A distanza di 4 anni dal precedente speciale della nostra redazione sulle "giovani promesse" del cinema internazionale, proviamo a ripetere l'esperimento e a segnalarvi quali sono i registi da tenere d'occhio nei prossimi anni
Se andate a dare un'occhiate al nostro speciale di quattro anni fa "
La primavera degli autori", potrete voi stessi verificare quanti autori che avevamo incluso in quell'articolo sono, adesso, effettivamente i nuovi "giganti" della scena internazionale. Qualcuno lo abbiamo forse mancato, è vero, ma va detto che avevamo intuito che avremmo sentito parlare ancora molto di cineasti come Pablo Larrain, Steve McQueen, Asghar Farhadi, Denis Villeneuve o Joe Wright. Potremmo passarli in rassegna tutti, ma avrebbe poco senso.
A distanza di un po' di tempo, abbiamo voluto tentare un secondo esperimento, sicuramente più difficile. Più difficile per molte ragioni: la prima è che in quattro anni non c'è tempo perché si imponga completamente una nuova generazione di registi e dunque è più complicato ragionare su giovani talenti pronti ad affermarsi completamente in futuro; la seconda ragione è che, stavolta, abbiamo deciso di essere ancora più selettivi. Nella carrellata di proposte che state per leggere non trovano spazio quegli autori che hanno già trovato una consacrazione, seppure parziale. Nessuno di questi registi ha la bacheca di casa già piena di riconoscimenti o il conto in banca che esplode di milioni di dollari grazie a successi clamorosi al botteghino.
Non abbiamo voluto farne una questione prettamente di età. Ci sono esordienti cinquantenni e cineasti trentenni già venerati da critica e pubblico. Quelli che seguono sono, semplicemente, venti nomi su cui ci sentiamo di puntare per i prossimi anni. Non è detto che tutti esplodano compiutamente, così come non è detto che, già adesso, tutti siano dei talenti di prima grandezza. Sono soltanto quelli che ci sono sembrati più promettenti. Non ci sono rigidi parametri critici nella scelta: ci siamo limitati a prendere in considerazione quello che hanno fatto finora nella Settima arte. Per questo troverete registi di Paesi diversi e lontani, che forse non avrete neanche sentito nominare, insieme a colleghi che hanno invece già optato per la collaborazione con l'industria hollywoodiana.
Quello che li accomuna è che sono tutti riconoscibili per un'impronta che sono già riusciti a dare alla loro carriera. Ci siamo riuniti in redazione per cercare di potervi offrire una disamina quanto più completa su ciò che il panorama internazionale ci offre attualmente. Per l'Italia abbiamo scelto quattro autori: una coppia di eccezionali documentaristi, una cineasta che ha già conquistato il concorso di Cannes (tornando a casa con un incredibile Grand Prix), un giovane regista che ha realizzato il suo primo lungometraggio proprio quest'anno, film fra l'altro già diventato un cult. E c'è spazio anche per il misto di fiction e reportage di Roberto Minervini. Insomma anche il nostro Paese per i prossimi anni si può difendere nella competizione globale, con uno spettro di proposte artistiche variegato e davvero articolato. Buona lettura.
Sean Baker (Summit, New Jersey, 26 febbraio 1971)
Sean Baker, classe 1971, è ormai protetto dal circuito dei festival internazionali ma ancora non ha avuto occasione fare pubblico nei cinema italiani come meriterebbe. È da alcuni anni per esempio che il Torino Film Festival gli concede gli spazi per presentare gli ultimi lavori. "Prince of Broadway" prima, "
Starlet" poi e da ultimo il suo, ad oggi, miglior film "Tangerine". Ed è proprio per quest’ultimo che Baker rilancia sul futuro, creando già un’attesa per quello che farà. Sì perché Tangerine è il famoso "film girato con un Iphone", film nel quale dimostra tutta la sua capacità di girare alleggerito nelle attrezzature una commedia frenetica e coloratissima, appoggiata su una sceneggiatura perfetta e attori eccellenti. Una specie di Cassavetes aggiornato. Un film splendido, opera di un innamorato del cinema senza dubbio.
