La Redazione di Ondacinema presenta un viaggio guidato tra i più interessanti sguardi cinematografici che si stanno affermando in questo squarcio di nuovo millennio cercando di tracciare una rotta sicura tra le acque agitate da tanti talentuosi autori emergenti
Il cinema, settima sorella nella famiglia delle arti, ha sin dalla sua nascita esplorato il nostro mondo fin nei suoi più ascosi meandri rendendo palese la complessa molteplicità che si annida in esso e svelando al contempo che basta la semplice delicatezza di uno sguardo per farla emergere. Opificio e bottega dei sogni, il cinema anche nelle sue più universali aspirazioni ha sempre tradito la natura soggettiva dalla quale non può in alcun modo svincolarsi: quell'occhio artificiale che è la cinepresa incarna inevitabilmente lo sguardo di un soggetto singolare trasponendo in un mondo di celluloide una visione, un miraggio, un documento che testimoniano l'incontro tra lo sguardo che guarda ed il guardato che si concede alla vista in un fugace rendez-vous che scorre di fotogramma in fotogramma declinando le possibilità nascoste nel mondo che incontriamo quotidianamente.
È questa una storia di sguardi: di registi che catturano sguardi, di spettatori che guardano attraverso gli occhi di qualcun altro affacciandosi su un mondo dischiuso ogni volta in un modo differente, ogni volta nuovo, ogni volta perdendosi nella vergine landa del possibile cercando di catturare melodie di sentimenti tanto vicine, tanto lontane nello spaziotempo. È questa una storia segnata da giganti il cui sguardo si rianima sullo schermo ricordandoci di volta in volta l'attualità del passato o dai grandi del presente che ogni anno aspettiamo in sala sperando rivivere grazie a loro nuove emozioni.
Ma la storia è soprattutto quella ancora non scritta e con questa panoramica la redazione di OndaCinema vorrebbe guidare i suoi lettori in una dolce navigazione tra gli sguardi cinematografici che si stanno imponendo in questo squarcio di nuovo millennio per scoprire i tesori sommersi della cinematografia contemporanea, gli sguardi che segneranno il domani della nostra amata arte. Registi ancora non saliti alla ribalta dei più importanti palcoscenici, ancora non incensati ampiamente dalla critica internazionale, ma dei quali vogliamo comunicare il valore e l'importanza del loro lavoro. Senza la vana pretesa di una sistematica completezza proveremo semplicemente a disegnare una mappa del frastagliato arcipelago di registi emergenti apprezzato dalla nostra redazione.
Buone visioni.
Fatih Akin (Amburgo, 25 Agosto 1973)
Classe 1973, Fatih Akin è di origine turca e tedesco d'adozione. La realtà dell'immigrazione e l'integrazione nel paese di arrivo saranno temi cardine all'interno della sua filmografia, fin dal suo lungometraggio d'esordio, "Kurz und schmerzlos" (1998). Sebbene le premesse possano far pensare a un Kusturica turco-tedesco, in Akin manca l'attitudine più politica, in favore di uno stile dall'andatura distaccata, che si districa tra il melodramma e l'ironia, tra la violenza della realtà e il lirismo (con contaminazioni fassbinderiane e scorsesiane qua e là). I misconosciuti "Kurz und schmerzlos, "Solino", "Im Juli" sono storie di emigrazione e solitudine, in cui la ricerca di un'identità diventa un viaggio quasi fiabesco. La musica è una componente importante del cinema di Akin, tanto da dedicarle un documentario- affresco sulla scena rock turca: "Crossing the bridge - The sound of Istanbul". Nel suo più famoso lavoro, "La sposa turca", (vincitore dell'Orso d'oro) la tensione drammatica raggiungerà vette goethiane, e Akin si confermerà ineccepibile soprattutto in fase di scrittura. Il successivo "Ai confini del paradiso" si mostrerà sottotono rispetto al film precedente. Per l'ultima fatica, "Soul Kitchen", il regista riporrà nel cassetto la densità narrativa di cui aveva fatto sfogio fin ora per buttarsi in una commedia farsesca piena di sketch. (F.D.)
