"God save thee, ancient Mariner!
From the fiends, that plague thee thus! -
Why look’st thou so?" – With my cross-bow
I shot the ALBATROSS.
(S. T. Coleridge, “The Rime of the Ancient Mariner”)
Che Robert Eggers fosse un cineasta su cui è bene tenere gli occhi puntati era un fatto già chiaro a molti dopo la visione di “The VVitch”, la sua pellicola d’esordio: un folk-horror che mescolava la storia e il fanatismo religioso delle prime comunità d’America con riferimenti culturali, letterari e cinematografici, inquadrando tutto questo materiale in una cornice estetica studiata nel dettaglio.
Dopo il successo del film, Eggers aveva annunciato l’ambizioso progetto (ancora in corso) di girare un remake di “Nosferatu il vampiro”, il capolavoro espressionista di Friedrich W. Murnau considerato unanimemente come una delle pietre miliari della storia del cinema horror. Non deve allora stupire il fatto che questo suo secondo film, intitolato “The Lighthouse”, possa apparire come un esercizio di stile, come uno studio, come una ricerca estetica che va a perlustrare le origini della tradizione gotica.
Il giovane Ephraim Winslow (un Robert Pattinson sempre più in gamba), in fuga da un passato burrascoso che si chiarirà nell’arco della narrazione, decide di mettersi per mare e di raggiungere una piccola isola al largo dell’oceano, dove per quattro settimane dovrà lavorare come aiutante del vecchio guardiano del faro: lo scorbutico Thomas Wake (Willem Dafoe). Il suo predecessore sembra essere morto in circostanze misteriose, alle quali inizialmente Winslow non sembra dar troppo peso. Ma dopo che una terribile tempesta lo imprigiona nell’isola, la solitudine e l’abuso di alcol inizieranno a trascinare il protagonista in un turbine di maniacale follia.
La trama, in apparenza semplice, si rivela, a un'analisi più precisa, una miniera di citazioni e di richiami alla letteratura marinaresca dell’Ottocento inglese e americano (il medesimo periodo in cui è ambientata la vicenda) e lo stesso linguaggio con cui è scritto il copione, un inglese arcaico, quasi teatrale, sembra prendere spunto da questa letteratura. Se per “The VVitch” si poteva notare una certa vicinanza con “La lettera scarlatta”, qui è evidente anzitutto l’influsso di Coleridge e della sua “ballata del vecchio marinaio”: è infatti proprio l’uccisione di un gabbiano il gesto sacrilego che darà inizio alla follia. Dopo tale fatto infurierà infatti la tempesta che costringerà i nostri protagonisti all’isolamento forzato. Inoltre il riferimento diretto ad Achab, evocato dal giovane aiutante del guardiano durante uno dei non molto frequenti dialoghi del film, richiama anche il capolavoro assoluto della letteratura marinaresca: “Moby Dick”, riferimento costante soprattutto per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi. Lo scontroso vecchio interpretato da Dafoe ha molto in comune, in effetti, con il tremendo capitano del Pequod, a partire dal moncherino saldato al posto della gamba, ma anche per ciò che riguarda l’autoritarismo nei confronti del sottoposto, fino alla monomaniacale fissazione per il faro che sovrasta l’isola, presenza metafisica più che architettonica, il cui suono, ripetuto allo sfinimento per tutto il film (è di fondamentale importanza, per la creazione dell’atmosfera, il lavoro fatto sul sonoro), ricorda non a caso il verso di una balena.
Oltre a ciò abbondano anche i riferimenti più propriamente horror, come nel caso della creatura tentacolare che compare in una delle allucinazioni alcoliche dei due marinai e che non può non ricordare i mostri di Lovecraft; per finire con Edgar Allan Poe, maestro incontrastato del genere, il cui racconto intitolato per l’appunto: “The Light-house” sembra essere stato lo spunto principale per la scrittura del film. Il finale dell’opera, peraltro, ricorda molto da vicino quello del suo “Gordon Pym”, con una dissolvenza al bianco che riempie l’inquadratura e acceca lo spettatore.
Si aggiunga a ciò la ricerca di un lessico arcaico, di terminologie marinaresche, di luoghi comuni, le ballate cantate da Wake: tutti elementi che contribuiscono a dare un tocco di autenticità al racconto.
