welles doveva sentire molto bene che bisognava facesse non solo un buon film ma il film, quello che avrebbe riassunto quarant'anni di cinema pur facendo il contrario di tutto ciò che era già stato fatto, un film che sarebbe stato al tempo stesso un bilancio e un programma, una dichiarazione di guerra al cinema tradizionale e una dichiarazione d'amore al mezzo espressivo".
Il film in questione è "Quarto potere" e Truffaut sa bene quanto le invenzioni registiche del suo geniale, eccentrico autore avrebbero influenzato per sempre l'evoluzione del linguaggio cinematografico: i piani-sequenza, la profondità di campo, il découpage, le deformazioni prospettiche, gli obiettivi grandangolari... Tutto concorre alla realizzazione di un'opera magniloquente e spettacolare, barocca e modernissima, che lascia tramortiti per la potenza brutale e la ricercatezza finissima. Perturbante. Firmata da un enfant prodige (e terrible) poco più che ventenne al suo debutto dietro la macchina da presa.
(Stefano Guerini Rocco)
OSSESSIONE di Luchino Visconti (1943)
La palude suona sempre due volte
Scampato alla furia censoria e distruttrice del regime di Salò, il primo film di Luchino Visconti è considerato da molti uno dei momenti fondativi del neorealismo postbellico, ha aggiornato la cinematografia italiana alle nuove idee provenienti dalla cultura europea della crisi e ha, così, svelato un paese senza telefoni bianchi, facendone un ritratto doloroso e amaro. Allo stesso tempo "Ossessione" è un esordio che contiene in nuce alcune essenziali dominanti della produzione viscontiana: il regista milanese colpisce la società fascista esorcizzando i tabù dell'adulterio e dell'omosessualità, come accadrà ad esempio con la nuova borghesia romana in "Gruppo di famiglia in un interno", ma soprattutto inizia quel discorso sulla dissoluzione che caratterizzerà tutta la sua carriera, già qui applicato a un nucleo familiare in disfacimento e segnato da un'intonazione di stampo decadentista, come in "Vaghe stelle dell'Orsa" o "La caduta degli dei".
(Alessio Bottone)
IL LAMENTO SUL SENTIERO di Satyajit Ray (1955)
La potenza e la verità dello sguardo
Con uno sguardo al neorealismo italiano e una chiara vocazione e ispirazione tratte dall'opera di Vittorio De Sica, l'illustratore Satyajit Ray si impose nell'India post-coloniale come il regista in grado di dare al grande Paese asiatico una passione cinematografica insperata. Eccellente disegnatore, con una sensibilità per l'elemento visivo della messa in scena davvero fuori dal comune, Ray imbastisce una trilogia sulla storia di Apu, proveniente da una famiglia decaduta del Bengala, che vede con i propri occhi il decadimento di un mondo ormai lontano, sfociato in povertà scandalosamente tangibile. Eccolo il vero capolavoro di Ray: immagini stupende, un'elegia di due ore che parla di abiezione, umiliazione e miseria. In Europa risuonò immediatamente l'eco di questo cineasta "esotico" che, se possibile, imparava la lezione dei Maestri italiani estremizzandone il senso: la bellezza della Settima arte per elevare a materia degna di rappresentazione il putrido della società del Dopoguerra. Ancora adesso "Il lamento sul sentiero" è una carrellata di immagini annichilenti.
G.U.