Joon-ho Bong (Hangul, 14 Settembre 1969)
In realtà poco prolifico se si considera una filmografia composta da quattro lungometraggi in 12 anni, prodotti di una cinematografia frenetica come quella asiatica. Bong col passare dei film si è affermato come regista eclettico, sapiente osservatore della famiglia coreana del nuovo millennio, dei contrasti provocati da un'Occidentalizzazione etica che ha demolito un sistema valoriale differente e tradizionale, rischiando quindi la catastrofe. Bong ha diretto due commedie nere, tra il grottesco di "Barking dogs never bites" e il catastrofismo di "The Host", e due noir, lo splendido "Memories of murder" e il morboso "Mother". Il dittico centrale è quello che rivela pienamente il talento e le ambizioni del regista sud-coreano: "Memories of murder" è forse il più bel poliziesco puro del decennio, oltre che affondare le proprie radici nella cronaca nera della Corea, è un pessimista percorso che ratifica il fallimento di ogni possibile epistemologia (la scena della lettura delle analisi in mezzo ai binari ferroviari è di cristallina potenza) e la verità rimane un'astrazione sfuggente; col disaster-movie "The Host" invece ci si confronta coi mostri del nostro tempo, esseri mutanti (e contaminati) prodotti da una società che ha perso il controllo della propria cultura, contrastati soltanto da una famiglia disgregata che di fronte al pericolo ritrova la forza di un'unità che pareva perduta. Regista dalla raffinato composizione dell'inquadratura, ma che riesce a donare ritmo e a spettacolarizzare le sue storie ("The Host" è stato il più grande incasso nella storia del cinema coreano), Joon-ho sta preparando, come il connazionale Park Chan-wook, il suo esordio americano con "Snowpiercer" che dovrebbe essere pronto nel 2013. (G.G.)
Alexandre Bustillo (1975) & Julien Maury (1978)
Che il cinema horror più recente non sia riuscito a reggere il confronto in seguito ai capolavori degli anni settanta e ottanta è un dato di fatto. Non si chiedeva certo di ripetere le orme dei vari Romero, Carpenter, Craven, (o per rimanere in patria) Bava e Argento. Ma neanche di riciclare prevedibili e sterili prequel e remake di classici, come avvenuto negli States nell'ultimo decennio. Una ventata nuova si è respirata in terra francese dove nell'ultimo periodo la "Nouvelle Horror" ha senz'altro rianimato le sorti di un genere rimasto in coma per ormai troppo tempo. Tra gli altri (ricordiamo anche Laugier e Aja) si è contraddistinta la giovanissima coppia Bustillo-Maury che ha esordito nel 2007 con lo sconvolgente "À l'Intérieur" (conosciuto anche come "Inside"), film violento e malato in cui riaffiorano anche temi sociali e politici (Carpenter docet). La nuova paura scorre per mezzo di arti mutilati, litri e litri di sangue, scene dalla devastante potenza visiva in grado di disturbare e turbare seriamente lo spettatore, sulla scia del miglior Argento. Nel 2011 il duo si è ripetuto con "Livide" ("Livid"), uscito in Francia a dicembre e in Italia ancora inedito. Il futuro dell'horror è dalla loro parte. (M.D.S.)
Sylvain Chomet (Maisson Laffitte, 10 Novembre 1973)
Nostalgia di terre lontane, di oggetti di antiquariato, di persone anziane o fuori dal tempo, di un cinema lontano che le nuove tecnologie hanno voluto rendere inavvicinabile ai più. Quello di Sylvain Chomet è un universo visto da un oblò di un astronave, un mondo sopra al quale porgere una lacrima: il calore e l'umanità emanata invano si cercherebbe altrove. Un cosmo nel quale coabitano le vecchie Triplettes e il Tour de France che fu di "Appuntamento a Belleville" (2003), la famiglia (bambino più genitori mimi) di "Tour Eiffel", corto-gioiello del film collettivo "Paris Je t'aime" (2006) e, soprattutto, il protagoniosta di "L'illusionista" (2010), nostalgica summa di tante fantasie e magie cinematografiche, a cominciare dal Monsieur Hulot di Jacques Tati. Quando l'anziano illusionista Jacques Tatischeff capita in una sala che proietta "Mio zio", vede sé stesso, ha un sussulto, ma fatica a riconoscersi. E' il cinema che riflette la sua essenza ma che fatica a ricordarla, è l'arte che non riesce più ad appropriarsi della sua identità. Quello di Chomet è l'ultimo cinema d'animazione bidimensionale possibile, la fine di un'epoca, di un cinema, di un amore, di tutti gli amori, fuori e dentro lo schermo. (D.C.)
