Il Signore disse a Satana: "Hai posto attenzione al mio servo Giobbe?
Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male".
Satana rispose al Signore e disse: "Forse che Giobbe teme Dio per nulla?" -
(Giobbe, 1, 8-9)
In apertura a un breve saggio sul cinema di Andrej Tarkovskij letto in chiave psicanalitica, Salvoj Žižek ricorda che "Jacques Lacan definisce l'arte stessa in riferimento alla Cosa: egli sostiene che l'arte in quanto tale è sempre organizzata attorno al vuoto centrale della Cosa impossibile e reale".
Pur lasciando da parte i risvolti psicanalitici riguardanti il "vuoto materno" cui il filosofo di Lubiana approda, l'idea lacaniana di una "cosa impossibile e reale", come centro gravitazionale attorno a cui l'arte orbita, mantiene ai nostri occhi la sua attrattiva e la sua seduzione.
Gli esempi portati all'interno del saggio sono già di per sé esaurienti nell'argomentare tale tesi: la grande formazione vulcanica in "Picnic a Hanging Rock" di Peter Weir, ad esempio, assume all'interno della narrazione il ruolo straniante e misterioso di questo Vuoto imprescindibile. Così fanno anche l'oceano sterminato di "Solaris" o la Zona aliena di "Stalker". Essi fungono da limite, sono l'inconoscibile attraverso cui la narrazione può costituirsi e verso cui i protagonisti sono sempre (e spesso incosciamente) attratti, pur in una tacita sensazione di peccato.
Accedere al vuoto della Cosa è per lo più impossibile e quando non lo è, c'è comunque una qualche autorità che ne vieta l'esplorazione. Ma è proprio in quella Cosa impalpabile e inesplorabile che si nasconde il segreto dell'essenza umana, cosicché essa è spesso (inconsapevolmente) la vera protagonista delle vicende: il reale motivo per il quale i personaggi si trovano in una determinata situazione e agiscono in un determinato modo.
La filmografia thriller-horror può facilmente appropriarsi di questo elemento sfruttandone il suo aspetto perturbante e ansiogeno. Il non-dicibile, il non-visibile e l'incomprensibile assumono sovente un ruolo preponderante in tale genere di film. Per offrire qualche esempio celebre, si pensi al fantasma del cimitero indiano o alla camera 237 in "Shining" di Stanley Kubrick, al mostro alieno ne "La Cosa" di John Carpenter (forse l'esempio più lampante) o alla madre di Norman in "Psycho" di Alfred Hitchcock e si pensi poi ai ruoli decisivi che tali elementi rivestono nello svolgersi delle vicende, pur rimanendo per lo più celati all'occhio dello spettatore.
L'ottima opera prima del regista canadese Robert Eggers si appropria di questa formula, costruendo una parabola horror sulle origini tribali delle prime comunità americane, regolate su una ben radicata tradizione religiosa e su credenze folkloristiche, sulla necessità di perseguire il bene per cancellare un peccato originale opprimente e sulla paura verso un Male sempre pronto a tentare anche lo spirito più integro e retto.
"The Witch", seguendo la lezione lacaniana, fa ruotare la struttura concettuale della sua opera attorno a elementi che dal punto di vista narrativo rimango occultati o vengono tutt'al più richiamati in maniera indiretta e su cui tuttavia l'attenzione dello spettatore è abilmente condotta: in primis, il Male radicale e potente, in grado di colpire l'uomo attraverso molteplici tranelli. Ma anche il timore di Dio che fa da sfondo alle intere vicende, che si legge nei volti dei protagonisti e nei dialoghi insicuri e balbettati. Tutti elementi che non hanno un volto concreto e riconoscibile, ma che posseggono ubiquità e che sono sempre, indubitabilmente, al centro dell'azione.
Tra i diversi personaggi si ha sempre la sensazione che ci sia un elemento ulteriore, che trascende le vicende e che al tempo stesso le domina. Un esistenziale impossibile da de-finire eppure reale e che assume di volta in volta significati diversi, ma mai univoci: Dio, il Diavolo, la fede, la paura, l'animalità, il dolore, la follia... persino la ribellione adolescenziale.
