Good Morning, Musical
Tutto cominciò in un film oggi semi-dimenticato: "The Hollywood Revue of 1929" (titolo italiano: "Hollywood che canta"). Un uomo con impermeabile intonava immobile un motivetto, accompagnandosi con un poco visibile ukulele. Sotto una pioggia battente e all'interno di una povera scenografia Cliff Roberts intonava una spoglia "Singin' in the Rain" che, nell'ultima sequenza del film, veniva poi cantata dall'intero cast in uno spettacolare e festoso addio ad un pubblico che aveva accolto con favore una pellicola che giungeva soltanto pochi mesi dopo "La canzone di Broadway". Quest'ultimo era stato il primo film interamente parlato, cantato e danzato della storia del cinema e fortemente voluto dal produttore della MGM Irving Thalberg, entusiasta dall'incontro con il librettista di New York Arthur Freed, che fu co-autore, insieme al compositore Nacio Herb Brown delle canzoni dei due film. Se in pochi potevano all'epoca pronosticare un successo immortale per una canzone che rischiava di finire in un vastissimo museo archeologico, erano presumibilmente ancor meno coloro che intuirono che Freed stava architettando qualcosa di molto più grande di qualche canzone in musical pioneristici ma di tenue brillantezza.
Se negli ultimi anni 20 la musica era spesso resa protagonista dei primi film sonori anche per mascherare la timidezza di un uso della parola che provocò non pochi patimenti a star che si avviavano verso un declino artistico e non solo, ben presto anche autori di spessore (da Lubitsch a Mamoulian) inglobarono in leggere ma elaborate trame inserti canterini.
Gli anni 30 musicali furono dominati dal grande Fred Astaire che, in coppia con Ginger Rogers, recitò in pellicole intrise di una leggerezza romantica pari alla propria grazia danzante, e dalle vive e geometriche coreografie del geniale Busby Berkeley.
Il nome di Freed cominciò ad imporsi prepotentemente negli studi della MGM quando fu decisivo nell'acquisizione dei diritti - per poi esserne uno dei motori della lavorazione - de "Il mago di Oz", uno dei più grandi successi commerciali della storia del cinema. I piani alti e Mayer in prima persona si resero conto delle capacità produttive di Freed che da quel momento, anno dopo anno, perfezionò la sua idea di musical e di cinema.
I musical si facevano così sempre più sontuosi, maestosi, ricchi. Nei film di Freet per la MGM l'applicazione dell'operetta mitteleuropea era travolta da sfavillanti Technicolor, da baraonde danzanti, da melodie arrangiate con adesione sempre maggiore alla fisicità delle immagini. Era pertanto abolita l'idea di pista da ballo, di coreografie da palcoscenico come necessario lascito di Broadway al cinema hollywoodiano.
Gotta Dance
C'è dunque un ponte che unisce le prime parole del cinema sonoro a "Singin'in the Rain".
L'intenzione iniziale era quella di farne un contenitore per vecchie canzoni del periodo 1929-1931 dei musical MGM in un film basato su una vecchia e dimenticata pellicola: "Excesse Baggage". Ma Arthur Freed credette che una storia originale sarebbe stata comunque la soluzione migliore, ottenendo così una summa artistica senza per questo comprimersi in un film antologico d'andazzo.
Ingaggiò i suoi due fidati sceneggiatori, Adolph Green e Betty Comden, ai quali fu data una specifica ma significativa indicazione: doveva esserci una scena dove pioveva e qualcuno doveva cantare.
L'idea della storia si presentava così in modo immediato, essendo le canzoni provenienti da uno specifico periodo storico contenente per il cinema la più profonda delle fratture linguistiche, l'ambientazione/ riflessione del passaggio dal muto al sonoro riesce a sprigionare una vicenda che attraversa le difficoltà che subirono i divi dell'epoca: lo spaesamento iniziale, l'obbligata decisione di confrontarsi con il sonoro, le lezioni di dizione, i rumori stordenti, il fuori sincrono, e i dubbi del pubblico. Queste complicazioni imbastiscono una sceneggiatura fatta di dialoghi brillanti e una classe stilistica propria di un autore come Stanley Donen, una satira bonaria (resta impressa la stridula voce di Lina Lamont) che cerca le finezza nella sua caoticità audiovisiva in un dinamismo non circoscritto ai numeri musicali, come dimostrano le entrate in scena della giovane Kathy Selden, tanto in campo amoroso (l'incontro in auto con Don, le prime schermaglie) quanto in ambito artistico-lavorativo (la torta in faccia alla primadonna Lina).
