«Il “fanciullo”, mentre è consegnato inerme a nemici strapotenti (…), dispone di forze che superano di gran lunga ogni misura umana. (…) ha una forza superiore e riesce a farsi valere ad onta di ogni pericolo e minaccia. Egli rappresenta la tendenza più forte e più irriducibile di ogni esistente: quella di realizzare se stesso. (…) La tendenza e il bisogno dell’auto-realizzazione è una legge di natura ed è quindi una forza invincibile»
C.G. Jung, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, 1941, con K.Kerényi
C’è un problema di fondo nella fruizione di un film entrato nell’immaginario collettivo come “Shining”. D’istinto si identifica in Jack il male e in Danny il bene. È vero che il film declina l’archetipo dell’eroe fanciullo che lotta contro il drago per liberare sé stesso e la fanciulla prigioniera da un antro maligno. Altrettanto vero che il film è facilmente leggibile in termini edipici: il figlio uccide il padre e fugge con la madre. In realtà “Shining” è ambivalente, e ambivalenti sono i suoi simboli, come ambivalente è tutto in Kubrick. Non si può negare che Jack si trasformi in orco, ma dare per assodato un manicheismo che non c’è comporta uno slittamento prospettico che rischia di occultare i significati del film, facendolo persino apparire in rapporto meno stretto con il resto della filmografia di Kubrick alla quale invece appartiene pienamente, a livello concettuale e filosofico, e non semplicemente per il tema della violenza come humus in cui il cineasta cala sempre le relazioni umane.
Jack e Danny
Avete mai provato a vedere le cose dal punto di vista di Jack? ”Shining” è un horror molto meno rassicurante di quel che indurrebbe a credere il sollievo per la sopravvivenza di Danny e Wendy. Anzi, è destabilizzante perché ci fa vivere per lunghi tratti la vicenda dal punto di vista di Jack, protagonista del film alla pari del figlio, che si trasforma solo gradualmente in antagonista, senza divenirlo mai davvero sino in fondo. La recitazione di Jack Nicholson è sin da subito così sopra le righe da escludere che il peggioramento delle sue condizioni mentali crei uno shock radicale e ci distanzi definitivamente da lui. Non ci identifichiamo mai interamente con Danny, né il finale può definirsi un happy end. Come si fa a non provare compassione per Jack? Tanto più che è a lui che sono dedicate le ultime immagini: al suo corpo congelato e al suo perturbante doppio nella foto del 4 luglio del 1921.
Per certi versi, “Shining” ricorda “Brood” (1979) di Cronenberg: in entrambi parteggiamo per i “sani” contro i soggetti “malati” (il padre in Kubrick, la madre in Cronenberg), ma le ragioni del “mostro” sono in piena luce, comprensibili, pronte a catturare la nostra attenzione e destabilizzare facili certezze sulla famiglia come ambiente sicuro e protettivo. Anche il finale è similare: in “Brood” il padre scappa con la figlia dopo aver sconfitto il mostro, la moglie/madre per la quale è impossibile non provare pietà, esattamente come per Jack Torrance. Il parallelo con “Brood” funziona anche in ottica edipica: lì un padre e una figlia avevano contribuito a sconvolgere la mente della madre, in “Shining” accade lo stesso a generi invertiti. In ottica edipica, da un lato un bimbo, maschio e figlio unico, diventa per certi versi un nuovo compagno della madre (il suo “ometto”; è nella natura delle cose e a riguardo Freud non può essere sconfessato), dall’altro il padre, mentre assiste dall’esterno a una relazione tanto esclusiva, nel volgere di pochi anni si accorge quanto a se stesso che i giochi della vita sono grossomodo fatti: il salto generazionale è compiuto e c’è un piccolo individuo, suo figlio, carico di energie e proiettato verso il futuro, pronto a raccoglierne il testimone. Per il figlio, un nuovo ciclo vitale sta appena iniziando; quello del padre è al giro di boa, ripiegato verso la vecchiaia.
Il labirinto di “Shining”, voluto da Kubrick e assente nel romanzo di King, simboleggia al meglio questo scarto. Il medesimo luogo nel quale il padre trova la morte è il luogo da cui il figlio si salva. Sono chiari i rimandi al filo di Arianna e a Pollicino (esplicitamente evocato da Wendy mentre parla con Halloran nelle cucine, a inizio film). Ma l’intelligenza con la quale Danny si salva, ripercorrendo le proprie orme nella neve del labirinto, è prova della freschezza mentale del giovane, laddove la ragione del genitore è ormai obnubilata. “Shining” non è la storia di un padre che uccide il proprio figlio, ma di un padre che muore perché il figlio lo ha portato a perdersi in un labirinto. A morire è il padre come nell’“Edipo Re” di Sofocle.