In precedenza, ad esempio con "Starlet", non era riuscito a liberarsi così di schemi e trappole del cosiddetto cinema indipendente. Per questo scommettiamo su Sean Baker, perché al passo fatto nel 2015 si spera seguirà un rinnovamento ulteriore, verso un cinema sempre più vibrante e vivo. (Alessandro Viale)
J.C. Chandor (Morristown, 24 novembre 1973)Inizio eclatante per Jeffrey McDonald Chandor, meglio noto come J. C. Chandor con quel "
Margin Call" che ebbe immediata risonanza internazionale, lanciato dal Sundance Film Festival prima e dalla Berlinale poi. Affrontando la crisi economica dei titoli spazzatura all'interno di chi li ha creati, Chandor si rivela un autore con una visione chiara della messa in scena, con una ricerca della tensione muta, solo grazie alla capacità della messa in serie, al gioco delle inquadrature con primi piani dei personaggi silenti. Del resto, questa cifra autoriale viene sviluppata anche nei due film successivi, "
All Is Lost" e "
A Most Violent Year", dove conferma la grande qualità sia di dirigere gruppi di attori sia un unico protagonista come Robert Redford. Chandor è un talentuoso regista capace di scendere a patti anche con il film di genere (come il noir che ammanta "A Most Violen Year"), attento alle atmosfere, con sceneggiature ferree e ben scritte. Un autore che solo dopo tre film è, più che una promessa autoriale, una certezza e che potrà solo evolvere, avendo dato prova di un eclettismo fuori dal comune. Perché quello che interessa a J. C. Chandor è l'uomo e la sua lotta per la sopravvivenza nella nostra selvaggia società contemporanea. (Antonio Pettierre)
Massimo D'Anolfi e Martina Parenti (1974 e 1972, Milano)
Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, coppia artistica e nella vita, sono dei documentaristi rigorosi e irreprensibili. Il loro sguardo sul mondo reale non conosce filtri di alcun genere, eppure emerge continuamente dalle immagini che ci restituiscono un senso poetico della realtà che ci circonda. Partiti con una dichiarata vocazione narrativa che mettesse in correlazione la letteratura con l'attualità (i loro primi lavori hanno per titolo un'importante opera letteraria, che si tratti di Manzoni, di Dickens o di Kafka), il loro percorso continua ora con documentari maturi e annichilenti nella loro profondità umanista. Ecco, se dobbiamo sintetizzare ciò che rende D'Anolfi e Parenti una coppia di cineasti imprescindibile nel panorama europeo continentale è proprio questo loro punto di vista filosofico: ogni documentario è occasione per riflettere sull'evoluzione dell'essere umano. Ed è in questa eccezionale onestà intellettuale che, forse, sta il loro più grande merito. (Giancarlo Usai)
Gareth Edwards (Nuneaton, 1º giugno 1975)"
Monsters" non era un film con una sola idea. Era allo stesso tempo un blockbuster creato a basso costo, una riflessione sulla frontiera USA Messico (Nord-Sud), una storia d'amore tra sbandati, una prospettiva nuova sui film di mostri. Grande successo di pubblico (ha avuto pure un seguito) e di critica. Edwards non è interessato alla purezza autoriale e si svende subito a un progetto sulla carta assurdo come "
Godzilla". Ricicla l'idea più simpatica di Monsters (i mostri riescono ad accoppiarsi, gli umani no), riporta in primissimo piano la questione nucleare/ecologica (Hiroshima, le scorie radioattive, l'assurdità dello stile di vita americano a Las Vegas o alle Hawaii). Ma alza il tiro: il mostricione deve essere fatto bene a punto da essere visibile a figura intera in pieno sole (altro che "Pacific Rim") e soprattutto ha il coraggio della mossa alla "Children of Men": i personaggi sono spettatori, non attori della vicenda, testimoni di sconvolgimenti più grandi di loro. Altro successo di pubblico e critica. Come rilanciare ancora? Collaborando al mungimento di Star Wars da parte della Disney. Riuscirà il nostro eroe a dire qualcosa di interessante all'interno di una tale oscena macchina produci soldi? Siamo curiosi di vederlo. (Alberto Mazzoni)