Asghar Farhadi (Homayoonshahr, 1 Gennaio 1972)
Il cinema iraniano diventa adulto e sbanca l'Academy. Non più con il talento spontaneo degli alfieri della locale Nouvelle Vague, ma con un intellettuale dalla formazione accademica (in particolare nel teatro) che assimila gli stilemi degli illustri predecessori e li inserisce in strutture più classiche nell'impostazione, che guardano prevalentemente al cinema borghese (raro trovare protagonisti benestanti nella cinematografia persiana...) e limitano al minimo, alla mera contestualizzazione, le suggestioni che all'estero possano apparire come esotiche. Cinque, splendidi film all'attivo, un successo crescente di pubblico e critica. Il pass per l'Occidente è il festival di Berlino, con la vittoria sfiorata da "About Elly" e quella conseguita da "Una seperazione". Mano a mano il suo cinema prende coraggio e affronta i problemi dell'Iran contemporaneo in maniera sempre più esplicita e meno allusiva, in ogni caso straordinariamente puntuale. Finora il regime non si è accorto (quasi) di nulla, dopo l'Oscar per il miglior film straniero sarà quasi impossibile per Farhadi (che è anche un eccellente sceneggiatore) proseguire sulla stessa strada. Ma Asghar ha deciso: rimarrà in patria. E accetterà la sfida. (C.Z.)
Michelangelo Frammartino (Milano, 1968)
In Italia esistono tutt'ora luoghi inesplorati che sono, paradossalmente, i più antichi e arcaici: in questo caso dimenticati territori della Calabria. Posti schiacciati dalla civiltà dei consumi, cose e volti che ignoriamo o che abbiamo deciso inconsciamente di non saper vedere. La macchina da presa di Michelangelo Frammartino ci obbliga a spalancare gli occhi, attraverso un linguaggio rigoroso e antinarrativo, fatto di lunghi piani sequenza di ostica (per i più) corporalità, dello stato degli uomini e del tessuto delle cose e degli ambienti che li circondano. Nella sua opera prima, "Il dono" (2003), l'essere umano è schiacciato dalla solitudine e dalla cattiveria del prossimo, tanto che nel suo secondo film, "Le quattro volte" (2010), finisce con lo sparire, cosi' da obbligare lo sguardo dell'autore a una impassibile ritualità dei gesti della vita quotidiana. L'uomo si fonde e si confonde con animali ed elementi naturali. Una ciclicità che si gonfia fino a farsi rappresentazione degli stadi pitagorici (minerale, vegetale, animale e razionale) dell'intero percorso di un'anima. (D.C.)
Bahman Ghobadi (Baneh, 1 Febbraio 1969)
Giovane promessa al suo debutto nel 2000 - all'epoca de "Il tempo dei cavalli ubriachi" aveva all'attivo solo qualche documentario - possiamo ancora considerarlo tale intanto perché l'età anagrafica è clemente, ma soprattutto perché da allora ha cambiato pelle, oltre che residenza. Esule da un Iran più autoritario che mai, Bahman Ghobadi è il portabandiera di un cinema sempre più in grado di parlare ai giovani (cineasti e non) di un Medio Oriente in fermento. Un punto d'arrivo per un percorso che volge sempre di più alla commedia, come dimostrano i film intermedi tra i "Cavalli ubriachi" e "I gatti persiani", inediti in Italia. Nell'ultimo lungometraggio ribollono una vitalità e una voglia di occidentalizzazione che sfociano in tragedia solo per l'opposizione di istituzioni sclerotizzate, ma che testimoniano, con una sfrontatezza che colloca l'autore agli antipodi dello schivo Jafar Panahi, della vitalità e della brama di cambiamento di una generazione che non si piange addosso, che non ha più tempo di aspettare e che rivendica l'affermazione di sé, anche attraverso la musica. Ma che pare aver trovato nel cinema uno dei suoi portavoce. (C.Z.)