Un labirinto, a livello grafico, può essere rappresentato come una spirale: il cammino di chi trova la via d’uscita è il medesimo che, in senso inverso, porta all’involuzione e si chiude su se stesso. Quello di Danny è un trionfo momentaneo, appartiene a questo momento della sua esistenza. Si troverà un giorno nel ruolo del padre, a percorrere la stessa strada in direzione opposta. Magari le circostanze saranno meno traumatiche, ma la sostanza non cambia. Kubrick utilizza i codici dell’horror, delle favole e dei miti per estremizzare un’allegoria che racchiude la sua visione dell’uomo: essere che, per quanto come individuo si sforzi di superare i limiti temporali e cognitivi che gli sono imposti, è destinato a trascorrere la vita in un’evoluzione/involuzione in cui alla fuga seguirà comunque inesorabilmente l’essere risucchiato nel labirinto. Barry Lyndon ha trovato la sua gloria via dall’Irlanda, in giro per l’Europa: ma con un duello la sua ventura ha avuto inizio e con un duello si avvierà al tramonto. E Barry tornerà in Irlanda, espulso da quell’Europa che aveva a modo suo conquistato, come il Napoleone su cui Kubrick aveva sognato di girare un film. Se “Barry Lyndon” (1975) era un rise & fall, con “Shining” Kubrick sceglie di sdoppiare la prospettiva, adottando i punti di vista complementari del padre e del figlio. Chiarendo così che le cose non vanno viste in ottica meramente individuale. Occorre assumere sia il punto di vista di Jack, sia quello di Danny. I loro percorsi sono entrambi necessari, solo dalla loro sovrapposizione emerge un senso. E il gioco non è a somma zero. Danny e Jack, entrambi protagonisti, riflettono l’idea centrale in Kubrick per cui se la parabola individuale è condannata a tornare prigioniera di una foto del 1921 (“lei è qui da sempre”), non va trascurata la forza vitale irresistibile che pervade la giovinezza, che spinge a realizzare se stessi, in maniera entusiastica e sfrenata (Alex di “Arancia meccanica” dice nulla?).
L’Overlook-uroboro
Su “Shining”, come su tutto Kubrick, sono stati versati fiumi di inchiostro. Le più ardite interpretazioni sono lecite: è la stessa ricchezza semiotica del film a esigerlo (nel film possono essere scorti riferimenti alla Storia americana, con l’Hotel edificato su un cimitero indiano; addirittura, c’è chi – ricorrendo alla cabala e alla numerologia – vi trova riferimenti all’Olocausto) [1]. Al momento della fuga in compagnia della madre, Danny è pronto a spiccare il volo? La risposta varia se si sceglie di limitarsi a una lettura freudiana o si predilige la simbologia junghiana, meno meccanicistica e più suggestiva. È noto che Kubrick menzionò esplicitamente il saggio di Freud sul perturbante a proposito di “Shining”; è anche noto come fosse buon conoscitore di Jung, tracce del cui pensiero sono state spesso colte nella sua opera. Ora, in ottica freudiana quando Danny fugge con la madre il suo Edipo è più forte che mai e ben lungi dall’essere superato. In ottica junghiana, invece, la madre non è (sol)tanto la madre effettiva, Wendy: la simbologia materna va rintracciata in un variegato ventaglio di archetipi. Per Jung, il Sé trova piena compiutezza al termine di un processo di individuazione in cui sempre con la figura materna l'individuo dovrà combattere per distaccarsene, emergere definitivamente dal suo grembo ed esprimere la propria individualità. Per diventare adulto, deve affrontare una battaglia che ripercorre simbolicamente le tappe del percorso iniziatico dell’Eroe [2]. Esempi di queste tappe sono il combattimento con il drago, il salvataggio della fanciulla prigioniera e la conquista del tesoro. La progressiva “individualizzazione” dell’Io, il suo allontanarsi dalla condizione di bambino, psicologicamente indifferenziata, richiede secondo Jung di assumere su di sé l’archetipo dell’Eroe. Qui occorre semplificare: ciò che l'eroe libera con la prigioniera (nel film, la madre Wendy) è il rapporto con l'altro da sé: liberando la fanciulla dal drago, l’eroe libera anche se stesso dai legami parentali, e si protende verso l'esterno, abbandonando definitivamente l’utero materno. Scrive Jung in “I simboli della trasformazione”: “il tesoro che l’eroe trae fuori dall’antro oscuro è la vita, è lui stesso rinato nell’oscuro antro del grembo materno dell’inconscio, nel quale era stato trasportato ad opera dell’introversione o della regressione”. Seguendo questa lettura di “Shining”, l’Overlook Hotel è un oscuro e maligno utero materno. Non sfugge che, nel percorso inverso di Jack, avviene la regressione nell’antro/utero matrigno: nell’Overlook dove Jack – nella stanza 237 – incontra la Strega (altro archetipo legato alla madre), in procinto ad accoglierlo sessualmente, ma in realtà cadavere in putrefazione pronto a trascinarlo con sé nel proprio utero funereo.
