Ombrelli, porti, ragazze di Jacques Demy
Esiste un linguaggio che può vantare una universalità degna di quello musicale? La ricezione di un'opera, di un movimento, di una canzone, di un ritornello, di poche note. Innesti di musicalità uditi e mondi che già si spalancano. L'evocazione di un passato che sembrava ormai sepolto, tracce del presente che si rivelano oltre ciò che la realtà ci mostra, sogni, fantasie, ipotesi di un domani che verrà.
Gli illimitati spazi nei quali la musica ci conduce rappresentano per il cinematografo un'opportunità irripetibile per attuare quella che è, a sua volta, la possibilità di muoversi in un campo che per antonomasia può inscenare tutto e il contrario di tutto.
Crediamo nel cinema perché vogliamo crederci, perché ne abbiamo bisogno. Così un personaggio può abitare un'inquadratura. Entrare ed uscire quando gli pare facendo ciò che vuole. Perché non cantando?
Nell'attraversamento emozionale proprio della settima arte tanto una risata che una lacrima hanno una pari dignità. Adottata e appurata l'invenzione che è inventiva (quella del regista-autore) l'emozione si aziona in Demy secondo lo sposalizio di mezzi basici. Non è forse vero che il canto, la musica e la comunicazione che ne scaturisce sono linguaggi dalla tradizione millenaria?
La storia avrebbe potuto prendere un altro corso e tutti, adesso, intonati e stonati, comunicheremmo "cantando cantando". Laddove non arriva la realtà, provvede il cinema.
Immaginiamo due ideali poli antitetici che contraddistinguono estremi del mondo del cinema di finzione: da una parte si situa il realismo, che spoglia l'immagine da ogni orpello e sovrastruttura con l'intento di approdare ad un grado 0 capace di catturare uno sguardo seminascosto all'occhio della nostra quotidianità.; dall'altra parte vi è l'opera che dichiara spudoratamente il proprio artificio di cinema-cinema, agendo all'interno del genere, spingendo la struttura allo spasmo, spesso saturando l'inquadratura di colore, delirio, fiamme.
Come spesso capita, gli antipodi sono complementari ed è da sottolineare che i numi tutelari della Nouvelle Vague hanno avuto tra i propri prediletti tanto gli azzeramenti estetici di un Rossellini e di un Bresson quanto le accensioni in Technicolor di Western e melodrammi hollywoodiani. E di Musical. Autore di cortometraggi lungo tutto il decennio dei 50, Jacques Demy ha debuttato nel lungo con "Lola, donna di vita" (1961). Il datario lo incasellerebbe dritto nel novero dei ragazzi della Nouvelle Vague transalpina, ma non è un caso che il più delle volte venga escluso dalle liste di quella stagione cinematografica.
L'opera di Jacques Demy produce una scia luminosa che la pone al fuori del tempo: tutti gli elementi concorrono a donarle l'imprendibile fascino della grande fiaba contemporanea. Più si insedia tra le strade e le pareti domestiche proprie di una verosimile realtà più il favolismo della magia demyana si posa sul favoloso. Non a caso i suoi film esplicitamente fiabeschi ("La favolosa storia di Pelle d'Asino", "Il pifferaio di Hamelin") risultano non risolti, quasi costretti a servirsi di scorciatoie preeṡistènti che cozzano con la visione del regista, che nasce nel cinema e lì si aziona e vive.
Alcuni padri della Nouvelle Vague omaggiavano il cinema di genere statunitense innestando frangenti, lampi o espliciti omaggi in una circolo di libertà che tutto poteva assorbire per forgiare una nuova alba creativa: si pensi ad alcuni momenti del Godard di inizio carriera dove Anna Karina - e accade in più di un film - impersonificava il corpo e l'immagine di una musicalità cinematografica che non rinnegava l'esistente, ma dichiarava un'urgenza culturale di ripartire necessaria per scongiurare l'impasse della creazione. Come si diceva, il Musical è un genere, una visione, uno Stato, che offre al cinema una libertà creativa dove la verosomiglianza può sfidare i processi sentimentali e finanche le leggi di gravità corporee. Vivere danzando e cantando in una leggiadria che invano si cercherebbe in altre arti (forzata "concretezza" del teatro compresa).
Con "Les Parapluies de Cherbourg" Demy compie un passo verso una nuova collocazione nell'ambito di quella stagione audiovisiva. Ogni parola, ogni gesto, ogni emozione passa attraverso la musica ed il canto. Interamente cantato ma mai danzato, con questo film Demy, dunque, radicalizza fin dalla base il concetto di Musical cinematografico. Da una parte restringe gli spazi, con campi medi e primi piani in alcune sequenze non tanto distanti da un tipico dramma da camera, aprendosi a distanze maggiori ed ariose in significativi momenti (valgano per tutti tre esempi: i titoli di testa, la partenza in treno di Guy, il finale innevato).
Dall'altra mette al centro della scena i protagonisti rendendoli baricentri emotivi del climax espressivo. Il personaggio trasmette il proprio stato d'animo e di volta in volta l'inquadratura assorbe le emozioni che esso libera, facendone un tutt'uno con gli ambienti dominanti: le pareti di casa o del negozio di ombrelli cambiano colori e tonalità ed anche gli abiti e le scenografie obbediscono non tanto ad un'impronta figurativa propria di impianti pittorici, quanto piuttosto ad un impressionismo dell'anima: la figura dominante resta l'essere umano. Con i propri raggi e con la propria pioggia battente prende forma il Cinema di Jacques Demy.
