Dagli spazi angusti e opprimenti degli uffici di Wall Street del suo precedente (e sottovalutato) "
Margin Call", a quelli sconfinati e selvaggi dell'oceano di questo "All Is Lost", il cinema del giovane regista J.C. Chandor continua ad essere pervaso dal medesimo senso di tensione. I protagonisti di "Margin Call", prigionieri di un mondo in cui le leggi morali, economiche e politiche erano sfuggite al loro controllo, non sono poi molto distanti dal Robert Redford di questa pellicola, anch'egli imprigionato in una situazione "estrema", senza (apparentemente) alcuna via di uscita.
La scommessa di "All Is Lost" sta nel girare un'intera pellicola con un solo personaggio, in scena dalla prima all'ultima sequenza, senza dialoghi, in unità di luogo e tempo (più o meno). Un film-sfida che torna su temi affrontati sin troppe volte dal cinema americano degli ultimi anni, a partire da quello dell'uomo (in questo caso Robert Redford) che lotta per la sopravvivenza in un ambiente a lui ostile. Un esempio su tutti, il recente "
Gravity": se il film di Cuaron puntava tutto su una messa in scena dalla portata formalmente "rivoluzionaria", risultando però discutibile e programmatico azzardando simbologie grossolane e riflessioni teologiche che lasciano il tempo che trovano, Chandor, anche sceneggiatore, opta invece per una narrazione volutamente scarna e minimalista, in cui lo spettatore non sa nulla sul protagonista, nemmeno il suo nome. Al contrario di altre pellicole similari, come "
Vita di Pi", che verteva su temi altisonanti come la necessità della fede e della ricerca di Dio (qualunque esso sia), in "All Is Lost" non si dà spazio a nessuna riflessione esplicita, nulla sovrasta il racconto. Ne esce così un film tutto "di regia", dove una vicenda che potrebbe potenzialmente esaurirsi dopo la prima mezz'ora, viene continuamente rilanciata e rinvigorita da una regia in grado di sfruttare al meglio i pochissimi elementi visivi e scenografici.
Ogni piccolo evento che funesta la lotta per la vita del protagonista (che si tratti della ricerca di acqua potabile, il tentativo di riparare il danno alla nave con mezzi di fortuna, cercare di orientarsi in base agli insegnamenti di un vecchio libro di astronomia) è rappresentato con minuzia di particolari, creando un costante effetto di tensione e angoscia.
Ecco allora che il minimalismo della sceneggiatura non appare come un difetto, ma esalta l'identificazione con il malcapitato protagonista: ognuno di noi potrebbe essere quell'uomo, in quella situazione. Tra imponenti tempeste e tentativi, vani, di comunicare con il mondo "esterno", ne emerge una visione spietata della natura, quasi
herzoghiana. E se il protagonista, anche nei momenti più atroci della sua odissea, evita di chiamare in suo aiuto Dio, a uscire vincitore da questa pellicola è unicamente l'essere umano, la sua combattività e voglia di vivere, ad ogni costo. Ovviamente un'operazione di questo tipo non si sarebbe potuta realizzare senza l'apporto di Robert Redford, sostenitore del progetto sin dal principio, e in quest'occasione attore straordinario, che pennella il suo personaggio con la giusta caparbietà e intensità, senza incedere in pietismi di sorta. Sicuramente si prenota per le prossime nomination agli Oscar.
Di lodevole sobrietà e vibrante commozione anche le musiche (mai invadenti) di Alex Ebert, leader degli
Edward Sharpe and The Magnetic Zeros.