Presentato a Cannes 2009, "Antichrist" è stato sicuramente uno dei film-evento del festival, facendo molto discutere e spaccando il pubblico della proiezione stampa, divisosi fra chi se la rideva, fischiava e strepitava, e chi applaudiva. Fiumi di inchiostro sono stati già versati per celebrare la fine artistica di
Lars von Trier, che ha sfornato la sua "opera più misogina, più crudele, più di cattivo gusto e - naturale quando si parla del danese - inutilmente provocatoria".
Le provocazioni dei film di von Trier sono sempre risultate tali, poiché ciascun elemento veniva calcolato matematicamente, con l'intenzione preventivata di spiazzare il pubblico. Quando invece questa sua ultima fatica arriva ai titoli di coda, ciò che appare subito evidente è che Lars non aveva poi così tanta voglia di scherzare. Proprio lui, sempre sprezzante, amante dello sberleffo, delle storie così estreme da risultare paradossali, porta al definitivo cortocircuito il suo cinema. Per la prima volta si ha la sensazione che il film sia sincero, non calcolato, ma impulsivo, sensazione confermata dallo stesso regista, che ha inoltre confessato di aver girato questo film dopo aver attraversato una crisi depressiva, per esorcizzare il brutto momento. Il cinema, quindi, come lettino dell'analista, come sfogo degli istinti e delle paure più ancestrali.
Sarebbe però troppo facile e deviante soffermarci solo su questi caratteri - come è già stato fatto - poiché l'intenzione di von Trier non era certamente quella di fare della psicanalisi da quattro soldi, piuttosto quella di fare un punto della situazione, e di riflettere non solo sulla sua vita ma, attraverso un film, sul suo cinema passato, per poter andare avanti e ricominciare. Operazione complessa, che produce un film popolato da antitesi che si annullano, imperfetto, coraggioso demolitore anarchico, a tratti magicamente ipnotico e a tratti involontariamente ridicolo. Sempre disperato. Una pellicola dal grondante fascino oscuro che ha diviso e continuerà a dividere, in quanto le mezze misure non possono essere ammesse.
Il film va vissuto come si può vivere un incubo malsano, abrasivo, dal quale è difficile risvegliarsi e dal quale ci si riprenderà lentamente, col respiro in affanno.
Ci ritroviamo di fronte a una grande architettura visionaria, una misticheggiante allegoria sull'Avvento già avvenuto dell'Anticristo, dove, in questa moderna "sacra famiglia", ogni cosa viene ribaltata in negativo: la Madonna-strega, che spinge idealmente il figlio
a cadere; i Re Magi/Tre Mendicanti portatori di Dolore, Ansia e Disperazione; l'uomo-padre, neo-Adamo caduto in un Giardino/Bosco dell'Eden (che sembra partorito dalla mente di Hieronymus Bosch), che scivola dentro il grande caos della Natura Matrigna. Natura, forza centripeta di inaudita e schiacciante potenza, che ingloba e deforma, mettendo sotto assedio le anime e i corpi dei due protagonisti in lotta fra loro: una guerra dei sessi attraverso il sesso, unico linguaggio comune, primordiale e violento.
"Antichrist" è un "ultimo tango" ballato all'Overlook Hotel, una
visio malata e perversa sulla frantumazione della ragione, sulla decomposizione del corpo, sull'incomunicabilità e lo sfaldamento dell'universo-famiglia destinato ad autodivorarsi tra gli inquietanti sussurrii della Natura.
Un'opera maledetta, che (si) maledice, rappresentante, da una parte, uno "Shining" capovolto, pervertito, viscerale - laddove il film
kubrickiano era perfettamente giocato su millimetriche (a)simmetrie, sul prosciugamento del sangue che doveva "(con)gelare" e non "(de)fluire" - e, dall'altra, la versione
gore di "Ultimo tango a Parigi", con il sesso come mezzo autopunitivo, volto non alla soddisfazione del piacere della carne ma alla sua mutilazione. Una delirante (ir)realtà riconfigurata in morboso incubo
lynchiano, rarefatto viaggio nell'inconscio ed epidermica esplorazione purgante sangue.
E più che le sequenze da
torture porn, a sconvolgere, è il massacro sadomasochista a cui assistiamo e di cui siamo (in)volontari protagonisti, insieme ai magnetici e straordinari Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg (penalizzata dal doppiaggio), che si dann(an)o completamente. Le lotte sono molteplici e si combattono su più campi: il distaccato e razionale Dafoe/von Trier che, mettendo impietosamente a nudo tutte le sue fobie e le sue nevrosi, tenta di resistere alla Donna/Madre Natura; von Trier che prova a strangolare il suo pubblico; Pubblico/Natura/Femmineo che alla fine ritorna e in qualche modo travolge la bolsa e inconsistente ragione del piccolo uomo.
Siamo al
résumé del cinema
vontrieriano: in cento minuti si condensano tutti gli stili e gli stilemi del regista danese, magnificati dalla fotografia di Anthony Dod Mantle, che alterna onirismo estetizzante a sporco iperrealismo. "Antichrist" continua nel solco del film teorico già percorso con lo splendido "
Il grande capo", opera geniale e sottovalutata, che corrodeva la grammatica cinematografica, il genere, i classici rapporti regista-attore, autore-spettatore, demiurgo-opera, in un'operazione raffinata e prospera di arguzie, mentre qui tutto si riduce ai minimi termini, fino al grado zero.
Verrebbe quindi naturale sottotitolare "Antichrist" come "l'ultimo film di Lars von Trier": una summa suicida che deflagra senza lasciare scampo né a chi vede né a chi viene visto. Solo facendo tabula rasa si può ricominciare.
26/05/2009