Robert Eggers (New Hampshire, 1982)La paura è il sentimento che attanaglia più frequentemente l'animo dei protagonisti del fortunato esordio di Eggers, da recuperare al cinema proprio in questi giorni. Paura di Dio, paura del Diavolo, paura della Natura, paura della Civiltà, paura del fallimento, paura dell'affermazione, paura della menzogna, paura della verità, paura del peccato. Che, come alludono i prefinali, è forse più pericolosa dello stesso (oppure no ?). Ed è a quel punto che le urla e le esclamazioni (di paura, ma anche rabbia e dolore) dei personaggi si fanno vera e propria colonna sonora del film, assieme alle striscianti (lurking, altro termine lovecraftiano) e deflagranti (qualcuno si è studiato "Shining") composizioni di Mark Korven. Esemplificando così bene la contrapposizione (meglio, una delle contrapposizioni) di cui il film si nutre, quella tra reale (e realismo) e simbolico. Che si giustappongono nell'enigmatico finale che sancisce la pura natura di fiaba (basti leggere i titoli dei corti del regista) di "
The Witch" e quindi la sua capacità di essere sia impressionante ricostruzione d'epoca che raffinato horror metaforico. Come lo stesso Eggers ribadisce sardonicamente con l'annotazione in exergo. (Matteo Zucchi)
Gareth Evans (Hirwaun, 1980)A volte certi film danno veramente una svolta al proprio genere. Evans si fa le ossa, e le fa spaccare, in "Merantau", con cui trasforma in film l'arte marziale che si era recato a documentare, il silat. E poi arriva il successo internazionale di "The Raid", un capolavoro d'azione - eccezionale. Grandi artisti marziali al servizio di una regia che riesce a coniugare dinamismo e chiarezza nell'azione come forse nessun altro al momento. E dopo arriva "
The Raid 2", che amplia il discorso, inserendo una trama e dimostrando la superiorità del regista in ogni campo da gioco, incluso far combattere attori non sportivi (Hammer Girl è una modella) o il banco di prova per eccellenza: l'inseguimento automobilistico. "The Raid 2" lascia così indietro i film d'azione asiatici e americani contemporanei che non ha senso proseguire su quella strada, e quindi? Gira sul web un corto (muto, di pura azione) di Evans, in cui non solo si cimenta col film in costume ma addirittura per la prima volta rispetta il PG 13... (A.M.)
Andrew Haigh (Harrogate, 7 marzo 1973)Regista, sceneggiatore, produttore, operatore e montatore. Il britannico Andrew Haigh è esploso nel 2015 grazie allo struggente "
45 anni", ma al suo attivo può vantare oltre dieci anni di eclettica carriera, sempre in bilico tra vocazione indie e tentazioni mainstream: numerosi corti, il semi-documentaristico "Greek Pete", l'instant cult "
Weekend" e la serie televisiva targata HBO "Looking". Ma che parli di un rent-boy londinese, di un obnubilante amour fou, di una placida coppia anziana o di un gruppo di amici gay a San Francisco, Haigh non smette mai di scandagliare con acume e dolente puntualità la complessità delle relazioni sentimentali. Il suo è un cinema intimo e rigoroso allo stesso tempo, spesso amaro, essenziale nella sua linearità, che prende vita nel racconto dei piccoli dettagli quotidiani - le abitudini domestiche, i gesti d'amore, i silenzi rancorosi, il sesso impacciato. E che trova perfetto compimento in una direzione d'attori sapiente, sensibile e di rara efficacia. (Stefano Guerini Rocco)
Mia Hansen-Love (Parigi, 5 febbraio 1981)Mia è la nostalgia. Si perdonerà il gioco di parole, dovuto ancor più che voluto, per introdurre il breve profilo di questa regista, classe 1981, che con una manciata di film è diventata uno dei nomi di richiamo nei festival europei. A diciassette anni la Hansen-Løve inizia a recitare in una pellicola di Olivier Assayas, "Fin août, début septembre", che la richiama nel 2000 per "Les destinées sentimentales". Frequenta il Conservatorio Nazionale d'Arte Drammatica e, nel frattempo, collabora coi Cahiers du Cinema; successivamente, si legherà sentimentalmente al suo mentore, Assayas, e i suoi lavori inizieranno a riscuotere via via sempre più successo: sì, la sua vita sembra l'incarnazione di un sogno cinefilo. A un certo punto, però, quella che sembrava "un'altra autrice francese da festival" (e, forse, pure raccomandata) cambia passo e "
Un amore di gioventù" (2011) diventa un piccolo caso del circuito d'essai e il suo quarto film, "
