"I don't want you to buy into all the youthful adventure bullshit"
"Why?"
"Because it's a myth"
"A myth of what?"
"Of being a teenager"
David Robert Mitchell, all'esordio al lungometraggio, compie, fin dalla caratterizzazione della maggior parte dei protagonisti (interpretati in maniera generalmente efficace), una scelta anomala, evitando di porre al centro delle intricate vicende del film sia i preadolescenti tipo del teen movie anni '70 e '80 sia i diciassettenni (o giù di lì) delle attuali opere di target young adult, optando invece per chi è appena alle porte dell'adolescenza o la sta ormai abbandonando definitivamente, così da fornire dei punti di vista soggettivi sull'adolescenza, caratterizzati rispettivamente dall'attesa e dall'entusiasmo (ma occasionalmente anche dal dubbio) e da una velata ma onnipresente malinconia. Tale scelta permette al giovane regista di mostrare abitudini e rituali del mondo adolescenziale americano in un'ottica critica e che punta a svelarne contraddizioni e mitologie. Una prospettiva non certo nuova al teen movie di matrice statunitense ma che Mitchell dimostra di saper adottare con con un'eleganza e un'intelligenza non così frequenti nel suddetto ambiente. Infatti né le prevedibili canzoni pop-folk di matrice indie né la scelta di sviluppare la narrazione in maniera lenta e divisa in più linee narrative che continuamente e spesso casualmente s'intersecano e si separano debbono essere liquidate (solo) come vezzi tipici di certo cinema americano ma vanno riconosciute come alcuni degli strumenti utilizzati da Mitchell per esporre e decostruire i topoi del genere.
Similmente a
"It Follows", che sarà ancora più drastico nella rielaborazione del genere, "The Myth of the American Sleepover" va per l'appunto considerato come il tentativo di creare una (definitiva ?) decostruzione del
teen movie e per la precisione del sottogenere
coming-of-age che viene sviscerato in tutti i suoi tratti topici e proposto in una versione non casualmente "raffreddata" e "autoriale". Per questa ragione il film può essere tranquillamente considerato non solo un'analisi del "mito adolescenziale" ma anche una rielaborazione analitica del
mito dello stesso cinema adolescenziale che nella presente opera viene ridotto ai minimi termini e, pur rispettandone tutti i tratti tipici, compresi gli
happy ending (questo perlomeno prima che il successo di film come
"Colpa delle Stelle" provocasse un parziale cambiamento del paradigma), viene mutato in un piccolo gioiello di autorialità indipendente. Il fatto che questa rielaborazione del genere non sia fatta all'insegna di un giocoso post-modernismo à la
Rodriguez o à la
Wright ma piuttosto assumendo come lontano modello, con le debite differenze di stile e poetica, la continua ricodificazione dei generi di
Stanley Kubrick ha fatto sì che essa sia quasi impalpabile ma al contempo radicale.
A questo punto non risulta così peregrina l'ipotesi che il cinema del giovane regista possa configurarsi come un tentativo di rielaborare, partendo da un genere evidentemente affine alla propria poetica e dalle sue sottocategorie più note, il concetto stesso di narrazione cinematografica nel cinema popolare americano. Lungi da puntare alla totale soggettivizzazione del narrato alla maniera di
Terrence Malick o alla compenetrazione tra vita vissuta e vita narrata del cinema di
Richard Linklater il (quasi) esordiente Mitchell opera sul concetto di
mito anche ad un terzo livello e restituisce alla narrazione il senso originale di
mythos, di sequela di avvenimenti archetipici di valore morale e di struttura non conclusa e recursiva ricorrendo all'inesorabile lentezza nella progressione, o sarebbe meglio dire sviluppo, delle rigorosamente acentriche vicende, alla creazione di una dimensione spazio-temporale definita (la Detroit contemporanea) eppure priva di coordinate e punti di riferimento fissi (come nell'adolescenza, d'altronde) e all'evidente frattura fra il realismo apparente dell'ambientazione e della trama e la natura eminentemente simbolica di tutto ciò che è presente in essi (basti pensare alla quasi totale assenza di personaggi adulti o alle direttrici narrative lungo le quali si giunge ai malinconici
happy ending).
Mitchell completa la decostruzione del
coming-of-age sommergendo, anche grazie alla fotografia dai toni cupi e alle eteree composizioni della colonna sonora, di malinconia le vicende dei suoi giovani protagonisti e in primo luogo il finale che, così come la vicenda stessa si era generata da sé senza un vero e proprio inizio, si spalanca sulla vita (o sul nulla ?), facendo insinuare una sottile tensione, pronta a conflagrare nell'esplosivo prologo di "It Follows".
La medesima tensione che caratterizza sia l'aprirsi a una giovinezza pieno di possibilità sia il malinconico riflettere sulle ormai immodificabili scelte del passato. Una melancolica tensione che è la quintessenza del dittico d'esordio di Mitchell così come dell'adolescenza stessa, mitica età dell'oro prima desiderata e poi rimpianta ma mai soddisfacente proprio perché ostinatamente proiettata verso il futuro e al contempo inesorabilmente legata al passato. Compendio di tutta la vita che è stata e che sarà che è, come ricordano i
Magnetic Fields nei titoli di coda,
"the saddest story ever told".
24/01/2016