Ondacinema

recensione di Mario Vannoni
8.0/10

Negli ultimi anni il cinema d’animazione, almeno quello mainstream americano, non vive uno stato di grande salute. La crisi di idee e nuove narrazioni che sta colpendo Hollywood da ormai quasi un decennio ha progressivamente infettato anche il mondo dei cartoni animati, producendo titoli stanchi, ripetitivi e di scarsa originalità. In casa Disney, a partire da "Frozen II – Il segreto di Arendelle" (Chris Buck e Jennifer Lee, 2019), già sequel di "Frozen – Il regno di ghiaccio" (Chris Buck e Jennifer Lee, 2013), sono usciti "Raya e l’ultimo drago" (Don Hall e Carlos López Estrada, 2021), curiosa incursione in una mitologia differente ma che reitera meccanismi narrativi arcinoti, "Encanto" (Buron Howard e Jared Bush, 2021), grande successo di pubblico ma fin troppo schiavo delle aspettative dello stesso, "Strange World – Un mondo misterioso" (Don Hall, 2022), forse il più interessante nel suo timido tentativo di proporre qualcosa di diverso ma dimenticato in tempo zero, e infine "Wish" (Chris Buck e Fawn Veerasunthorn, 2023), film-celebrazione del centenario disneyiano ma che nulla ha da dire se non raccontare l’ennesima storia di principi e principesse.

Dando un’occhiata anche ai titoli di prossima uscita, la situazione non sembra in crescendo: il prossimo sarà "Oceania 2" (Dave G. Derrick Jr., Jason Hand e Dana Ledoux Miller, 2024), ennesimo sequel di un film già non originalissimo, e a seguire "Zootropolis 2" (Byron Howard e Jared Bush, previsto per il 2025) e "Frozen III" e IV (Jennifer Lee e Marc Smith, il primo previsto per il 2027 e il secondo ancora da annunciare). Andando a ritroso, il film che aveva preceduto "Frozen II" era stato "Ralph spacca Internet" (Rich Moore e Phil Johnston, 2018), anch’esso secondo capitolo di "Ralph Spaccatutto" (Rich Moore, 2012); ancora prima c’erano stati "Oceania" (John Musker e Ron Clements, 2016) e "Zootropolis" (Byron Howard e Rich Moore, 2016), in mezzo "Big Hero 6" (Don Hall e Chris Williams, 2014), per poi ricongiungersi a "Frozen", successivo a "Ralph Spaccatutto". Al netto di questa micro-storiografia Disney, risulta che è almeno dal 2018 che la casa di Topolino non produce qualcosa di originale, tra sequel e idee poco efficaci.

Anche la Pixar, da sempre garanzia di qualità nel mondo dell’animazione, negli ultimi anni ha prodotto alcuni sequel ("Cars 2", "Cars 3", "Gli Incredibili 2", "Toy Story 4", "Monsters University") e alcuni film poco convincenti ("Onward", "Red", "Elemental"), fino al successo planetario nonché linfa vitale del botteghino estivo "Inside Out 2", molto riuscito ma pur sempre ri-narrazione di un mondo preesistente.

La DreamWorks, invece, pur anch’essa producendo vari sequel ("Dragon Trainer – Il mondo nascosto", "Trolls World Tour", "I Croods 2 – Una nuova era", "Baby Boss 2 – Affari di famiglia", "Trolls 3 – Tutti insieme", "Kung Fu Panda 4"), ha sfornato una serie di titoli molto originali e finanche sperimentali ("Troppo cattivi", "Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio", che è un sequel fino a un certo punto ed è un vero capolavoro, "Orion e il buio"). Si nota dunque una triplice direttrice: quella che va a consolidare un fandom preesistente con opere che tornano su storie già affrontate, aggiornandole; quella di uno sperimentalismo senza compromessi; infine, quella che mira a creare i presupposti di nuove possibilità narrative. "Il robot selvaggio" (Chris Sanders, 2024) rientra in quest’ultima categoria.

Chris Sanders è stato una figura centrale del Rinascimento Disney (quel periodo che va dal 1989 al 1999), avendo lavorato agli storyboard di "La bella e la bestia" (Gary Trousdale e Kirk Wise, 1991), "Aladdin" (Ron Clements e John Musker, 1992), "Il re leone" (Roger Allers e Rob Minkoff, 1994) e "Mulan" (Tony Bancroft e Barry Cook, 1998), ma per la Disney ha diretto anche "Lilo & Stitch" (2002), per poi spostarsi alla Dreamworks firmando la regia di "Dragon Trainer" (2010) e "I Croods" (2013). "Il robot selvaggio" si presenta come il suo film più personale, fortemente voluto e nutrito da una passione intensa per il romanzo illustrato da cui è tratto. La storia, tutto sommato, è semplice, a suo modo archetipica, ma Sanders vi inserisce frequenti slittamenti, ribilanciamenti narrativi e di senso, piccole variazioni interne che lo rendono un’opera ricca e viva.