Uterina, circolare è la figura del serpente che si morde la coda detta uroboro (οὐρά “coda”; βορός “mordace”). Si tratta di una figura simbolica diffusa in molte culture, che richiama il ciclo dell’eterno ritorno. L’uroboro divora e rigenera se stesso di continuo, rappresenta la natura ciclica delle cose, che ricominciano dopo aver esaurito un ciclo. Questo simbolo è assunto dalla psicologia di Jung come archetipo della condizione indistinta che precede lo sviluppo della personalità. L’Overlook, luogo magico dove il tempo è indistinto, è un uroboro: Danny ne emerge, Jack vi è risucchiato.
Un labirinto di doppi
Occorre riconoscere Danny in Jack e Jack in Danny. L’uno non si dà senza l’altro. Un figlio è un doppio del padre, nel senso proprio che ne è la riproduzione biologica. Kubrick ha disseminato il film di doppi, sdoppiamenti, falsi doppi, doppi occulti. La maggioranza di questi doppi è subliminale: la loro proliferazione passa inavvertita a una prima visione, ma lo spettatore ne viene comunque confuso e destabilizzato. A ingenerare perturbamento, nel senso precipuo dell’Unheimlich freudiano (qualcosa che è al contempo familiare ed estraneo), è il fatto che i doppi non sono realmente tali: gli elementi da cui sono composti, cioè, non sono la fedele riproduzione l’uno dell’altro. Proprio come un padre e un figlio non sono la stessa persona.
Il primo sdoppiamento cui assistiamo è quello fra Danny e la sua voce interiore, Tony (the little boy who lives in my mouth). Danny e Tony li vediamo la prima volta dialogare di fronte a uno specchio. E, si sa, nello specchio il nostro volto non è quello vero perché è rovesciato. Non potremo mai vederci allo specchio come ci vedono gli altri. Niente ci è familiare quanto il nostro volto allo specchio, ma sappiamo che non è lo stesso che tutti conoscono. Familiare ma diverso. Unheimlich. Lo specchio è il regno del perturbante: proprio nulla di ciò che vien visto in uno specchio corrisponde alla realtà che apparentemente riproduce: la sua superficie restituisce sistematicamente immagini rovesciate. Duplica ma in modo inesatto. (Pensate che solo il nostro stesso volto sia invertito allo specchio? Ovviamente no: accostatevi a chiunque vi si rifletta e assumerete la sua prospettiva, perciò avrete di fronte il suo volto invertito, non quello che conoscete).
Dunque Danny si duplica in Tony di fronte a uno specchio; più avanti nel film Kubrick ci mostra Jack addormentato, ma un carrello svela che lo stiamo guardando in uno specchio; la giovane della stanza 237 si trasforma in un’anziana in putrefazione e di questa mutazione Jack si accorge osservandone la schiena in uno specchio. Ed è sempre uno specchio a restituire rovesciata la parola tracciata da Danny col rossetto, REDRUM, svelandola alla madre come MURDER. Ciò che la biunivocità “Redrum/Murder” suggerisce è la stessa biunivocità latente fra padre e figlio: si può leggere al contrario, ma è la medesima parola, così come il percorso per perdersi o salvarsi dal labirinto.