Mamoru Hosoda (Nakaniikawa, 19 Settembre 1967)
Mamoru Hosoda, regista dei "Digimon", per molti ritenuto soltanto come un succedaneo adulto dei "Pokemon" (in realtà anche più complesso e drammatico), era dentro il microcosmo dello Studio Ghibli a inizio anni 2000 e deputato a divenire l'erede di Miyazaki Hayao e a esordire con il progetto de "Il castello errante di Howl". Ma entrato in contrasto col padre-padrone-fondatore dello Studio è finito defenestrato e ha diretto qualche anno più tardi "La ragazza che saltava nel tempo". L'anime, di ambientazione liceale, ha la particolarità di definire i patemi adolescenziali in base alle modifiche temporali create dai "salti" della protagonista, e diventa in breve tempo uncult, permettendo a Hosoda di realizzare un film ancora più curato e per certi versi più ambizioso: parliamo di "Summer Wars", opera che rilegge lo scontro tra forze contrapposte della contemporaneità tra saldature familiari e una pericolosa realtà virtuale (impostata a metà tra Facebook e Second Life) che, se controllata da altri, potrebbe creare non pochi danni al "real world". Due anime di formazione che giocano con la tradizione proiettandosi nel mondo del futuro, attraversati da vene malinconiche se non proprio cupe Hosoda ha dalla sua uncharacter design già riconoscibile e la capacità costruire realtà alternative dal nitore astrale. Forse non ancora approdato alla piena maturità artistica, Hosoda è però in continua crescita e potrebbe presto arrivare il film che lo imporrà a un pubblico più vasto di quello degli appassionati. (G.G.)
Giorgos Lanthimos (Atene, 1973)
Cineasta appartenente a una nuova generazione di autori provenienti dal teatro e dal cinema greco, Lanthimos è già attivo poco più che ventenne negli anni 90 dirigendo spot pubblicitari e video di una compagnia di teatro danzante. Nel 2001 esordisce con la commedia “My best firend” co-diretto da Lakis Lazopoulos. Ma è “Kinetta” la sua personale opera prima, dove inizia, insieme al direttore della fotografia Thimios Batakis, una riflessione sempre più profonda sulla semantica della riproduzione di frangenti di vita vissuta (o immaginata) in contesti finzionali e sulla loro manipolazione cinematica. Se “Kinetta” appare come un esperimento che cade nel solipsismo autoriale irritando facilmente, è indubbio che “Dogtooth” porti già a compimento le istanze teoriche del giovane regista greco con la grottesca fotografia di un gruppo familiare in un interno, che vive come se non ci fosse esterno: un mondo sottovuoto le cui barriere vengono divelte dalle muscolari immagini cinematografiche fagocitate dagli occhi dei figli-vittime. Il terzo lungometraggio lancia Lanthimos tra le più luminose promesse del cinema europeo, vincendo la Camera d’or al Festival Cannes e ottenendo una nomination agli Oscar. “Alpeis”, in concorso a Venezia 2011, prosegue il discorso sulla semantica della verità dell’esistente, ritornando a operare sul corpo dell’attore e su come si posiziona la performance attoriale nella realtà, che era già un tema tangente a “Kinetta”. Un cineasta giovane dal talento cristallino e dalla grammatica spietata è nato. (G.G.)