Se il robot – la robot, in realtà, doppiata in originale Lupita Nyong'o – ha delle fattezze che possono ricordare "Big Hero 6" e gli occhi espressivi e umani di "WALL•E" (Andrew Stanton, 2008), la sua caratura emotiva e l’arco del personaggio hanno una potenza simbolica che aderisce perfettamente al presente. A partire dal concetto di “essere programmati”, metafora che vuole sottolineare quanto ognuno di noi tenda a essere incasellato – e a incasellarsi – in un ruolo prestabilito, stretto nelle maglie di un carattere cui appartenere.

Roz, questo il nome della robot protagonista, fatica per tutto il film a “riprogrammare il suo codice”, scontrandosi incessantemente con un ambiente esterno che le pone delle sfide che lei non è in grado di affrontare, se non ricalibrando continuamente il suo adattamento al mondo che la circonda; al contrario, lei è abituata a esercitare le sue funzioni raggruppandole in compiti da svolgere, una lista di obiettivi da portare a termine per poi trovarne altri. In questo rigido meccanismo “esistenziale” – che è quello entro cui molti di noi tendono a rinchiudersi – si intromettono i sentimenti, schegge impazzite che sovvertono l’equilibrio della struttura tra gioie, difficoltà, soddisfazioni e amarezze. Anche il personaggio di Fink, la volpe che aiuta Roz, doppiata da Pedro Pascal, è rigidamente attaccato alla sua “natura” di animale furbo che con l’astuzia si approfitta degli altri, ma finisce per affezionarsi mutando radicalmente il suo atteggiamento nei confronti degli altri abitanti della foresta, che lo hanno sempre visto (o è lui che si è sempre mostrato in questo modo?) come un reietto.

In mezzo ai due c’è Beccolustro, una giovane oca di cui seguiamo il sopraggiungere della maturità, dalla nascita all’indipendenza, il cui uovo viene trovato e “covato” proprio da Roz, la quale aveva accidentalmente distrutto il suo nido: si ritroverà a dovergli fare da madre, coadiuvata, appunto, da Fink. È chiaro che "Il robot selvaggio" ci propone un modello di famiglia non tradizionale – in termini anche piuttosto autoevidenti: un robot, un’oca e una volpe – senza tuttavia volerne a tutti i costi fare una bandiera da sventolare e senza trasformarlo in una qualsiasi rivendicazione di orientamento woke. Perché gli intenti di Sanders sono genuini e non mirano a lanciare un messaggio[1], quanto a trasmettere in purezza un’idea di amore.

Certo, questo porta anche a didascalismi un po’ troppo frequenti e a slanci retorici che gonfiano alcune sequenze di un afflato quasi epico che forse non appartiene al film. Ma tant’è: "Il robot selvaggio" è sgraziato nel suo essere totalmente libero e appassionato senza che questo si traduca in una scarsa cura per i dettagli. L’animazione, un ibrido tra CGI e disegno, è tra le migliori che si siano viste negli ultimi anni, sempre dinamica, brillante e piena di inventiva, ma anche capace di rallentare e tornare a una concezione del quadro più artigianale. Ci sono inquadrature che restano impresse nella memoria e che probabilmente resteranno scolpite nella storia del cinema di animazione, perché la loro bellezza non sta solo nella riuscita estetica dell’immagine ma soprattutto nell’efficacia con cui sanno cogliere uno stato d’animo, un sentimento, un’emozione, un legame, anche solo uno sguardo. Un film umanissimo senza umani.

Quando era stato annunciato, "Il robot selvaggio" era stato presentato come il miglior film della Dreamworks. Non lo è. Ma è sicuramente un film che sa parlare la lingua del contemporaneo, che si fa perdonare i didascalismi grazie a una speciale abilità nel creare discorso su e con le cose semplici, che guarda al futuro con un occhio attento al presente, che sa commuovere pur concedendosi degli eccessi retorici ma senza risparmiarci la crudeltà dell’esistenza. È un film imperfetto, come la vita. Ed è bellissimo così.




[1] «Penso che non abbiamo realizzato un film con un messaggio, ma c’è un tema ispiratore. E credo che Roz ne abbia il controllo. È uno dei motivi per cui alla fine della storia, sia nel libro che nel film, quando l’azienda che l’ha creata si rende conto che è là fuori operativa, diventa molto interessata a riaverla. Penso siano preoccupati per lei e, al tempo stesso, affascinati. Vogliono studiarla perché non vogliono che ciò accada di nuovo. È potente». Intervista a Chris Sanders, reperibile al seguente url: https://www.hollywoodreporter.it/film/film-danimazione/il-robot-selvaggio-the-wild-robot-intervista-regista-film-animazione-romanzo-peter-brown-annecy-trama-cast-uscita/114706/ (consultato il 11/10/24).


13/10/2024

Cast e credits

cast:
Catherine O Hara, Pedro Pascal, Lupita Nyongo


regia:
Chris Sanders


titolo originale:
The Wild Robot


distribuzione:
Universal Pictures International Italy


durata:
102'


produzione:
DreamWorks Animation


sceneggiatura:
Chris Sanders


fotografia:
Chris Stover


scenografie:
Raymond Zibach


montaggio:
Mary Blee


musiche:
Kris Bowers


Trama
Dopo un naufragio, un robot intelligente di nome Roz rimane bloccato su un'isola disabitata. Per sopravvivere, lega con gli animali dell'isola e, aiutata dalla volpe Fink, si prende cura di un cucciolo d'oca rimasto orfano.