LA PAROLA AI GIURATI di Sidney Lumet (1957)
Poirot non suda, Henry Fonda sì
Nell'implacabile sciarada ordita da Agatha Christie l'Orient Express si fa spazio teatrale, improbabile aula tribunalizia in cui un disegno machiavellico è tracciato col rigore di un teorema. Infine, l'whodunit è sciolto e, sul tintinnio di un brindisi, cade il sipario a chiudere con garbo il fine gioco di pazienza. Era il 1974 quando Sindey Lumet mandava Poirot a lisciare i suoi moustaches sulle carrozze del celebre treno, ma già vent'anni prima aveva chiuso dodici uomini arrabbiati in uno stanzino per decidere della vita di un giovane accusato di parricidio. È colpevole?, si domandano undici di loro. Esiste una sola possibilità che sia innocente?, si chiede, invece, il dodicesimo. Punto di svolta nel genere processuale, folgorante opera prima di un cineasta amante dei conflitti in spazi chiusi, "La parola ai giurati" è cinema umanista, occhio teso a scrutare il minimo riverbero di passione nei gesti, nei toni, negli sguardi. Si suda, nell'aula di Lumet, ci si sdegna fino alla collera, si litiga, mentre la cinepresa si abbassa - nell'ultimo terzo - a inquadrare il soffitto in un'implosione febbrile di claustrofobia. Nessuno scioglimento, infine, nessuno schema a riordinare i fatti, se non uno specchio in cui scorgiamo la nostra immagine riflessa.
Un vero saggio di cinema da camera.
(Matteo Pernini)
I 400 COLPI di François Truffaut (1959)
Il salto della barricata
Molti registi approdano al cinema per caso, chi dopo aver tentato altre forme d'arte, chi adattandosi al tirocinio come assistente dietro la macchina da presa. Francois Truffaut (classe 1932) segue invece un percorso fatto di studio, frequentando assiduamente le cineteche. Grazie al paterno aiuto di Andrè Bazin, che lo salvò da una disastrata adolescenza, Truffaut trova la sua giusta collocazione nella fondamentale rivista "Cahiers du cinèma" e poi in "Arts". Tra il 1954 e il 1959, si dedica alla critica militante con entusiasmo e competenza, divorando film dopo film. L'ammirazione incondizionata per il cinema americano lo porta a valorizzare autori quali Nicholas Ray, Ernest Lubitch, Howard Hawks e, ovviamente, Alfred Hitchcock. Il salto della barricata da critico a regista avviene grazie alla scrittura di alcune sceneggiature e alla realizzazione di un paio di corti, poi due anni fatidici: 1956, l'incontro con Roberto Rossellini e il 1958 con la pubblicazione su "Arts" di quello che viene considerato il manifesto della Nouvelle Vague. Nel 1959 gira in otto settimane "I quattrocento colpi", che rappresenta la traduzione filmica delle sue proposizioni teoriche e il superamento del cinema francese del dopoguerra. Si tratta del primo capitolo del ciclo di Antoine Doinel (Jean-Pierre Leaud, l'alter ego del regista per altri quattro film) ed è costruito su alcuni spunti autobiografici. È uno struggente poema sulla solitudine, con piglio cronachistico e rifuggendo ogni scivolata nel melò. Autentico, fresco, in perfetto equilibrio tra finzione e improvvisazione: una delle opere più significative della Nouvelle Vague. Il ragazzo che studiava il cinema entra a far parte della Storia del Cinema.
(Alessandro Corda)
HIROSHIMA MON AMOUR di Alain Resnais (1959)
Il tempo si frantuma
Il 1959 è l'anno di volta del cinema moderno; l'epicentro sta in Francia. Accanto agli enfants terribiles della nouvelle vague esordisce Resnais, con un film accostato solitamente a "L'avventura" di Antonioni (sempre del 1959), per dire di come il cinema si stesse emancipando dalle ingessature del canone e cercasse strade eterodosse, esplodendo in tanti linguaggi quanti i cineasti. "Hiroshima mon amour" svincola l'immagine dalla linearità del tempo per farne scheggia di memoria: ricordo, che inseguiamo e che ci insegue. Deleuze parlerà di falde di passato, riguardo ai primi film di Resnais, che rinnegano proustianamente i limiti del tempo per far convivere presente e passato nello stesso momento emotivo. Incessante sperimentatore, più tardi meno intimista e più giocoso, il titolo del suo penultimo film la dice lunga sulla sua poetica, ed è di buon augurio per il futuro del cinema: "Non avete ancora visto niente".