Duncan Jones (Beckenham, 30 Maggio 1971)
Correva l'anno 2009 quando una ventata d'aria fresca investiva il mondo della fantascienza col lungometraggio "Moon", ad apporre la firma era l'esordiente regista Duncan Zowei Haywood Jones, in due parole Duncan Jones, figlio d'arte del poliedrico musicista David Bowie. Jones si dimostra sin da questa sua opera prima padrone del linguaggio cinematografico: tempi, spazii, dialoghi raggiungono l'elementare grado zero e vengono utilizzati dal regista inglese in modo essenziale ed incisivo. Una buona fantascienza non dipende tanto dal denaro investito negli effetti speciali quanto nella validità delle idee a monte del progetto e Jones lo conferma anche nel suo secondo lavoro "Source Code" (2011) manipolando e giocando con la struttura narrativa del film. La solitudine dell'individuo umano è il perno attorno a cui ruota la poetica di Jones la solitudine che proietta i suoi protagonisti nelle profondità stellari o in quelle temporali dove si scatenerà una lotta per la conquista della loro identità, ultimo territorio di frontiera del possibile. (S.P.)
Pablo Larrain (Santiago del Cile, 19 Agosto 1976)
Nel corso degli ultimi anni, il giovane cileno Pablo Larrain ha pervaso la scena cinematografica internazionale rendendo subito inconfondibili etica ed estetica delle sue opere. Dopo l'esordio di "Fuga" in cui musica e pazzia convergono nel mondo dell'artista, Larrain realizza nell'intervallo di un paio d'anni una duplice testimonianza del suo Paese, quel Cile dilaniato dall'economia e da una società indifferente e pronta a tutto, a cavallo della dittatura pinochettiana degli anni settanta.
"Tony Manero" (presentato a Cannes e vincitore del Torino Film Festival) storpia il modello reso celebre da Travolta per raccontare la voglia di riscatto di un analfabeta che segue indefesso le orme del suo mito, alla ricerca di una identità personale che trova perfettamente le coordinate per tratteggiare l'identità di una nazione intera. Crimini indifferenti e silenziosi trovano poi maggiore enfasi in "Post Mortem", in cui il golpe cileno del settembre 1973 fa da sfondo all'ambigua e insana storia d'amore tra un funzionario dell'obitorio e una ballerina anoressica. I tempi morti di Larrain acuiscono il distacco tra realtà e alienazione allo stesso modo in cui i suoi protagonisti reagiscono ai soprusi e all'orrore. Avvolgendoli in un disinteresse gelido e malato, figlio della propria epoca. (M.D.S.)
Pietro Marcello (Caserta, 1976)
L'arte di Pietro Marcello non si concede facilmente, ma è il frutto di un'epifania misteriosa e rapsodica, destinata a rivelarsi attraverso momenti successivi che si stratificano nella coscienza dello spettatore per poi emergere in un'esplosione caleidoscopica che investe anima e corpo. Nel far questo Marcello mette in gioco il cinema in tutte le sue possibilità e lo fa utilizzando le forme del documentario, anche se la definizione è limitativa per opere che nella loro libertà creativa e contenutistica trascendono qualsiasi tentativo di catalogazione, e attraverso un montaggio poetico che mette in circolo senza soluzione di continuità il girato con materiale di repertorio ("La bocca del lupo" ma anche "Il silenzio di Pelesjan", 2011), associando le immagini secondo assonanze emotive o corrispondenze di segno diverso, come l'evocazione di una parola oppure i rumori della città, e ancora facendo entrare in dialettica passato e presente. Assieme a queste caratteristiche bisogna aggiungere l'importanza della componente sonora, utilizzata non solo come commento emotivo ma anche nella sua funzione catartica, capace di congelare o esaltare i vari passaggi della storia, e dell'elemento pittorico, presente soprattutto nei primi due film, "Il passaggio della linea" (2007), biografia di una nazione desunta dal punto di vista di chi l'attraversa da nord a sud a bordo di un treno, e con riferimenti caravaggeschi e dei pittori fiamminghi, nel vincitore del Torino Film Festival "La bocca del lupo" (2009) storia di due umiliati e offesi che si riscattano dal mondo grazie alla forza del loro amore. Una ricchezza di cui Marcello si serve per rendere al meglio la complessità di un legame, quello tra l'uomo ed il territorio, che ancora una volta diventa il punto di partenza per qualsiasi ricognizione inerente all'umano. Un modello confermato anche dalla partecipazione del regista all'opera collettiva "Napoli 24" (2010), che si affianca all'anima più cinefila, quella che non smette di studiare registi di riferimento, da Pelesjan a Bellocchio di cui il regista ha curato "Marco Bellocchio: Venezia 2011", breve omaggio celebrativo in occasione del premio alla carriera assegnato all'artista piacentino. Ultimi traguardi di una carriera ancora giovane ma già densa di significato. (C.C.)