Il film ha come apertura e come chiusura il medesimo contesto: l'anteprima di un grande film hollywoodiano, due momenti che non si limitano a fare da opposti poli contenenti la forma della fabbrica dei sogni; è difatti lo stesso personaggio di Don Lockwood a percorre una strada di autocoscienza che parte da lustrini e sorrisi di circostanza (l'apertura) per poi sfociare in un ottimismo certamente intatto ma finalmente applicabile ad una realtà sentimentale concreta, capace di scavalcare l'illusione da rotocalco, la finzione affissa dietro e sopra il grande schermo.
Sono almeno tre i numeri musicali che si prestano ad una lettura metacinamatografica più esplicita: in "You Were Meant for Me" Don Lockwood per esprimere al meglio il proprio amore a Kathy entra con lei in un ampio teatro di posa e attraverso l'utilizzo di una attrezzistica crea un meraviglioso tramonto, nebbia, luci, chiar di luna, stelle, una lieve brezza, in un impianto scheletrico ma che traccia con basilare limpidezza la teoria del set come illimitato teatro di vita tra gli impianti fittizi della creazione e il nocciolo dell'emozione di un alto sentimento.
In "Make ‘em Laugh" - omaggio/plagio a "Be a Clown" di Cole Porter - da "Il pirata" di Vincente Minnelli - il personaggio di Cosmo Brown, interpretato da Donald O'Connor, si muove tra attrezzi ed attrezzisti del set con movenze "snodabili" di un corpo, di un volto e di una voce che adoperano le parole del testo per riflettere sul proprio personaggio e, in assoluto, sul ruolo del genere comico che approda in derive sempre più slapstick e surreali (il frammento del divano e il manichino), in una ritmica che, abbandonate le parole della canzone, muove il personaggio come fosse una girandola impazzita che non risparmia né le stupefacenti corse sulle pareti né una auto-demolizione del comico/ clown.
I due numeri sono però illuminanti prove generali per la scena, non plus-ultra della storia del musical cinematografico, ribattezzata "Broadway Melody".
Come la lunga sequenza di ballo di "Un americano a Parigi", anche questa è un prodigio tecnico. Realizzata in coda alle riprese, inizialmente non prevista e in un primo momento montata come ultima sequenza di "Cantando sotto la pioggia", è la storia che Don utilizzerà per sonorizzare, rivitalizzare fino al trionfo finale "The Duelling Cavalier"/ "Dancing Cavalier", quella che vede un novello ballerino scalare le vette di Broadway passando dall'iniziale inesperienza, fatta di volontà e talento ma di porte di agenzie teatrali sbattute in faccia, a una fulminea scalata nel mondo del varietà (Burlesque-Vaudeville-Ziegfeld Follies), ostacoli sentimentali e pericolosi sul proprio cammino.
Per la realizzazione del numero furono uniti due dei set più grandi della MGM, fu applicato un enorme tappeto mobile, una troupe nutritissima, circa settanta ballerini. Si porta qui a compimento l'idea di set come spazio illimitato - con dispersione totale nel frammento del sogno. Elettrizzante tour-de-force tecnico-stilistico-emozionale che contiene in sé un riassunto di storia dello spettacolo del primo novecento, un catalogo di metalinguismo e un alto tasso di sensualità scolpito dalle lunghissime gambe di Cyd Charisse.
Al centro di tutto c'è un Gene Kelly al massimo del suo potere come regista, ballerino, star. In "Cantando sotto la pioggia" l'attore raggiunge la summa della sua genialità: il sua innovativo stile, contraddistinto da uno slancio atletico mai visto è in particolar modo in questo film baciato da una sorridente, contagiosa e inarrivabile furia artistica.
Singin' in the Rain
In fondo il cinema è tutta una questione di percezione. L'immagine, il sonoro, la storia: la somma degli elementi fa la riflessione, l'emozione, poi il ricordo. Mettere per iscritto la sintesi di una visione equivale ad una ricognizione del proprio bagaglio emozionale, che sia esso guidato da una predominanza intellettuale o emozionale - in sintesi: la vecchia storia della testa o del cuore.