(Stefano Santoli)
OMBRE di John Cassavetes (1959)
Tre sfumature di nero
Un uomo bianco, nonostante New York, la Beat Generation e il jazz, ha una pessima reazione quando scopre che la sua fidanzata non è abbronzata ma geneticamente negra. L'esordio di John Cassavetes, con la 16mm rigorosamente a spalla nella Big Apple frenetica di un melting-pot problematico, fu l'apice di un movimento che da underground fa l'occhiolino al grande pubblico e apre la diga alle Nouvelle Vague europee. Attori improvvisati, montaggio sincopato, tranche de vie in presa diretta e inconsapevole, che costituiscono un documento straordinario dell'epoca, "Ombre" codifica quello che era il suo orgoglioso slogan, messo in coda: "The film you have just seen was an improvisation" che è poi il ritorno al cinema dei Lumière, un registrare senza (molto) intervenire.
P.C.
FINO ALL'ULTIMO RESPIRO di Jean-Luc Godard (1960)
Il ciclone distruttore e l'alba del vento nuovo
Girato con un bassissimo budget e in sole quattro settimane, "À Bout de Souffle" è probabilmente il film che più di ogni altro segnò un punto di non ritorno, una cesura fortemente voluta tra il passato della Settima Arte e la "Nuova Ondata" che si stava in quegli anni affermando negli ambienti della critica cinematografica parigina.
Godard colpisce sin dal suo esordio, con una forza erculea, tutti i pilastri che avevano sorretto lo stile del découpage classico fin'ora imperante, rifiutando la logica e la chiarezza espositiva, giocando con lo spazio e con il tempo in nome di una volontà di svecchiamento rispetto ad un cinema non più in grado di esprimere le problematiche sociali e culturali di quell'epoca.
La ricerca estetica godardiana (che si affinerà col tempo e che porterà a capolavori indiscussi come "Il disprezzo" o "Il bandito delle ore undici") mette a soqquadro ogni regola di regia, di montaggio, di direzione degli attori, ma regala delle immagini che rimarranno eterne, come quel pollice che asciuga ripetutamente e ingenuamente le carnose labbra di Jean-Paul Belmondo.
(Eugenio Radin)
ACCATTONE di Pier Paolo Pasolini (1961)
Modernità ancestrale
Nel volgere di un paio d'anni il cinema rinasce e di questa nuova alba è partecipe anche l'esordio di Pasolini, intellettuale, poeta e romanziere che d'ora in poi produrrà film a ritmo febbrile. In "Accattone" il suo cinema è già fissato: lo stile, ancora acerbo, non perderà mai le sue caratteristiche, che diverranno peculiarità di un linguaggio assai personale e proprio per questo - proprio grazie alle "sgrammaticature" che avevano inorridito Fellini (facendo slittare di qualche tempo l'esordio) - è un linguaggio moderno. Curiosamente, il cineasta Pasolini nasce moderno richiamandosi a tradizioni antiche. E' infatti nel cinema muto (una celebre sequenza di "Accattone" è persino esplicita in tal senso) che lo stile di Pasolini mette radici. Ma del resto tutta la poetica dell'artista riposa su un gigantesco ossimoro: quello di basare su fondamenta antiche, anzi ancestrali, la propria disperata modernità, anzi preveggenza.
S.S.