Steve McQueen (Londra, 1969)
Quando un semi-sconosciuto di nome Steve McQueen (ironia della sorte) si presenta a Cannes vincendo a mani basse la Camèra d'Or per la miglior opera prima, la curiosità non può essere elusa tanto facilmente. Con "Hunger" il regista britannico attira su di sé gli elogi della critica realizzando un film indipendente algido ed essenziale sulla vita del militante dell'IRA Bobby Sands. A ridosso di un dramma potente e mai retorico, il regista sfoggia le sue indiscusse doti di artista (McQueen ha realizzato numerose opere di scultura e di fotografia nelle più prestigiose mostre d'Europa) realizzando così una piccola grande gemma d'autore. La fusione tra dramma e arte raggiunge l'apice nel suo secondo e controverso lavoro, "Shame", storia di un uomo malato di sesso in cerca di redenzione. Opera artistica e intimamente esistenziale, coraggiosa e ambiziosa (senza per questo risultare mai presuntuosa e offensiva), "Shame" naviga tra società e politica non scavando nella retorica ma imponendosi sull'enfasi delpathos e delle emozioni. In seguito al successo ottenuto, la distribuzione italiana si è convinta delle qualità registiche di McQueen e ha deciso, dopo ben quattro anni, di far approdare in sala anche la sua opera d'esordio, ad oggi ancora inedita e colpevolmente ignorata. (M.D.S.)
Corneliu Porumboiu (Vaslui, 14 Settembre 1975)
Parliamo del trentasettenne regista di Vaslui per parlare del cinema romeno, che merita un discorso complessivo. Avremmo potuto scegliere - tra gli altri - Cristian Mungiu, ma un vincitore di Cannes è un autore già affermato. Specie se ha anche qualche anno in più del collega. Come li ha Cristi Puiu, altro alfiere di questa cinematografia che è una vera e propria scuola (ormai tra le poche al mondo), un sistema-paese in cui non si producono molti film (gli ultimi dati dicono 18 in un anno, di cui 7 coproduzioni) ma che può contare sulla costante collaborazione di più o meno gli stessi uomini, che si scambiano le mansioni, realizzano film collettivi ("Racconti dell'età dell'oro") e si influenzano a vicenda fino a raggiungere una sostanziale unità di intenti. Vedere per credere le ultime, rigorose fatiche di Puiu e Porumboiu, "Aurora" e "Politist, Adj": tempi dilatati, drammaticità raffreddata ma latente, nero umorismo pessimista, molto più asciutto che nelle precedenti opere degli stessi autori: l'ottimo "La morte del signor Lazarescu" e lo spassoso e bislacco "A est di Bucarest", camera d'or 2006. Altro film, come i "Racconti" e i "4 mesi" di Mungiu, che riflette sul passato socialista e le persistenti miserie del presente, tema obbligato e ricorrente, a quelle latitudini. Quei luoghi dove il cinefilo odierno deve, prima o poi, necessariamente transitare. (C.Z.)