Eden" (2014), ispirato alla biografia del fratello, il dj Sven Love, sfiora il capolavoro - almeno per chi scrive. Mia Hansen-Løve ha un chiodo fisso, quello di inseguire la giovinezza perduta in un nostalgico viaggio nella memoria dei propri personaggi: mentre il tempo scorre inesorabilmente in avanti, loro vorrebbero bloccarlo, se non addirittura riavvolgerlo per non doverlo affrontare, rinviando il confronto con la realtà e con se stessi. Lo sguardo avvolgente e innamorato verso i propri giovani attori e una certa capacità di blandire il ritmo l'ha imparato da maestro Assayas, ma il resto appartiene a una regista malinconica e romantica il cui prossimo film si intitola, quasi epifanicamente, "L'avvenire". (Giuseppe Gangi)
Gabriele Mainetti (Roma, 7 novembre 1976)Il giovane regista romano vuole essere la nostra scommessa per un cinema italiano differente. Non arriva dal nulla: laureato in Storia e critica del cinema, studia a New York regia, fotografia, produzione e sceneggiatura. Frequenta in Italia numerosi laboratori di recitazione e fa una lunga gavetta dirigendo una manciata di cortometraggi prima di arrivare a "
Lo chiamavano Jeeg Robot" che lo rivela al grande pubblico. Una scommessa, dicevamo, per un talento che, fin da subito, si intuisce fuori dai canoni italiani, con un respiro che travalica i confini nazionali, capace di apprendere la lezione del cinema di genere (americano) e renderlo moderno. Del resto il Western Spaghetti o il Poliziottesco o l'Horror all'italiana degli anni 60 e 70 come nacquero se non con autori che ebbero il coraggio di affrontare temi e stilemi che potevano apparire non prettamente nazionali? Mainetti reinventa, produce, dirige, musica, scrive, in una parola (ri)crea un genere e pensiamo che ci stupirà anche prossimamente. Un nuovo autore da seguire con attenzione. (A.P.)
Roberto Minervini (Fermo, 1970)Marchigiano di nascita, studioso e insegnante di cinema in giro per il mondo poi stabilizzatosi negli Usa, Minervini, con sinora 4 film all'attivo, è un esponente di quel cinema aderente alla realtà che costituisce uno dei più interessanti orizzonti del cinema contemporaneo, dove si polverizzano i confini fra fiction e documentario (vicino in questo al pluripremiato Gianfranco Rosi). Di film in film Minervini si è sempre più aperto alla realtà, con una componente politica che diviene esplicita nell'ultima prova, "
Louisiana - The Other Side", che scruta un lato oscuro dell'America. Se nei primi due film della precedente "trilogia texana" - "The Passage" e "Low Tide" - pur in una rigorosa e contemplativa asciuttezza si scorgeva ancora l'ordito di una trama, "
Stop the Pounding Heart", il suo film più amato, è un miracolo di equilibrio fra finzione e realtà, che possiede però ancora una novelization di fondo. "Louisiana" è un esperimento coraggioso, in cui lo sguardo del regista non si preclude nulla (ricorda a tratti l'esordio di Claudio Caligari) e mette in scena senza reticenze anche ciò che appare disturbante. Presupposto indispensabile per il buon esito di questo cinema è condividere un percorso di vita insieme ai propri protagonisti: e ciò che riesce a Minervini è rendersi parte del contesto senza nascondere l'attrito fra il bisogno di celare la macchina da presa e l'inevitabilità della sua presenza. (Stefano Santoli)
David R. Mitchell (Clawson, Michigan, 1974)A distanza di quattro anni dall'esordio "
The Myth of the American Sleepover", David Robert Mitchell riprende quel malinconico teen movie ultra-low budget, realizzandone una sorta di sequel travestito da horror e chiarendo in maniera ammirevole quali sono (proprio quelli) i punti chiavi del proprio cinema. La descrizione dell'adolescenza, con alcune notevoli eccezioni recentemente costretta sempre più spesso a squallide commedie, ricondotta al medesimo mood (e ingenuità) delle origini del genere ma attraverso un'enorme consapevolezza del passato. Altra ossessione di Mitchell: il passato dei personaggi (che fa continuamente capolino nei dialoghi, in film in cui invece i flashback sono curiosamente banditi del tutto), il passato di una nazione, il passato di un'epoca, il passato di un immaginario, il passato di un Cinema. Da questo punto di vista l'appressamento a Hollywood col venturo neonoir losangelino "Under the Silver Lake" non sembra (solo) una mera manovra lavorativa. In questo postmodernismo vi è davvero poco gioco. Solo la consapevolezza che distrugge. (M.Z.)