Ogni film di finzione, visto o da vedere, ci invita sempre a intraprendere una fuga. Cogliere ed esporre le distanze tra quello che vediamo e ciò che viviamo tradisce sempre un'omissione, un qualcosa di incomunicabile. In questa sfera che ci sforziamo di esporre al prossimo è certamente racchiusa la nostra più intima emozione. In questa inesplicabilità risiede quella che sin dagli albori della settima arte continuiamo a definire "la magia del cinema". L'unicità di quell'emozione non potrà mai trovare una definitiva forma descrittiva, ma resterà quell'emozione - unica - che ci indurrà ancora a vedere, parlare, vivere il Cinema.
Pur avendo al suo interno innumerevoli motivi di interesse che da soli ne giustificherebbero la straordinarietà, il fulcro di "Cantando sotto la pioggia" di Stanley Donen e Gene Kelly è la Gioia, intesa nella sua accezione più ampia e declinata a più livelli. Non è un film che però ha l'improbo e presuntuoso compito di volerci dire cosa è l'allegria. Al contrario, rifiuta il descrittivismo, la tesi, la morale; non dunque un film sul volere o il dover essere briosi, ma un sentimento che è già tutto nell'immediatezza di ciò che scorre sullo schermo, nell'atto del fare il film e in quello di vederlo. Per arrivare ad un simile risultatato i principali fattori sono certamente innumerevoli e, come sempre per Freet, che riusciva a cavare il meglio dai suoi collaboratori, abbracciano ogni maestranza coinvolta nell'operazione.
Di straripante vitalità e divertimento, numeri come "Moses Supposes" o "Good Morning" potrebbero da soli essere indice di quella inebriante e indicibile gioia di cui si parlava, ma e altresì impossibile non evidenziare la celebrata e celeberrima sequenza cardine dell'opera e del musical tutto. Gene Kelly che danza sotto la pioggia. La scena doveva inizialmente essere un trio per Don, Kathy e Cosmo, per tirarsi su tornado a casa dopo la disastrosa prima di "The Duelling Cavalier".
Ma la costruzione dellla scena convinceva poco Gene Kelly, che fece proprio il numero.
Il trionfo di questa sequenza è dettato dalla filosofia del Gene Kelly attore-autore.ballerino-coreografo. Per ottenere il meglio da un numero musicale c'è alla base l'idea di Kelly e di Stanley Donen che vede una pianificazione minuziosa che va dal corpo del danzatore fino al più insignificante dettaglio. Kelly utilizza qui pochi elementi: un ombrello, pozzanghere d'acqua, un palo della luce e - come nel precedente ed epocale "Un giorno a New York" - un'ambientazione urbana, seppur ricostruita in studio (fu, tra l'altro, girata di giorno). Pur geometrica per valorizzare ogni movimento di Kelly, la macchina da presa è al servizio del protagonista, che mette in atto la possibilità di rappresentare la Gioia, disegnando impareggiabili forme di libertà creativa che ad ogni passo di danza trascendono i paletti dell'arte.
Al di là di ogni tentativo di restituire con le parole il buonumore donato da "Cantando sotto la pioggia" l'unico invito è quello di vedere, rivedere e poi ancora questa scena e trovare il nocciolo dell'emozione della genuinità quando ad un perplesso e sospettoso poliziotto Don risponde cantando con un semplice "I'm dancin' and singin'in the rain".
cast:
Debbie Reynolds, Jean Hagen, Millard Mitchell, Cyd Charisse, Douglas Fowley, Rita Moreno, Donald O Connor, Gene Kelly
regia:
Stanley Donen, Gene Kelly
titolo originale:
Singin' in the Rain
distribuzione:
Metro-Goldwyn-Mayer
durata:
103'
produzione:
Metro-Goldwyn-Mayer
sceneggiatura:
Betty Comden, Adolph Green
fotografia:
Harold Rosson
scenografie:
Jacques Mapes, Edwin B. Willis, Harry McAfee
montaggio:
Adrienne Fazan
costumi:
Walter Plunkett
musiche:
Nacio Herb Brown, Roger Edens, Al Goodhart, Al Hoffman