Céline Sciamma (Pontoise, 12 Novembre 1980)
In "La nascita delle piovre" una delle protagoniste litiga con la cassiera del fast food - una giovane ragazza occhialuta - per farsi dare un happy meal. La cassiera è Céline Sciamma che nel 2007 con quel primo film mette in scena la tesi di laurea in sceneggiatura, finisce dritta alla Quinzaine des realizateurs e viene candidata al César come miglior opera prima Nel 2011 il secondo lungometraggio, "Tomboy", è quello del successo, con 300.000 spettatori in Francia, distribuzione internazionale e primi premi ai festival gay di tutto il mondo. Sì perché il tema di entrambi i film è l'ambiguità' delle identita' di genere, nell'infanzia in "Tomboy" e nella prima adolescenza ne "La nascita delle piovre". Tema trattato con sensibilità e maestria non solo in fase di script ma anche e soprattutto nella direzione dei giovani attori. La messa in scena è originale e piacevole, con una cura nella definizione della quotidianità degli ambienti (i condomini, la cameretta) e degli oggetti (il vestito, la mela) che è seconda solo alla cura con cui si occupa dei corpi e del loro toccarsi, in un abbraccio tra sorelle, in un primo bacio, in un fallo a calcetto. La conferma definitiva la avremo se nel prossimo film riuscirà a mantenere questo stile e questo livello mettendosi alla prova di un nuovo tema. (A.M.)
Albert Serra (Banyoles, 1975)
Quando si vede un film, l'interazione tra schermo e spettatore passa attraverso lo sguardo. Che può confluire immediatamente in un sentimento o invitarci a esplorare ciò che c'è dietro all'opera. Il rapporto tra sguardo e spettatore nel cinema di Albert Serra è protratto fino allo spasimo. Il dilemma non è quello di vedere cosa e quando, ma di costringerci a stabilire un' osmosi al rallentatore, in modo da rendere baricentro dell'azione un soffio di vento, un dialogo di nulla importanza, certamente il paesaggio. Serra adopera il Don Chisciotte - "Honor de cavallieria, 2006 - o i Re Magi - "Il canto degli uccelli", 2009 - come fossero entità astratte, fuori dall'epoca in cui abbiamo imparato a saperli, ma assolutamente lontani da riferimenti contemporanei. E se nel primo film l'uomo è ripreso a distanza ravvicinata, la stanchezza che affligge Chisciotte e Sancho, contamina la sua opera seconda: dal colore al bianco e nero, dalla im-mobile fisicità a fisse distanze siderali. I Re Magi entrano in scena quando vogliono e dicono ciò che vogliono (poco), indipendentemente da un obiettivo fermo, tanto da farne una visione dell'eterna attesa. (D.C.)
Denis Villeneuve (Trois-Rivieres, 3 Ottobre 1967)
Apprezzato fin dai suoi primi lungometraggi, dal debutto "Un 32 août sur terre" nel 1998 che gli valse la candidatura agli Oscar come miglior film straniero, a "Maelstrom" che lo vide partecipare a svariati festival, Denis Villeneuve rappresenta il nuovo corso del cinema canadese. Se fin qui i personaggi di Villeneuve sono costretti a fare i conti con loro stessi, le responsabilità e la solitudine, nelle opere successive il regista metterà a punto questa inclinazione. Sia in "Polytecnique", in cui un bianco e nero ansiogeno racconta la strage del dicembre 1989 presso la scuola Polytecnique di Montreal, sia ne "La donna che canta", che racconta di due fratelli alla ricerca delle radici perdute e la loro discesa negli inferi della Storia. Villeneuve costruisce una struttura geometrica con innesti thriller che dirompe di potenza e incisività, in cui il realismo duro e puro lascia il posto alla tragedia greca. Il regista canadese è destinato a dividere, ma la sua filmografia, anche se semi sconosciuta, merita una possibilità. (F.D.)
Bing Wang (Shaanxi, 1967)
Sì parlò molto, tra gli anni ottanta e in novanta, della quinta generazione di cineasti cinesi, i cui film arrivavano per la prima volta sugli schermi occidentali. Si parla meno della generazione successiva, la sesta, seppur essa sia quantomeno altrettanto significativa. Certo, non c'è un "Lanterne rosse", i film prodotti sono, se non ostici, poco accessibili al grande pubblico. Ma almeno due autori meritano la più alta considerazione. Se Jia Zhang-Ke ha raggiunto la gloria e le sale con il Leone d'oro "Still Life", Wang Bing è decisamente misconosciuto. Eppure si tratta di un cineasta formidabile. Documentarista tra i maggiori al mondo, ha realizzato un capolavoro debuttando nel cinema di fiction: "The Ditch". Ignorato dalla giuria veneziana, è non solo il film sui laogai che mancava, è anche la dimostrazione di uno stile personalissimo e già maturo. Essendo però inedito da noi, per conoscere Wang l'appassionato italiano è costretto ricorrere ai documentari passati su Fuori Orario. D'obbligo armarsi di tempo e pazienza: le tre ore a camera fissa di "He Fengimg" alla fine appassioneranno come un grande romanzo storico (si parla sempre delle repressioni maoiste). E l'interminabile, fluviale "Il distretto di Tiexi" dirà più sulla Cina di oggi che decine di saggi sul tema. (C.Z.)
