Ogni mattina, a Barbieland, una Barbie si sveglia e sa che darà un party. Ogni mattina, a Barbieland, Ken si sveglia e sa che dovrà andare al party per farsi notare da Barbie. Ogni mattina, a Barbieland, centinaia di Ken e Barbie ripetono le stesse azioni dei giorni precedenti e le ripeteranno in tutti i giorni a venire. Fino al giorno in cui la Barbie classica (Margot Robbie), che qui si definisce "Stereotipica", fa pensieri di morte. Quando i piedi da arcuati le diventano piatti, è un segno: dopo un consulto con Barbie Stramba (Kate McKinnon), capisce di dover attraversare il portale che separa Barbieland dal mondo reale per consolare la sua proprietaria (ed evitare la cellulite). Ovviamente accompagnata dal suo brocchissimo Ken (Ryan Gosling).
La prima mezz'ora del film, canonicamente diviso in tre atti (Barbieland – Mondo reale – Ritorno), è la migliore per distacco. La geniale combinazione di scenografie e costumi (Sarah Greenwood e Jacqueline Durran) ricrea un ambiente simil-californiano anni 60, con architetture moderniste mid-century e toni bubblegum, operazione che per estro e audacia ricorda il "Popeye" di Altman (1980). Accessori e costumi non sono oggetti di scena ma icone, che i personaggi cambiano e scambiano in un gioco che coinvolge anche il pubblico. Nel gioco sembra divertirsi soprattutto Ryan Gosling, sorprendentemente a suo agio dopo una serie di ruoli "asciutti" (Chazelle-Winding Refn) in un contesto che spinge sui toni della commedia quanto su quelli del musical, con una mimica alla Gene Kelly.
Il passaggio di Barbie e Ken al mondo reale tradisce l'inconfondibile influenza di Wes Anderson: ritmo sincopato, simmetrie iperreali, costumi che diventano uniformi, colori che il DOP Rodrigo Prieto (tanti lavori con Iñárritu e Scorsese) fa oscillare tra il pastello e il technicolor. Qui la sceneggiatura (Gerwig-Baumbach) svapora nel calore di Venice Beach, dove Ken si educa al patriarcato, mentre Barbie incontra le sue proprietarie umane: Gloria (America Ferrera), quarantenne che rimpiange i bei tempi passati a giocare con le Barbie, e la figlia Sasha (Ariana Greenblatt), che le considera il veicolo fascistoide di un ideale di donna ansiogeno e irraggiungibile. Messa di fronte a tali accuse, Barbie scoppia a piangere: "Mica controllo il commercio o le ferrovie". L'ironia e le lacrime hanno la stessa funzione, rendere simpatica Barbie al target di riferimento, madri nostalgiche e adolescenti woke. Sancita la pace tra le generazioni, si va tutti insieme a Barbieland per rovesciare il patriarcato tossico instaurato da un redivivo Ken.
Insomma, il film non ha solo una domanda implicita, ovvero se Barbie può funzionare come icona femminista, ma anche una risposta implicita, e quella risposta è sì. Lo dichiara già l'incipit, che scimmiottando il "dawn of man" kubrickiano mette in scena un ironico "dawn of woman" in cui Barbie-Monolito insegna alle bambine che non devono limitarsi a giocare alle casalinghe e alle mamme, ma possono essere quello vogliono. Più che un film sulla mascolinità tossica, sugli schemi di genere impliciti, sull'empowerment femminista, sui rapporti inter-genere e intergenerazionali, "Barbie" assomiglia a una massiccia operazione di rebranding che dal secondo atto smarrisce ogni parvenza di sceneggiatura e si trasforma fino alla fine in una stucchevole, didascalica, sconclusionata, ripetitiva e ammiccante speechification.
Il problema non è tanto la natura di brand movie, di cui abbiamo esempi anche riusciti ("The Lego Movie"), ma l'abbandono di una storyline coerente per ostinarsi a catechizzare il pubblico. Non a caso, a risvegliare le Barbie ipnotizzate dai Ken è un trito monologo su quanto è impossibile essere donne, quasi un'auto-citazione di Laura Dern in "Storia di un matrimonio" (ringrazio il collega Giuseppe Gangi per avermelo ricordato). Ma mentre là il monologo aggiungeva sfumature e complessità, qui è una mano di vernice nera sul nero.
Per fortuna rimangono le coreografie disneyane (pur con una colonna sonora dimenticabile) e un Gosling magnetico, capace di far ridere con la sola forza dei gesti, delle pose. Il bagaglio di citazioni e influenze – così en passant citiamo "Pinocchio", "Toy Story", "The Matrix", "Scarpette rosse" e "Les parapluies de Cherbourg" – non fa che rendere "Barbie" più consapevole e quindi didascalico di quanto già non sia.
Viene il sospetto che Gerwig, che aveva dichiarato di voler dare un colpo al cerchio e uno alla botte (fare la cosa e sovvertirla, sia film d'autore che product placement), abbia finito per darne uno, letale, al suo film. Al di là della sofisticata operazione di worldbuilding, "Barbie" non ha niente di sovversivo e rischia anzi, al netto dell'ironia, di perpetrare gli stereotipi da cui vorrebbe emanciparsi: decine di modelle ma una sola Barbie sovrappeso, puzza di quota-filler; l'emarginata Barbie Stramba è felice e contenta di gestire a Barbieland il dipartimento della nettezza urbana, quasi un suggerimento che i profili emarginati debbano trovare piena soddisfazione in professioni marginali; Barbie-Robbie realizza l'empowerment finale dal ginecologo, con il pericoloso sottotesto che l'emancipazione della donna avvenga principalmente tramite il controllo della sua vagina. Comunque nulla di grave, Barbie è nata nel 1959 e non le abbiamo mai chiesto di diventare Hannah Arendt. Sarebbe meglio continuare a non chiederglielo.
cast:
Margot Robbie, Simu Liu, Dua Lipa, Sharon Rooney, Issa Rae, Kate McKinnon, Will Ferrell, Rhea Perlman, Michael Cera, Ariana Greenblatt, America Ferrera, Ryan Gosling, Kingsley Ben-Adir
regia:
Greta Gerwig
titolo originale:
Barbie
distribuzione:
Warner Bros
durata:
114'
produzione:
Heyday Films, LuckyChap Entertainment, Mattel Films, NB/GG Pictures
sceneggiatura:
Greta Gerwig, Noah Baumbach
fotografia:
Rodrigo Prieto
scenografie:
Sarah Greenwood
montaggio:
Nick Houy
costumi:
Jacqueline Durran
musiche:
Mark Ronson, Andrew Wyatt