On connaît la chanson (d'amour)
Se l'arte operistica non vantava tra i suoi punti di forza un alto livello di letterarietà del testo cantato, anchela tradizionale forma canzone ha talvolta nelle sue manifestazioni più elevate una combinazione che si accontenta di termini ed espressioni abusate. Soprattutto in certi prodotti di ampio consumo, pure la canzone in grado di elevarsi a lascito artistico è forgiata da parole che specie ad un superficiale ascolto ci appaiono null'altro che variabili su tematiche di facile immedesimazione (o, nei peggiori casi, di retoriche a buon mercato).
Così come la vita, quasi ogni possibile arte ha un ossessivo rapporto con Sua Maestà l'Amore. Declinato in varie forme, gioioso o, ancor meglio, triste e tormentato, l'Amore non può che essere adorato dalla forma canzone. Siamo in Francia e allora prendiamo la figura dello Chansonnier: da Charles Aznavour ad un pur più trasgressivo (e geniale) Serge Gainsbourg, le pene amorose riverberano tra note e motivi famosi o meno. Il "Mon Amour" regna, gli intralci sentimentali scaturiti da eventi o terzi incomodi arricchiscono storie gioiose o tristi. Un amore destinato a consumarsi nel tempo, un altro esaltato perché creduto immortale.
I giovani Genéviève e Guy cantano la banalità dell'amore, ovvero la sua verità giovanile colta nella fragranza di una innocenza prima vivida, poi succube dell'inevitabilità della vita adulta. La guerra d'Algeria echeggia in lontananza come arma di fatale separazione, ma sono soprattutto il peso degli anni e dello scorrere del tempo a stabilire le amare distanze: il film è scandito da capitoli che suggeriscono l'ineluttabile ombra del tempo che passa. Le parole che si innalzano nelle sequenze del film obbediscono ai caricati turbamenti del cuore della giovinezza: l'esasperazione del sentimento non è vero melodramma, quanto piuttosto una devozione che non si vergogna degli strabordanti patimenti di un'età che ancora a tutto sa credere. Le parole cantate coabitano con la mirabile e ormai mitica partitura musicale di Michel Legrand, che collaborerà successivamente con il regista anche per l'altro suo capolavoro, "Les demoiselles de Rochefort", diverso eppur miracoloso proseguimento di una visione sospesa e magica. Come si evince dalla colonna sonora il suo autore ha come formazione culturale l'opera e il jazz con elementi che felicemente si fondono in un'unica grande sinfonia popolare.
I cinque lungometraggi che Jacques Demy ha realizzato negli anni 60 compongono un ideale continente fatto di rimandi, raccordi e rime interne, citazioni o addirittura personaggi che sbarcano da una costa all'altra (Roland Cassard giunge ad esempio da "Lola, donna di vita"). E quelle di Demy sono città portuali dove è il set del film che guarderemo che sbarca, dove i personaggi vanno e vengono, dove la ricerca dell'amore (perduto, immaginato, sognato) è una costante, dove le note musicali sono figure. Dove la distanza necessita sempre di accorgimenti.
La mancanza è radicata fin dalle premesse del racconto, con quella costante assenza della figura paterna che attanaglia quasi sempre i personaggi demyani. Mentre coevi esempi di Nouvelle Vague si dirigevano verso ragionamenti più direttamente politici, Jacques Demy si immobilizza nella fase fanciullesca della vita. Le sue storie sono dominate da eroi ed eroine che sono costretti a crescere loro malgrado: incapaci di accettare realmente il trascorrere degli anni, si dirigono con dignità verso il compromesso e l'accettazione, senza per questo cancellare un'aria di malinconia che si staglia lungo il tragitto della vita. Non è certamente un caso che Demy sia nato nella portuale Nantes. Il cineasta fa dunque del suo cinema una ricerca di anni e cose perdute, la ricognizione di ricordi e affida all'arte la possibilità di un eterno ritorno ai verdi anni. Cinema che sa restituire la brillantezza delle passate avventure ma che al contempo emana una inevitabile nostalgia di una visione che necessita di artifici per rivivere.
La somma degli elementi fanno di questa demyville un universo incantatorio, fragile come un amore giovanile può essere, per l'appunto, dolceamaro come alcune fiabe suggeriscono, all'ingenua ma temeraria ricerca di una propria identità.
La ventenne Catherine Deneuve, qui al suo primo ruolo importante, con la sua Genéviève incarna perfettamente entità, spiriti ed umori di questa visione di cinema e di mondo: virginea, delicata ma già densa di inafferrabile fascino, attraversa il pentagramma con passo lieve e magnetico.
Ideale accompagnatrice per ricordare, cercare, sognare, danzare e cantare. Emozionarsi e amare come fossimo in un film di Jacques Demy.
cast:
Catherine Deneuve, Nino Castelnuovo, Anne Vernon, Marc Michel, Ellen Farner, Mireille Perrey
regia:
Jacques Demy
titolo originale:
Les Parapluies de Cherbourg
distribuzione:
Ciné-Tamaris
durata:
91'
produzione:
Parc Film, Madeleine Films, Beta Film
sceneggiatura:
Jacques Demy
fotografia:
Jean Rabier
scenografie:
Bernard Evein
montaggio:
Anne-Marie Cotret, Monique Teisseire
costumi:
Jacqueline Moreau
musiche:
Michel Legrand