Che il percorso sia uno e che la sua duplicità dipenda dalla direzione in cui lo si percorre, Kubrick lo suggerisce sin dalle prime sequenze. Quando Jack rifà con la famiglia la strada di montagna che conduce all’Overlook, la strada dovrebbe essere la stessa che abbiamo visto sui titoli di testa, ma il paesaggio è diverso. Nella prima sequenza la strada è situata sul fianco destro di una valle, nella successiva sul fianco sinistro. Se si tratta dello stesso tragitto, è come se fosse percorso in senso inverso. Andata e ritorno si confondono da subito.
Alcuni doppi sono palesi. Ad esempio, le due coppie di ascensori (non ci sono solo le due porte, da cui sgorga il sangue nelle visioni di Danny). Parlando con Lloyd, Jack cita Portland Oregon e Portland Maine, situate ai capi opposti degli USA. Il labirinto di siepi, nelle riprese di insieme dell’Hotel dall’alto, non esiste, il che significa che esistono due Overlook Hotel, uno con e uno senza labirinto. Lo stesso Overlook ha una struttura labirintica: anche dopo molte visioni è impossibile farsi un’idea coerente della dislocazione dei vari ambienti, al punto che è stato affermato come il labirinto di siepi costituisca una duplicazione dell’Hotel stesso. Poi c’è il modellino del labirinto in scala, all’interno dell’Hotel, che quando Jack si ferma a osservarlo, grazie a un trucco di montaggio, si anima con la presenza di Danny e Wendy (apparendo anche indefinitamente più esteso) come se la moglie e il figlio fossero smarriti all’interno delle spire della mente di Jack (un labirinto assomiglia figurativamente a un cervello). C’è poi la moquette dei corridoi, il cui motivo richiama un labirinto. A proposito di moquette, curiosa quella della stanza 237 che disegna abbastanza chiaramente un membro virile che penetra una cavità. Quando Danny, prima di trovare aperta la 237, viene raggiunto da una misteriosa palla gialla, tra campo e controcampo il disegno della moquette è invertito: la palla giunge a Danny seguendo un ideale corridoio disegnato sulla moquette sino all’esagono in cui si trova il bambino, poi lo stesso esagono sembra rinchiudere Danny: il corridoio tramite il quale la pallina lo ha raggiunto non esiste più, come fosse stato chiuso un varco e Danny intrappolato nell’esagono.
Si conosce la predilezione di Kubrick per le inquadrature simmetriche. In “Shining” ce ne sono parecchie, ma sono simmetrie false, per l’incongruenza degli elementi che si situano nella parte sinistra rispetto a quella destra del quadro: ad esempio, alcuni elementi sono simmetrici (la scalinata con due rampe della Colorado Lounge), per il resto la simmetria è tutt’altro che fedele. Non lo sono gli arredi nella ricorrente visione del sangue che sgorga dagli ascensori, né all’interno degli ambienti della stanza 237 o dei bagni della Gold Room dove Jack parla con Mr. Grady. Kubrick posiziona la macchina da presa in corrispondenza di elementi simmetrici in ambienti che realmente simmetrici non sono, il che contribuisce a straniare chi guarda.
Quanto alle gemelline: sono evidentemente uno dei doppi più palesi del film, ma si tratta di un altro falso doppio. Sono di altezza leggermente diversa, ma soprattutto il direttore Ullman racconta che il precedente custode dell’albergo, Mr. Grady, aveva ucciso le figlie di otto e dieci anni… E quanto a Mr. Grady, la traduzione italiana tradisce un altro doppio: nella versione originale, infatti, Ullman parla di Charles Grady, mentre quando Jack ci conversa nella Gold Room, lo chiama Delbert Grady. Doppia è la donna della stanza 237, la quale, contestualmente giovane avvenente e non-morta putrescente, allude alla dicotomia di fondo del film, ma anche a quella tra eros e thanatos. Per non parlare di discrepanze spaziali quasi escheriane: la porta della cella frigorifera, in cui Halloran si affaccia con Wendy e Danny, si apre prima in un senso poi in quello opposto, e quando viene richiusa, l’ambiente esterno appare mutato. Più di semplici trucchi volti ad amplificare il perturbamento, sono continue allusioni al tema dello specchio e della duplicazione che esso produce [3].