Edgar Wright (Poole, 1974)
L'Inghilterra dell'ultimo decennio con Christopher Nolan, Steve McQueen, Joe e Edgar Wright (ma l'omonimia è casuale) non può certo lamentarsi dei suoi giovani registi. Il trentottenne Edgar a vent'anni aveva già girato la parodia di "Per un pugno di dollari" intitolandola "For a fistful of fingers" e nel 2004 firma la regia del cult di metà decennio "L'alba dei morti dementi". Nel frattempo si era dato da fare con film tv e la sitcom "Spaced" grazie alla quale era nata la collaborazione con l'attore Simon Pegg. Dopo "Shaun of the dead" che rilegge come sarebbe riuscito a fare soltanto il primissimo Mel Brooks gli zombie romeriani in chiave parodica e very british, continua a giocare coi clichè dei generi con l'action-thriller (con spruzzate western) in "Hot Fuzz". Ma queste due pellicole non sono semplici parodie, sono operazioni di ricostruzione filologica che hanno giustamente esaltato Quentin Tarantino e di prepotente rovesciamento (auto)ironico di universi cinematografici pop (il gore di "Shaun of the dead" è immesso in una cornice da commedia romantica). Non a caso è con "Scott Pilgrim vs. The World" che Edgar Wright realizza il capolavoro interno alla sua ancor breve filmografia: una fulminante e ludica avventura nel teen-movie in cui la regia di Wright fagocita il linguaggio del fumetto e segni grafici dei videogame, schiaffandoli in pellicola con un montaggio forsennato e accompagnati da una colonna sonora trascinante. Dopo aver co-sceneggiato l'ottimo "Le avventure di Tintin" diretto da Spielberg, Edgar Wright non ha fatto sapere quale sarà il suo prossimo progetto anche se numerosi fan attendono con impazienza la fine del Three Flavours Cornetto Trilogy con l'annunciato "The World's End" (che segue a "Shaun of the dead" e a "Hot Fuzz"). (G.G.)
Joe Wright (Londra, 8 Giugno 1972)
Estro e ambizione sono le caratteristiche del londinese Joe Wright che, dopo aver macinato gavetta in televisione e video musicali, ha esordito dietro alla macchina da presa nel 2005 allestendo con risoluta sicurezza e sorprendente maturità la seconda rappresentazione cinematografica di "Orgoglio e pregiudizio". Dopo il gran successo di critica e pubblico, Wright conferma la sua predilezione per i soggetti autoriali. "Espiazione", forse il punto più alto raggiunto dal giovane regista britannico, è un dramma vivissimo in cui cinema e letteratura si attorcigliano a vicenda dando vita a un'intensa storia d'amore. Impossibile non rimarcare nel cinema di Joe Wright le influenze del connazionale David Lean, tra epopee storiche e adattamenti letterari che mettono in risalto uno stile pittorico e una regia virtuosa, estetica, attenta ai dettagli. Gli ultimi due lavori si discostano in parte dai caratteri d'esordio: "Il solista" e "Hanna" abbandonano infatti l'atmosfera del film in costume. E se il primo rappresenta un acuto minore, il secondo mantiene tutta la freschezza visionaria e tutto il genio creativo del regista, in un action movie racchiuso tra i meccanismi di una fiaba. L'amore per l'adattamento dei più grandi classici letterari è confermato dall'arrivo in sala (5 ottobre 2012) del tolstojano "Anna Karenina", operazione che segna un ritorno alle origini di questo talentuoso regista. (M.D.S.)