Una scia di fumo nero si leva da una locomotiva in transito. Due bambini scalzi rincorrono il treno attraversando un campo di grano. Lo stridio delle rotaie si allontana insieme al treno. Il fumo aleggia sulle spighe. La scena più rappresentativa de "Il lamento sul sentiero" di Satyajit Ray, primo capitolo della celebre trilogia di Apu, definisce la poetica di un giovane autore indiano che, a metà degli anni 50, rincorre la modernità espressa dal cinema nuovo.
Il 1950 inaugura un decennio in cui il cinema si confronta apertamente con sé stesso. L'autoriflessività ed il recupero di quello che il teologo e teorico del cinema Amédée Ayfre definì "realismo fenomenologico" già sperimentato dalla scuola italiana sono i due tratti che distinguono buona parte dei film d'arte del periodo. A queste e ad altre conquiste pratiche e teoriche si affiancava l'opera di promozione nei festival europei di scuole cinematografiche dapprima ignorate dal grande pubblico. L'indiano "Neecha nagar" di Chetan Anand, un dramma sociale in lingua hindi che si allontanava dai canoni del cinema d'evasione bollywoodiano di maggior successo per esaminare i problemi quotidiani della popolazione locale, vinse il Grand Prix del primo festival di Cannes del dopoguerra. In India, terra che ha ospitato, tra gli altri, Huston, Rossellini, Pasolini, Renoir e Malle, non c'è una sola industria cinematografica, ma ce ne sono tante, sparse in diverse aree del Paese, che riflettono diversi modelli culturali. "Il lamento sul sentiero" si iscrive precisamente nella migliore tradizione dei film d'arte bengalesi.
Il cinema indiano ha attraversato diverse fasi nel corso della sua storia. Ai primi film, prevalentemente di genere mitologico, influenzati dal teatro e dal cinema di Georges Méliès, seguirono i melodrammi risucchiati in una dimensione illusoria che concedevano un'evasione dalla dura quotidianità. I successi a Cannes di film indiani come "Neecha nagar" e "Do Bigha Zamin" del bengalese Bimal Roy, l'affermazione a Venezia di "Rashomon" di Kurosawa, l'influenza del neorealismo italiano attraverso "Ladri di biciclette" di De Sica, che i cineclub diffusero in tutto il mondo, e la nuova ondata di registi indiani interessati a trattare il problema delle caste e della povertà, stimolarono la produttività dell'illustratore Satyajit Ray. Ma fu soprattutto l'incontro con Jean Renoir, in India per girare "Il fiume", avvenuto grazie alla Calcutta Film Society di cui Ray era membro fondatore, a convincere definitivamente il nostro a girare "Il lamento sul sentiero".
Ray, da non confondere con uno dei più influenti cineasti americani del periodo con cui condivide il cognome, sperimenta diversi stili nel tempo. All'esordio, accompagnato dal direttore della fotografia Subrata Mitra, fotografo amatoriale ancora inesperto conosciuto sul set de "Il fiume", si distingue per una certa esigenza di realismo. La delicata fotografia in 16mm di Mitra è liberata di ogni artificio, volti e luoghi sono restituiti così come appaiono davanti alla macchina da presa, privi dei trucchi caratteristici dei film della distante Bollywood - tra Bombay e Calcutta intercorrono circa 2000 chilometri. Imitando i registi italiani del periodo immediatamente precedente, Ray ingaggia attori non professionisti e organizza le riprese diurne nel villaggio di Boral, poco distante da Calcutta, mentre si concede l'uso di uno studio per le riprese notturne.
Tratto da un romanzo autobiografico dell'autore bengalese Bibhutibhushan Bandyopadhyay ambientato nel 1920, "Il lamento sul sentiero" segue la tradizione del romanzo di formazione adottata anche da altri registi moderni, interessati ad esplorare le difficoltà dei loro protagonisti ad adattarsi alla vita adulta e decisi a distanziarsi dai canoni del cinema classico hollywoodiano, i cui film sono basati su una catena di eventi collegati da un rapporto di causa/effetto. Ray non è inoltre alieno dall'umanitarismo di Rabindranath Tagore, scrittore bengalese vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1913. Lo spettatore incontra Apu alla nascita nel primo film e lo saluta dopo il suo matrimonio nell'ultimo capitolo della trilogia, attraversando la perdita delle persone a lui care. "Il lamento sul sentiero", così, si legge anche "L'infanzia di Apu", il rapporto con la sorella maggiore Durga, i giochi che conducono alla sua morte, la povertà, l'abbandono del villaggio natio insieme ai genitori. Saga di un bambino che cresce come il Doinel di Truffaut.
La modernità di Ray si esprime attraverso uno sguardo nuovo che egli pone sull'India. Il nuovo assume una duplice declinazione: è nuovo per lo straniero che guarda un luogo ignoto, dispiegato con uno stile di regia a tratti documentaristico - tanto da trarre in inganno il governo del Bengala occidentale che finanziò le riprese, convinto che Ray stesse girando un documentario -, nutrito da inquadrature ricorrenti, così come è nuovo per il cinema indiano rispetto ai melodrammi e ai musical indiani entrati nella cultura di massa. Ray dichiara tramite la sua regia di prediligere gli attimi di vita reale agli esagerati drammi: la madre che cucina, i bambini che giocano, la vecchia zia che mangia con le mani sono momenti che deviano dalla diegesi per svelare la quotidianità dei personaggi.
