"Dove va il presente quando diventa passato, e dov'è il passato?"
(Wittgenstein)
12 years
Doveva chiamarsi proprio così l'ultimo film di Richard Linklater, il regista texano con il gusto della steadycam. Poi, l'assonanza con il coevo "12 Years A Slave" lo ha portato a preferire "Boyhood", ma non si potrebbe parlare di questo film senza tenere conto di quei 12 years. Innanzitutto, dodici anni di lavorazione.
Il progetto che Linklater idealizza già negli anni 90 è dei più ambiziosi, e finanche dei più rischiosi. Perché richiede un cast e una crew di collaboratori che dovranno restare tali sino a un futuro remoto e senza la certezza del nero su bianco del vincolo contrattuale, ma in forza della più volatile fiducia reciproca. E ancora abbisogna di un produttore che creda fideisticamente alla concretezza del progetto. Una volta di più, esige un lavoro di post-produzione minuzioso e devoto per omogeneizzare il dispiegarsi dell'arco temporale in un unicum: il pericolo patchwork è più vicino che dietro l'angolo.
Dall'idea si passa alla realizzazione e nel 2002 Linklater comincia a girare. Così sino al 2012, lavorando sul set per qualche giorno ogni anno, in modo da apporre un pezzetto di vita per volta su pellicola - ebbene sì, il regista sceglie la celluloide per quella coerenza visuale che la continua evoluzione tecnologica del digitale non poteva dargli. Dopo un lungo casting ha scelto il protagonista ideale, è Ellar Coltrane, che allora ha sei anni e arriverà a compierne diciotto alla fine delle riprese; e insieme a lui ci sono Ethan Hawke, Patricia Arquette e Lorelei Linklater (figlia di Richard, allora novenne).
Nel 2013, "Boyhood" ha vinto l'Orso d'Argento a Berlino e, se pur compimento di una ricerca narrativa cominciata con "Slacker", passando per la (verbosissima) trilogia sulla coppia Hawke-Delpy, questo film ha un che di miracoloso e irripetibile. Sebbene possano essere considerati sulla stessa lunghezza d'onda il documentario-reality "Up" di Michael Apted, che segue la vita di quattordici bambini attraverso una serie ininterrotta di interviste fino al raggiungimento dell'età adulta, e il lavoro portato avanti da François Truffaut con il ciclo di Doinel; in "Boyhood", diversamente da quanto mai fatto prima, si rende cinematografica la temporalità e si sostanzia un ossimoro, arrestare il movimento.
L'essere è il tempo e il tempo è l'essere
Proprio il concetto di temporalità è il fulcro attorno al quale ruota da-tutta-una-vita la poetica di Linklater, e che qui assume una valenza immaginifica e archetipa. A essere racchiusi nel minutaggio di una pellicola corposa (2 ore e 45 minuti) non sono soltanto i cambiamenti fisici, più vistosi nei bambini che incedono verso l'adolescenza anziché negli adulti, né la progressione tecnologica o socio-politica [1] ma oltremodo l'evoluzione dei protagonisti in coda al fluire del tempo. Dal papà Mason che, dapprima marito e padre indisciplinato e giovanilista, tutto GTO e vita sregolata, evolve in genitore affettuoso e dialogante sino a conformarsi al modello di uomo borghese (addio GTO, benvenuto minivan). Esattamente quell'uomo che Olivia, dodici anni prima, avrebbe desiderato e che, se soltanto fosse stata più paziente - come avrà da dire l'ex-marito - probabilmente avrebbe fatto suo. E invece Olivia si ritrova da sola e confusa a sopportare il peso della responsabilità genitoriale. Il suo "tempo interiore" è l'incontro e scontro del dovere con la nostalgia, di quel momento in cui poteva anche leggere un libro e che è ormai incasellato nella sezione dei ricordi, protagonisti effimeri del flusso di coscienza à-la Virginia Woolf e di un tempo in cui il solo presente è il passato. Gli anni scorrono ed è diversa la donna che sta per diventare, premurosa a tal punto da far cambiare destino a un operaio senza troppe pretese. Mason jr e Samantha sono, invece, i figli che al seguito della mamma cambieranno casa e "patrigno" con la stessa frequenza e il passare degli anni seguirà la loro crescita esperienziale.
E' così che Linklater, come se avesse scolpito Heidegger nell'oggetto filmico, mostra che l'individuo non si realizza in sé stesso, ma ha un piede puntato nel domani, è un progetto, qualcosa che ha da compiersi attraverso lo scorrere del tempo. Ancora, cosa succede quando quel qualcosa si è compiuto? E' la domanda implicita e senza possibilità di soluzione che ci pone Olivia, tra le lacrime, quando Mason è pronto a lasciare casa.
"Boyhood" non racconta quindi una storia, ma la madre di tutte le storie: la vita. Quella che ci scorre addosso, quella che il tempo si porta dietro, quella fatta di istanti di cui non ci accorgiamo. Infine "Boyhood" è un film sull'inesorabilità del tempo, su ciò che scandisce fuggevolezza e non-ritorno[2]. Non è però un film per pessimisti, perché a persistere nella durata, sembra dirci nel finale, è la Bellezza immutata e immutabile.
[1] Il film è anche una testimonianza visuale dei cambiamenti della società occidentale. Dall'evoluzione tecnologica dei videogame alla diversificazione della musica di anno in anno (Britney Spears e Lady Gaga, Coldplay, Black Keys, Arcade Fire etc). Infine, i mutamenti politici sono evidenti, da Bush alla guerra in Afghanistan fino a Obama.
[2] Su questo difficilissimo tema, raggiunge l'apice del bello e terribile il finale di "Six Feet Under", che potete rivedere qui.
cast:
Patricia Arquette, Ellar Coltrane, Lorelei Linklater, Ethan Hawke, Tamara Jolaine
regia:
Richard Linklater
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
163'
produzione:
IFC Productions, Detour Filmproduction
sceneggiatura:
Richard Linklater
montaggio:
Sandra Adair