IL COLTELLO NELL'ACQUA di Roman Polanski (1962)
Il triangolo no
Che le scandalose istanze della Nouvelle Vague non potessero rimanere senza esito era certo e ben se ne accorse il potere sovietico, che, entro i confini polacchi, scatenò la stampa contro l'indecente sfoggio di edonismo del ventinovenne Roman Polanski. Cosa produsse un tale astio? Anzitutto l'intreccio, elementare e privo di risonanze storiche, di encomi al regime: una fragile e inasprita coppia borghese invita - quasi per sfida - un giovane autostoppista a un'uscita in barca. Poi, lo stile: nell'irruenza dei corpi che invadono lo schermo, in quella precisione asfissiante della messa in scena, leggiamo un affanno, come l'eco di una sensualità perturbante, che il regista ci invita a scrutare a lungo, con studiata indecenza. E ancora, il finale: un levare, una sospensione gravida di interpretazioni, un'oscena libertà gettata addosso agli spettatori.
Ci piacerebbe, allora, poter guardare il film con occhi vergini, anziché riconoscere in esso, punto per punto, i germi di un'ispirazione maturata nelle opere seguenti - dalla crisi della coppia borghese ("Rosemary's Baby") al terzo incomodo come elemento perturbante ("Cul de Sac"), dalla claustrofobia degli spazi chiusi ("L'inquilino del terzo piano") al procedere di una tensione maestro/allievo di impronta sadomasochistica ("La venere in pelliccia"). Vorremmo, insomma, gustarlo al di là delle invenzioni critiche, nella sconvolgente potenza del suo nitore e della sua spietata lucidità.
M.P.
I PUGNI IN TASCA di Marco Bellocchio (1965)
La cinica e grottesca tragicità del post-neorealismo
Solo diversi anni dopo la travagliata accoglienza riservata l'esordio di Marco Bellocchio assunse definitivamente i caratteri di "film manifesto", un punto di rottura nella storia del cinema italiano pari a quello che Visconti portò a compimento con la realizzazione di "Ossessione". Le vite "vuote" messe in scena da Antonioni agli inizi degli anni 60 prepararono l'humus per una nuova svolta culturale e del costume collettivo che il giovane Bellocchio (al pari del collega Marco Ferreri) raccolse prontamente presentando allo spettatore un retrogusto cinico e grottescamente tragico che rimanda all'avanguardismo francese di quegli anni. Con quel bizzarro e crudele affresco di una sciagurata famiglia piacentina, Bellocchio evidenzia da subito le patologiche perversioni di una società in stato confusionale, dove pazzia e angoscia sono delle insite componenti della natura umana e dove la malattia dimora nella "normalità" dell'esistenza. Una prospettiva quella del post-Neorealismo, che può apparire alienante e brutale ma che al tempo stesso si rivela rivoluzionaria ed epifanica, estremamente abile nello scardinare le latenze più profonde e irrazionali del sentimento umano e raggiungere la verità sulla quotidianità di quegli anni, come i tormenti della fede, le sicurezze del focolare domestico e l'esplosione comunista.
(Matteo De Simei)
LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI di George A. Romero (1968)
American Zombie-Dream
Sul finire degli anni ‘60 il ventottenne George Andrew Romero mette insieme poco più di 100 mila dollari con l'amico co-sceneggiatore John A. Russo e scrive un pezzo di storia del cinema, combinando film di genere e film d'autore. Archetipo dell'horror postmoderno, "La notte dei morti viventi" ricodifica lo zombie movie, facendone lo strumento di una riflessione a più livelli, da quello politico-sociale (l'America contemporanea) a quello filosofico (l'animo umano, l'assedio, la comunità). Questa specifica rifunzionalizzazione costituirà poi la dorsale principale della filmografia di Romero, che farà risorgere i suoi zombie e li aizzerà prima contro il consumismo e l'era Reagan, poi contro globalizzazione, lotta al terrorismo e mass media, senza mai dimenticare lo scandaglio della natura umana. Un'opera prima che ha ispirato le generazioni successive, folgorando registi come Wes Craven, e che continua ancora oggi a esercitare la sua influenza (vedi "The Walking Dead").
A.B.