Tomm Moore (Newry, 7 gennaio 1977)Nel precedente speciale si indicava il cinema del francese Sylvain Chomet (e in particolar modo il suo "L'illusionista") come canto del cigno e tramonto dell'animazione bidimensionale europea. E a ben vedere i successivi anni hanno di rado proposto degne fantasie audiovisive nel tradizionale disegno pre-tecnologico. Se negli ultimi tempi anche alcuni nomi noti del panorama europeo (da Michel Ocelot all'italiano Enzo D'Alò) sono spariti o quasi dalle luci della ribalta, non v'è dubbio che la figura di maggior rilievo emersa sulle tele del cinema d'animazione risponde al nome di Tomm Moore. Nato in Irlanda del Nord, per rinvigorire il genere e tracciare le coordinate della sua personale visione, l'autore si ferma ed indietreggia pescando a piene mani nella storia e nel folklore della propria terra. Nel dare forma a storie e leggende locali ascoltate durante l'infanzia, Moore si è dapprima situato nell'abbazia fortificata di Kells del IX secolo ("The Secret of Kells") per poi biograficamente giungere ai suoi anni 80 ("
La canzone del mare"), riversando la passate leggende nel mondo d'oggi. Il tutto con un raffinato gusto pittorico che, passando per Paul Henry, va da Paul Klee a Vasilij Kandinskij. I giovani personaggi di Moore attraversano le prime paure della fanciullezza percorrendo avventurosi ed emozionanti tragitti di iniziazione alla vita. (Diego Capuano)
Na Hong-jin (Seul, 1974)
Nel 2008, in un momento in cui la "new wave" sudcoreana aveva ormai esaurito la propria spinta propulsiva, si profila all'orizzonte l'ombra di un autore che si mostrava già maturo e consapevole dei propri mezzi. Con "
The Chaser" esordisce uno sconosciuto regista di 34 anni, il cui film diventa un fenomeno in patria coinvolgendo anche quei paesi che si erano ormai affezionati alla nuova onda di cineasti provenienti dalla Corea del Sud. Sebbene difficilmente Na Hong-jin raggiungerà la notorietà ottenuta nei primi anni del nuovo millennio da autori del calibro di Park Chan-wook e Kim Ki-duk, è evidente la continuità con quei registi che, negli stessi anni, hanno saputo coniugare spettacolo ad autorialità, incassi a un buon responso critico, ossia Bong Joon-ho e di Kim Ji-woon. Come loro, Na Hong-jin è capace di affondare il proprio cinema nei codici dei generi, in particolare il poliziesco più nero e violento, rendendolo un duttile materiale per un linguaggio cinematografico che aspira all'epica. Regista che cerca la profondità dalla materica messa in scena, riuscendo a scardinare le resistenze dello spettatore che, affascinato, segue le gesta dei suoi antieroi fino alle porte dell'inferno. E pare questo essere il fine ultimo anche di "The Wailing" (2016), commistione grottesca nella migliore tradizione coreana, che mescola poliziesco, commedia nerissima e horror: l'opera, la terza, che ribadisce lo spiazzante talento visivo di Na. (G.G.)