La sceneggiatura, assente durante le riprese, in cui vennero utilizzate alcune illustrazioni di Ray, evita il sentimentalismo e segue il flusso della realtà locale. Ed è una realtà caratterizzata dalla povertà del villaggio in cui abita la famiglia di Apu. Lo stile di Ray non è solo opposto all'artificio, ma anche fortemente avverso allo stesso. La sua macchina da presa cattura immagini spesso incontrollabili, liriche, come capiterà a
Rossellini nel bellissimo "India: Matri Bhumi". È il caso, ne "Il lamento sul sentiero", della corsa di Apu e Durga verso il treno, in cui la macchina da presa si scuote come se stesse reagendo emozionalmente alla scena. L'autorialità di Ray è tesa verso la ricerca di una verità. Questo non vuol dire che Ray tralasci la narrazione, anzi. È qui che risiede l'impatto emotivo di un film che riscosse enorme successo soprattutto all'estero.
L'assenza dei personaggi negativi ricorda molto da vicino il cinema di Renoir. Anche una ripresa senza tagli di un jatra durante una festa del villaggio, una forma di teatro popolare tipica del Bengala, si avvicina all'opera del cineasta francese, famoso per la dialettica tra realtà e teatro che contraddistingue il suo corpus filmico. Alla giovinezza e alla vitalità dei bambini, veri protagonisti dell'opera, attratti dal treno e dal carretto dei dolci che non si possono permettere, si contrappongono le difficoltà dei genitori di sostenere economicamente la famiglia. Gli effetti su Apu dell'assenza del padre, impegnato a cercare lavoro in altre località, si avvertiranno nei due successivi capitoli, soprattutto nel terzo, quando Apu dovrà accudire suo figlio. Il volto divorato dalla vecchiaia della zia Indir, il personaggio più vecchio del film interpretato da Chunibala Devi, attrice non professionista scoperta da Ray nel bordello di un quartiere a luci rosse, viene inquadrato spesso in primo piano, l'antitesi dei visetti curati delle star del cinema indiano. La sua morte e quella della nipote Durga, il personaggio femminile più giovane, causata del freddo preso per essersi esibita in una danza che esprime la sua nascente sessualità sotto la pioggia battente, richiamano il simbolismo dell'intera trilogia, che indaga sul rapporto tra la vita e la morte e tra la giovinezza e la vecchiaia.
La modernità di Ray è inoltre rintracciabile in una forma particolarmente materiale. La trilogia di Apu dialoga infatti con i piani di industrializzazione del Paese da parte del primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, successore ideale del Mahatma Gandhi. In questo senso, ne "Il lamento sul sentiero", l'arrivo del treno a vapore nei pressi del villaggio assume una doppia valenza di vita e di morte. Apu e Durga lo rincorrono felici, ed entrambi individuano nel treno un mezzo con cui poter espandere i propri orizzonti, il tema del seguito "Aparajito". Tornando verso casa, però, noteranno la vecchia zia Indir morente sul ciglio della strada.
"Il lamento sul sentiero" è un film che riscosse un particolare successo in America, replicato per sei mesi al Moma di New York grazie anche alla raccomandazione di John Huston, che supervisionò parte delle riprese di Ray nel corso di una trasferta in India per la ricerca delle location de "L'uomo che volle farsi re". La sua forza risiede nella capacità di riuscire a stabilire una connessione emotiva sincera anche con spettatori distanti, attratti dalla tenerezza, dalla poesia, dalla malinconia e dalla simpatia suscitata da un'opera che nella sua interezza si può definire seriale. "Aparajito" vincerà il Leone d'oro al festival di Venezia nel 1957, mentre "Il mondo di Apu" costituisce un ponte nella filmografia di Ray tra la trilogia iniziale e i film successivi, tramite soprattutto la figura della celebre attrice Sharmila Tagore, che Ray riproporrà in "Devi" e "Nayak". Ray continuerà a girare film fino all'inizio degli anni '90, influenzando generazioni successive di registi che possono accedere alla sua opera tramite i diversi restauri che si sono succeduti negli anni. Ad oggi la Criterion Collection offre la migliore versione possibile della trilogia di Apu.
Un carro trainato da due buoi. Il sitar di Ravi Shankar in sottofondo lo accompagna in un viaggio verso l'ignoto. Madre, padre e figlio si stringono, le espressioni contratte dalla fatica e dal dolore. La madre affonda il viso in un fazzoletto. Il marito si gira verso di lei, poi torna a guardare la strada. Non sa cosa gli riserverà il futuro. La scena finale de "Il lamento sul sentiero" definisce buona parte della modernità cinematografica, tesa verso il territorio del dubbio.