LA RABBIA GIOVANE di Terrence Malick (1973)
Terre indifferenti
"Un sogno di cose oscure e inquietanti". Così David Lynch ha definito il suo mortifero esordio nel lungometraggio. Un angoscioso viaggio onirico in bianco e nero, partorito dopo una gestazione di oltre 5 anni e popolato da neonati mostruosi, tumori facciali, polli sanguinanti e teste mozzate. Considerata una tra le pellicole più insane della storia del cinema (Kubrick ne impose la visione forzata a Nicholson e alla Duvall durante la lavorazione di "Shining"), il primo incubo lynchiano possiede già tutti i caratteri fondanti delle sue opere future. In un mondo dove tutto deve essere spiegato e ostentato, egli ha sempre rifiutato nella sua carriera qualunque commento o spiegazione riguardo alle sue opere, sottolineando che l'emozione si percepisce, non si capisce. Un cinema totale che risponde ai requisiti del sogno e dell'inconscio oltreché a un surrealismo volto alla denuncia e allo smascheramento dei soprusi. Il grande merito di Lynch è quello di aver creato un nuovo modello di fruizione, uno spazio filmico sperimentale e trasgressivo rivolto al grande pubblico mainstream, merito per lo più della sua grande poliedricità in ambito artistico e della sua fervida e immaginaria creatività.
M.D.S.
TETSUO di Shinya Tsukamoto (1989)
Una rivoluzione di carne e metallo
Shinya Tsukamoto, classe 1960, inizia a fare film quando aveva 14 anni, con una camera Super-8 regalatagli dal padre. Dopo una serie di corti e film amatoriali, il giovane artista, ormai universitario, fonda un gruppo teatrale e inizia a lavorare in maniera sempre più professionale finché nel 1989 non realizza una pellicola a bassissimo costo, destinata a diventare un cult del cinema underground. Quel film è "Tetsuo", assalto audiovisivo alle resistenze retiniche ed etiche dello sguardo: il prodigioso lavoro si reifica in un morboso bianco e nero in 16mm, che si avvale di effetti speciali artigianali coadiuvati dalla stop-motion e da un montaggio subliminale e forsennato, pienamente punk, per mettere in scena la storia di uno scontro e di una fusione. Lo scontro di un feticista investito dall'auto di un modesto sarariman ha conseguenze assurde: se il primo non muore, il secondo viene in un certo senso "contagiato" iniziando un processo di mutazione che vede la trasformazione delle membra umane in parti meccaniche. La fusione dei corpi, il metallo che squarcia la carne e si sostituisce a essa, la rabbia interiore dei personaggi che è quasi la scaturigine della loro mostruosa trasformazione sono alcuni degli essenziali elementi della rivoluzione di Tsukamoto che, partendo dal body-horror di David Cronenberg e profondamente influenzato dai temi del cyber-punk (presenti anche in "Akira" di Otomo), combina già all'esordio una poetica personale a un formalismo sperimentale ed esasperato che andrà affermandosi, grazie a una continua evoluzione, quale uno degli stili più importanti e originali della nostra epoca.