László Nemes (Budapest, 18 febbraio 1977)Un esordio insignito di una mole di riconoscimenti (dal Gran Prix a Cannes all'Oscar), dalla risonanza tale da fare del suo autore una promessa di cui si attende con trepidazione l'opera seconda. Nella sin troppo ricca filmografia sulla Shoah "
Il figlio di Saul", scritto insieme a Clara Royer, si porrà forse come uno spartiacque: eppure la stretta connessione fra scelte estetiche e istanze etiche fanno sì che al film stiano strette le coordinate di un filone. Più che ennesimo film sulla Shoah, "Il figlio di Saul" si pone come sfida estrema sulla rappresentabilità dell'irrappresentabile, sulla necessità di mostrare superando quanto già mostrato non sempre in modi eticamente ineccepibili. Nemes mette proprio l'etica al centro del film, facendolo gravitare attorno all'ossessione di restituire all'uomo ciò che è stato disumanizzato. Un rito funebre: il rispetto dei defunti è il più antico segno di cultura e spiritualità, in quasi ogni civiltà umana. Un'ossessione, quella di Saul, cui corrisponde quella estetica di Nemes, che non si muove dalla nuca del protagonista, lavorando su fuori campo e fuori fuoco. Nemes è stato assistente di Tárr per "L'uomo di Londra": qualcosa ha preso dal maestro, a partire dalla predilezione per il long take, ma la collaborazione con Tárr è solo un episodio in una lunga attività di studi finalizzata alla realizzazione di questo film. (S.S.)
Joshua Oppenheimer (Austin, Texas, 23 settembre 1974)L'atto del filmare può portare, attraverso il conseguente atto del guardare, ad innumerevoli derive. La visione e l'effetto delle prime due opere dello statunitense Joshua Oppenheimer permettono di ispezionare un esteso campo che nasce nelle frastagliate ragnatele di menti che non troverebbero sui libri scolastici taluni genocidi rimossi, oscurati; per poi piantarsi inesorabilmente nel territorio emozionale che dalla curiosità passa all'angoscia, dall'indignazione all'insostenibilità. Scavando con il bisturi nel genocidio indonesiano del 1965, nell'indispensabile dittico "
The Act of Killing"-"
The Look of Silence" Oppenheimer svaria tra punti di vista, stratifica le possibilità e i limiti del cinema, si muove tra i sovraccarichi cinematografici e conseguenti scorie (i carnefici nutriti di cinema e affascinati dalla macchina da presa) alla limpidezza dell'obiettività (lo sguardo della guida-vittima), filma il raccontabile per estrarre l'indicibile. Nei film di Oppenheimer il Male ne esce come uno spettro ineluttabile, abnorme e ingestibile, al quale contrapporre primi piani e silenzi che si ergono spiritualmente al di sopra di ogni possibile lettura scolastica riguardante una delle immani tragedie dello scorso secolo. (D.C.)
Ruben Östlund (Styrsö, 13 aprile 1974)"
Forza maggiore" ha colto gli spettatori italiani alla sprovvista. Prende tutte le regole del cinema europeo d'autore e le usa come uno strumento, le mastica e le risputa, le studia e poi se ne frega. L'inquadratura fissa che taglia fuori parte del soggetto, molto affascinante, ma viene usata solo quando serve, sostituita a volte da inquadrature classiche, movimenti di macchina lineari, e in una sequenza la semplicità diventa allucinazione estatica. L'ipocrisia e il dramma della famiglia borghese, senza dubbio, ma inquinati momenti di grande umorismo. L'hybris è tale da citare (parodiare?) addirittura un caposaldo come il Dio osservatore del decalogo di Kiewsloski, ma osservando la presunta natura della stazione sciistica mostrata in tutto il suo artificio si capisce che Ostlund ha le carte per giocare così in alto. (A.M.)
Sarah Polley (Toronto, 8 gennaio 1979)Attrice talentuosa e schiva, antidiva per vocazione, la canadese Sarah Polley debutta alla regia nel 2008 con "Away From Her - Lontano da lei" e subito si guadagna una nomination all'Oscar. Il suo adattamento di "The Bear Came Over the Mountain" di Alice Munro colpisce infatti per la tenerezza discreta e il lucido nitore con cui riesce a intessere un emozionante racconto di amore e malattia. Le stesse qualità si ritrovano anche nei suoi lavori successivi: la commedia agrodolce "Take This Waltz" e soprattutto l'intimo e toccante "
Stories We Tell". Opere delicate e potenti allo stesso tempo, intrise di un sentimento di placida malinconia, popolate da personaggi che si incontrano, si sfiorano e se ne vanno sbiadendo come figure sfocate di una vecchia fotografia. Autrice sensibile dallo sguardo profondo e dal tocco leggero, Polley firma un cinema pudico e rigoroso, lontano dal tempo e dalle mode, che commuove lo spettatore con la forza vibrante di un sussurro. (S.G.R.)