La storia di questa famiglia del New England, esiliata dalla colonia di appartenenza e costretta a vivere nella solitudine e nella preghiera, si avvicina come ambientazione e come atmosfera al "The Village" di Shyamalan. Anche qui è ben delineato il confine tra la casa quale luogo sicuro e protetto e la foresta (ecco la Cosa inesplorabile), dimora di mostri, streghe e altre creature demoniache. Ma se quello assumeva un carattere fortemente politco, evidenziando il timore comune che la comunità deve necessariamente creare per mantenere uniti i suoi membri, l'opera di Eggers si sofferma sul piano metafisico, analizzando il trasporto umano verso la sfera del religioso e criticando il bigottismo e il dolore a cui ciò può portare, qualora la figura del Dio universalmente buono confluisca in quella di un padre-padrone da venerare e temere. Tutto ciò in uno scenario che rimane propriamente fantastico, con streghe, esorcismi e novelle "notti di Valpurga" mostrate allo spettatore (seppur in funzione metaforica).
Ma la grandezza che Eggers dimostra sta nel riuscire a creare uno sfondo dall'impostazione classica (contrassegnato da una contrapposizione manichea tra Bene e Male, casa e foresta, preghiera e perdizione) e a instillare poi nel pubblico un sentimento che lo porti a domandarsi da quale parte dimorino realmente la corruzione e il vizio e a criticare quel tipo di società che egli stesso disegna, in cui il confine tra fede e follia masochista è più che mai sottile.
La narrazione si apre con l'improvvisa sparizione del più giovane membro della famiglia, rapito forse da un lupo, forse da una strega: la casualità e la ferocia di una natura malvagia (che ricorda "Antichrist" di Von Trier) toccano qui le sorti di una famiglia devota e pia, incrinando gli equilibri domestici e facendo cadere i suoi membri in un vortice di sospetto e paranoia. L'incapacità di accettare un "nulla" fatalista da parte di chi si è sempre affidato a una visione escatologica, cui si aggiunge la necessità di ricercare un capro espiatorio che fornisca una causa al tremendo accaduto, porta in breve tempo la madre e i fratelli a sospettare della purezza della figlia, su cui tra l'altro spuntano i primi segni della pubertà (dettaglio che sicuramente Lacan e Žižek non lascerebbero al caso).
Ma oltre alla problematica dell'elaborazione del lutto (che avvicina questo "The Witch" al poco riuscito e altrettanto poco originale "The Boy", ora in sala) sono molte le chiavi di lettura che l'opera offre, caratteristica che la rende uno dei migliori prodotti di genere degli ultimi tempi.
Se dal punto di vista contenutistico la pellicola è ricca di stimoli e riflessioni, anche il lato tecnico è ben curato e superiore rispetto alla media.
Lodevole in primo piano il lavoro sulla fotografia che, utilizzando un'illuminazione naturale, contribuisce in maniera preponderante alla costruzione di un'atmosfera raggelante e apatica, che rispecchia il carattere dei protagonisti, nella quale la vivacità e la vitalità lasciano il posto a una freddezza depressiva e avvilente. Ma anche il sapiente utilizzo dei piani mette in luce una certa artisticità tecnica, con il passaggio da piani d'insieme studiati e geometrici (si veda la scena della preghiera che precede la cena, in cui la figura del padre, al centro della tavola, ricalca la iconografia del Cristo) a campi lunghi in esterno che si impongono all'occhio come perfetti contenitori estetici di tempo sospeso.
In un panorama horror che in Occidente sempre più spesso sacrifica l'artisticità all'intrattenimento fine a se stesso e che basa tutta la tecnica su cliché ed effetti registici ormai da tempo abusati (mokumentary, false soggettive e jump scares in primis), "The Witch" si distingue come un prodotto più che notevole, in grado di sintetizzare cinema di genere e autorialità in una soluzione matura, completa, ma capace di intrattenere tipi di pubblico eterogenei.
cast:
Anya Taylor-Joy, Ralph Ineson, Kate Dickie, Julian Richings
regia:
Robert Eggers
durata:
90'
produzione:
Parts and Labors, RT Features, Rooks Nest Entertainment, Code Red Productions, Scythia Films
sceneggiatura:
Robert Eggers
fotografia:
Jarin Balschke
scenografie:
Craig Lathrop
musiche:
Mark Korven