Per chi abita a Los Angeles la San Fernando Valley è una sorta di muro di Berlino che divide il sogno dalla realtà. Da una parte, oltre l'orizzonte che coincide con il mare c'è Hollywood e con lei quella parte di mondo che è riuscito a farcela. Dall'altra, le strade e i sobborghi di un'esistenza vissuta in avanscoperta, troppo vicina al paradiso per non continuarlo a desiderare ma definitivamente lontana per potervi partecipare. Insomma una specie di ferita che il cinema americano indipendente ha metabolizzato come il principio di una sconfitta da utilizzare per incominciare a parlare di esistenze quotidiane e poco eroiche. Segni di un minimalismo che avevamo imparato a conoscere soprattutto negli anni Ottanta con i libri di Raymond Carver e che il regista americano ripropone con il suo "Starlet", storia di un'amicizia trasversale nata nel segno del caso e di una montagna di soldi che la ventunenne Jane trova all'interno del thermos acquistato da Sadie, una vecchietta ottantacinquenne ancora in salute ma di poche parole. La scoperta del denaro spinge la ragazza verso l'anziana signora nel tentativo di sopire il senso di colpa derivato dall'improvvisa ricchezza. Un incontro fatto di diffidenza, pregiudizi ma che riserverà ad entrambe amicizia e scoperte sorprendenti.
Se le capacità tecniche a questo livello sono quasi scontate e, di queste, Sean Baker ne ha a sufficienza, soprattutto nella disinvoltura con cui riesce a seguire le vicende dei suoi personaggi; più difficile era invece non scadere nella retorica, visto che la drammaturgia forte di "Starlet" a un certo punto, dopo aver proceduto per sottrazioni e depistaggi, volti soprattutto a inserire la vicenda in un quadro di sobrio intimismo, ci porta all'interno dell'industria pornografica dove Jane lavora e, in cui, insieme all'amica, tenta di diventare un'alternativa al divismo da Oscar delle più famose coinquiline hollywoodiane. Un ribaltamento di prospettive improvviso, con dettagli di accoppiamenti e parti anatomiche proposti di sfuggita ma senza alcuna censura, che diventano il contraltare al viso e ai modi da ragazza della porta accanto che avevamo imparato a conoscere nello sguardo e negli atteggiamenti di Jane. Un cambio di marcia che Baker riesce a gestire senza alcun voyeurismo - nel film i rapporti sessuali vengono filmati alternando i corpi degli attori con le facce distratte della troupe sempre impegnata a occuparsi di qualcos'altro - e in una direzione che, oltre a rendere più tangibile l'umanità dei personaggi, ci dà il senso dello smarrimento che accompagna la vita delle due donne.
Se il tono del film è certamente drammatico, "Starlet" è pure capace di offrirci momenti di dolcezza grazie alla presenza del cagnolino di Jane, Starlet appunto, da cui il film prende il nome e che il regista usa con un doppio significato: il titolo è anche lo status-symbol derivato dal lavoro della sua proprietaria. Per certi versi sono proprio le azioni del simpatico animale ad aiutare entrambe le parti a far venire fuori quei non detti che serviranno a cementare l'insolito sodalizio. Senza dimenticare la direzione degli attori non si può non far menzione della bella e brava protagonista già predestinata ai tempi della culla (giunge voce infatti che Dree Hemingway sia una pronipote del famoso scrittore) ed oggi in grado di brillare per innocenza e sensualità di fronte agli occhi della cinepresa. Per lei si pronostica un futuro pieno di prospettive, magari aiutato da una vittoria come migliore attrice in questo festival. La sua prova le dà più di una chance.
08/08/2012