Alice Rohrwacher (Fiesole, 29 dicembre 1981)Nata da madre toscana e padre tedesco, sorella dell'attrice Alba (con cui gira "
Le meraviglie"), la Rohrwacher si rivela fin da subito una voce cristallina nel nuovo panorama del cinema italiano. Uno sguardo attento al mondo infantile (così come anche per la giovane protagonista di "
Corpo celeste"), una capacità di trasfigurare la messa in scena in mondi onirici, sospesi, in una perenne attesa per il futuro che verrà, la giovane regista riesce a trasmettere come pochi un mondo interiore in modo nuovo e originale. Si vede come fa sua la lezione pasoliniana e del cinema italiano degli anni 60, rileaborandola e aggiornandola, con la macchina da presa che si sente e si vede sempre, incollata ai personaggi, ai loro volti, in un contesto familiare, intimo, mostrando un'autrice fuori dal comune. E del resto se ne sono accorti anche a Cannes, visto che, appena alla seconda regia, l'hanno subito premiata con il Gran Prix della Giuria. (A.P.)
Joachim Trier (Copenaghen, 1974)Figlio e nipote d'arte (il padre è un tecnico del suono, la madre una documentarista, il nonno il noto filmaker Erik Løchen), Joachim Trier studia cinema prima in Danimarca e poi in Inghilterra, ma solo dopo essersi dedicato allo skateboard, che gli ispira i primi video durante gli anni del liceo. Tra il 1995 e 2002 realizza una serie di spot e cortometraggi, ma il vero esordio arriva nel 2006 con "Reprise", opera prima originale e ambiziosa che esplora le inquietudini e le aspirazioni dei ventenni della classe media norvegese, alternando soluzioni formali invadenti (footage d'archivio, fotomontaggi, freeze frame, flashback, flash-forward) e sobrio approfondimento piscologico e d'ambiente. Il film riceve diversi riconoscimenti, così come il successivo "Oslo, August 31st" (2011), presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes. Ancora una volta è la giovane borghesia di Oslo ad essere in primo piano, attraverso le peregrinazioni urbane di un tossicodipendente solo e disperato. Trier si conferma un cineasta solido, capace di combinare l'analisi della società norvegese con l'indagine esistenziale e la padronanza del gesto registico (la mdp pedina il protagonista e ce ne trasmette le angosce). Per quanto il recente "
Segreti di famiglia" (2015) non sia stato all'altezza dei primi due lavori, ci aspettiamo buone cose da questo autore per il futuro. (Alessio Bottone)
Hiromasa Yonebayashi (Nonoichi, 10 luglio 1973)
Yonebayashi Hiromasa, detto Maro, ha percorso ogni tappa della gavetta del buon animatore, dai tempi in cui faceva l'intercalatore in "Principessa Mononoke" fino a diventare animatore chiave di tutti i successivi lavori del suo maestro, Miyazaki Hayao. Sotto la supervisione di quest'ultimo, dirige il suo primo lungometraggio nel 2010, a 37 anni: si tratta di "
Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento" che diventa il primo incasso annuale in Giappone, nel solco della migliore tradizione dello Studio Ghibli . Il peso che si porta dietro questo regista non è indifferente: insieme e, forse, anche più di Goro Miyazaki, è l'erede designato di una tradizione ammirata e amata in tutto il mondo e che, proprio dopo il suo secondo film, nel 2014, ha annunciato un indefinito iato produttivo. Yonebayashi è attratto dai mondi liminari, dal fantastico che subentra nel mondo reale permettendo un'evoluzione, la crescita dei propri giovani protagonisti; e riesce ad acquerellare i vari gradi di emozione e meraviglia con una delicatezza che rende possibile alla forma tracimare nel contenuto. Forse gli manca ancora lo scarto del genio, ma la sequenza chiave di "
Quando c'era Marnie", in cui il poetico Bildungsroman cede il passo alla ghost story più inquietante fa ben sperare per il futuro dello Studio Ghibli. (G.G.)