Dall’altro lato abbondano i riferimenti al cinema e, in particolare, al cinema dell’orrore che più di tutti interessa il nostro Eggers: se l’ambientazione isolana e il bianco e nero possono ricordare Bergman, le sequenze allucinatorie hanno sicuramente un tocco lynchiano. Sono inoltre presenti richiami e omaggi a “Gli uccelli” di Hitchcock e all'“Antichrist” di Von Trier, anche se i riferimenti preponderanti sembrano essere soprattutto due. Anzitutto l’espressionismo tedesco, a cui il film si riallaccia soprattutto per mezzo dell’ottima fotografia di Jarin Blaschke. Quest’ultimo non solo decide di lavorare su pellicola e con un rapporto d’aspetto di 1.19:1, che ricorda i formati del periodo in questione, ma scegliendo il bianco e nero anziché il colore sottolinea ancora di più il gioco di luci e ombre. In particolare le sequenze nelle quali i marinai risalgono la scala a chiocciola che conduce al faro, proiettando la propria sagoma sulle pareti interne della struttura, è un riferimento immediato a “Nosferatu”; ma anche l’utilizzo dell’illuminazione dal basso sul volto degli attori, unita a un leggero contre-plongée della mdp, contribuisce a rendere spettrale l’immagine e a deformare gli ambienti circostanti, come nella migliore tradizione espressionista che da Murnau e Wiene arriva fino a Fritz Lang.
Se l’utilizzo della luce ricorda l’espressionismo, la ricerca compulsiva della simmetria sembra avere ascendenti kubrickiani. In particolare è evidente il rimando a “Shining”: l’isolamento forzato in un luogo di morte è uno dei tanti aspetti che mette in comune i due film, per non parlare del fatto che, così com’era per l’Overlook Hotel nella pellicola del 1980, anche qui la location diventa a tutti gli effetti uno dei protagonisti del dramma: l’influenza spettrale e demoniaca esercitata dal faro sembra deviare le menti dei protagonisti e spingerli sempre di più verso la follia omicida. È emblematica da questo punto di vista la sequenza in cui il vecchio Wake, claudicante e armato di ascia, rincorre nella nebbia il giovane Winslow per ucciderlo. Il personaggio di Dafoe, come Jack Torrance, sembra stringere una relazione del tutto particolare con il luogo che abita: Eggers sottolinea tale aspetto in una brevissima inquadratura in cui gli occhi di Wake fulminano con una luce bianchissima Winslow, portando di fatto a compimento l’unione tra il vecchio guardiano e il faro.
Se “The Lighthouse” è certamente, come abbiamo mostrato, una ricerca – talvolta un po’ troppo manieristica – all’interno della letteratura e del cinema di genere, non si può però dire che sia soltanto questo, che sia cioè un contenitore vuoto di sostanza. Esso porta avanti la riflessione concettuale già presente in “The VVitch”, quella del vuoto centrale della “Cosa” lacaniana, di un limite attrattivo e repulsivo al contempo, verso cui l’uomo è risucchiato. Se lì tale limite era rappresentato dal bosco della strega, qui è simboleggiato dal faro del titolo: la sua luce bianca, abbagliante e impossibile da fissare (impossibile anche da imprimere in pellicola, e dunque limite anche cinematografico), è ciò verso cui il vecchio marinaio sembra morbosamente attratto. La seduzione esercitata da tale limite si fa al contempo erotica e metafisica, tanto che il faro può diventare, a seconda di come lo si intende, un simbolo fallico, ma anche la metafora di un potere più alto che governa l’isola.
La domanda centrale che il film suscita nello spettatore – domanda capace di stimolare il perturbante e l’orrore proprio perché priva di risposta univoca - è cosa simboleggi il faro. Esso è al contempo Dio, il male, la violenza, la pulsione sessuale, la conoscenza, il frutto del peccato e il monolite kubrickiano, le colonne d’Ercole dantesche e il fuoco prometeico. E se si considera quest’ultimo esempio, non è allora un caso che la fine di Widslow, portato a varcare i limiti della hybris al prezzo del sangue, ricordi da vicino quella del titano filantropo che aveva sfidato Zeus.
A ben vedere, potremmo sostenere che il precedente “The VVitch” fosse un film più solido e più facilmente fruibile rispetto a questa opera seconda, più artificiosa e complessa. Non si può però non riconoscere a Eggers un notevole miglioramento dal punto di vista della resa dell’immagine. in questo film che è soprattutto un’opera estetica, le cui inquadrature, composte con la precisione di un quadro, rimangono impresse nella mente dello spettatore piuttosto a lungo.
cast:
Robert Pattinson, Willem Dafoe
regia:
Robert Eggers
durata:
109'
produzione:
RT Features, Parts & Labor
sceneggiatura:
Robert Eggers, Max Eggers
fotografia:
Jarin Blaschke
scenografie:
Craig Lathrop
montaggio:
Louise Ford
costumi:
Linda Muir
musiche:
Mark Korven