(Giuseppe Gangi)
VIOLENT COP di Takeshi Kitano (1989)
Kitano Takeshi, un uomo pericoloso
C'era una volta Beat Takeshi, uno stand-up comedian. C'era un'altra volta Beat Takeshi, un personaggio popolare della tv giapponese. C'era un'altra volta ancora Kitano Takeshi, un attore...che ha però lo stesso volto di Beat Takeshi. Ed è in vesti di attore protagonista che Kitano sarebbe dovuto apparire in un poliziesco firmato dal maestro dello yakuza-eiga Fukasaku Kinji, sennonché quest'ultimo dovette rinunciare alla regia per problemi di salute. A sorpresa, il comico, che del trasformismo e della poliedricità aveva fatto un tratto distintivo della sua arte, si improvvisa regista riscrivendo in gran parte anche la sceneggiatura (ma senza accreditarsi): sperimenta l'esperienza del cineasta e decide che era una cosa che gli piaceva fare e che l'avrebbe rifatta al più presto. Così, in modo ingenuo e circostanziale, nasce un autore geniale che lascerà un segno indelebile negli anni Novanta, quel Kitano Takeshi che insieme a un altro pugno di nomi (Tsukamoto, Miike Takashi e la nidiata degli autori j-horror) riporterà alla ribalta dei festival il cinema giapponese. "Violent Cop" (1989), il suo primo titolo, è un poliziesco che inizia come se Beat Takeshi interpretasse una versione nipponica dell'Ispettore Callaghan, solo un po' più ghignante e bastardo, ma nel prosieguo si sviluppa quale nerissima cop story che non ha paura di sporcarsi le mani in svolte pulp, assai in anticipo rispetto alle fiction di Tarantino. Subito dopo verrà "Boiling Point" (1990), un secondo esordio che passa quasi inosservato ma che insieme a "Violent Cop" segnano l'inizio della carriera di questo regista inusuale che grazie a un approccio personale e naif creerà forme di cinema in cui poesia e violenza si sposeranno in immagini di lancinante bellezza.
G.G.
LE IENE di Quentin Tarantino (1992)
...o "dell'importanza di lasciare una mancia"
Era ancora un giovane videonoleggiatore Quentin Tarantino, amante della blaxploitation e dei prodotti di serie-B, quando scrisse la sceneggiatura de "Le Iene": capolavoro dell'avant-pop e dichiarazione di poetica del celebre regista di Knoxville che, a sua volta influenzato da decine di prodotti semi-sconosciuti del cinema mondiale, sarà destinato ad esercitare una considerevole influenza sulla cultura contemporanea e a meritarsi, già al suo esordio, la fama di regista cult della nuova generazione statunitense.
Tarantino cammina sul filo del rasoio di un cinema unico e dall'equilibrio sottile, come dimostra la ricaduta nel trash dei numerosi epigoni che hanno pensato di poterne imitare lo stile.
"Resevoir Dogs" definisce già quelli che saranno i punti cardine dell'estetica tarantiniana: le scene di violenza pulp, la frammentazione della trama, lo humor nero, ma soprattutto la capacità unica di costruire dialoghi esemplari ma al contempo frivoli, evitando in tal modo il moralismo e indicando contemporaneamente la preoccupante mancanza di una morale nella società contemporanea.
E.R.
ESSERE JOHN MALKOVICH di Spike Jonze (1999)
Essere o non essere
"Essere John Malkovich" (1999) è il folgorante esordio di Spike Jonze con un lungometraggio. Il film venne presentato al Festival di Venezia e ricevette quattro nomination agli Oscar 2000 (miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior attrice non protagonista per Catherine Keener). Prima del 1999 Spike Jonze si era fatto le ossa come regista di videoclip, arrivando a realizzarne più di quaranta. R.E.M, Bjork, The Beastie Boys, The Chemical Brothers sono solo alcuni degli innumerevoli artisti che Jonze ha diretto. Ed è proprio questa libertà di sperimentare nei videoclip che ha portato il regista di Rockville a maturare uno stile e una capacità anarchica di raccontare l'assurdo senza regole e il film d'esordio ne è una prova inconfutabile. Merito si deve, soprattutto, alla sceneggiatura di Charlie Kaufman che firmerà anche il film successivo, "Il ladro di orchidee". All'apparenza sembra solo un gioco ben riuscito, in realtà il film affronta molte tematiche dall'introspezione e psicanalisi dei personaggi al legame tra corpo e genere, fino a riflettere sul linguaggio del cinema (l'uso della soggettiva). È un unicum nel cinema americano di fine anni 90, già ricco di grandi talenti. Essere o non essere quello che si vuole rappresentare di sé, l'apparenza in contrapposizione con il proprio io: temi complessi maneggiati con la chiave dell'ironia e dell'assurdo. Un film memorabile.
A.C.