È probabilmente solo casuale la coincidenza dei nomi di attori e personaggi (Jack Nicholson; Danny Lloyd). Ci sono, comunque, due Jack, quello che muore nel labirinto e quello della foto del 1921. Il secondo è forse il Jack che è nell’Overlook da sempre, che forse da sempre ne è il custode: vi allude Mr. Grady nella scena del bagno, dopo essere stato riconosciuto da Jack, cui rimpalla la propria identità (“mi spiace contraddirla, Sir, ma è lei il custode dell’albergo”): e il gioco dei campi-controcampi sembra calibrato in modo da ribaltare anche nello spettatore le certezze riguardo l’identità dei personaggi. Senza dire del fatto che la vicenda di Mr. Grady riferita da Ullman ha avuto luogo nei primi anni 70, mentre la festa di gala alla quale Jack incontra Mr. Grady sembra svolgersi in un’epoca coerente con la data del 1921 svelata alla fine del film. L’approdo cui conducono questi sfasamenti temporali è uno solo: l’Overlook, più che luogo dove il tempo segue leggi paranormali, è luogo archetipico dove le identità restano intrappolate, da dove è opportuno fuggire se si vuole ritrovare se stessi. Insomma, l’Overlook è la versione negativa della Grande Madre junghiana. Archetipo ambivalente, la Grande Madre contiene e mantiene in vita, protegge e nutre, ma può diventare anche vorace e predatoria: è allora una caverna fredda oscura e anafettiva, un vaso che non lascia più uscire il suo contenuto.
Il film doppio
Esiste un indizio clamoroso della pervasività del tema del doppio in “Shining”. Si tratta del fatto che, caso forse più unico che raro nella Storia del cinema, non esiste un solo “Shining” ma ne esistono due, il primo dei quali è conosciuto in America, l’altro in Europa. La versione americana è sostanzialmente differente, dura 25 minuti in più e presenta sequenze come quella della “blue room” che per decenni, prima che fosse possibile reperirle online, sono rimaste sconosciute agli europei. La distribuzione di due versioni diverse del film ha dato vita a due ricezioni del pubblico che non collimano in tutto, come anche ad analisi critiche rapportate a due film diversi: un elemento cui non viene in genere fornito il dovuto risalto, quando si parla di “Shining”. La duplicità del film, seppure possa avere specifiche motivazioni contingenti (tuttavia ignote), si adatta in modo stupefacente al tessuto semiotico del film. Esistono due “Shining” diversi, nemmeno l’opera in sé possiede una sua unica identità.
NOTE
[1] Significativo delle più spinte ipotesi ermeneutiche che il film stimola è il documentario del 2012 “Room 237” di R. Ascher (interessante in diversi momenti, anche se le interpretazioni che vi trovano spazio vanno prese con le molle, spesso estreme ed improbabili come quella di chi ha voluto vedere nel numero 237 e nel maglione indossato da Danny con l’Apollo 11 un indizio della leggenda metropolitana che vuole Kubrick regista di un falso allunaggio nel 1969).
[2] La psicologia junghiana si fonda sulle ambivalenze e sulle polarità (Yin e Yang, maschile e femminile, Anima e Animus, ecc.). Fondamentale per il benessere psichico è il bilanciamento delle polarità. Ciò non esclude la necessità di un percorso individuale dove avvengano anche forti conflittualità, per la maturazione personale.
[3] Ci sono poi doppi occulti, come quello che riguarda la macchina da scrivere di Jack, che in alcune scene è grigia, in altre bianca: contribuiscono ad amplificare a livello subliminale il pervasivo perturbante di cui il film trabocca, insieme a innumerevoli altri elementi che duplicano ambienti e ne alterano l’identità. Ad esempio, nell’alloggio della famiglia Torrance c’è sempre il comodino fra il letto e la porta che conduce in bagno, ma in almeno un’occasione il letto è a filo della porta, e il comodino è scomparso; a inizio film, sulla porta della cameretta di Danny, campeggia uno stiker di Cucciolo dei sette nani della Disney, che in un’inquadratura successiva manca. Persino la pignoleria con cui è ripetuta la frase “All work and no play makes Jake a dull boy” tradisce varianti che incrinano l’ottusa coerenza di quella ripetizione infinita (dull bog, dull bot, noplay, ...).
cast:
Joe Turkel, Danny Lloyd, Philip Stone, Scatman Crothers, Shelley Duvall, Jack Nicholson
regia:
Stanley Kubrick
titolo originale:
The Shining
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
119'
produzione:
Stanley Kubrick
sceneggiatura:
Stanley Kubrick, Diane Johnson
fotografia:
John Alcott
scenografie:
Roy Walker
montaggio:
Ray Lovejoy
costumi:
Milena Canonero
musiche:
Wendy Carlos Rachel Elkind, Béla Bartók, Krzysztof Penderecki, György Ligeti