Nel 2199 le cose e la vita sembrano funzionare come nel 1999 ma un gatto nero che vi attraversa la strada una prima volta e poi, dopo pochi istanti, una seconda non è più una questione metafisica di superstizione né un deja-vu psicologico: è un bug che nasconde una verità a dir poco inverosimile.
L'opera seconda degli allora fratelli Andy e Larry, poi diventate sorelle Lilly e Lana, Wachowski è un incrocio fortunato di tecnica cinematografica, arti marziali, effetti speciali, sociologia e addirittura filosofia (quasi non si contano i saggi e le tesi di laurea che l’hanno come soggetto) da poterlo considerare oggi, a venti anni di distanza, un film allo stesso tempo generazionale, un cult-movie e infine anche una pietra miliare che avrà le sue cinque righe nei manuali della storia del cinema.
Probabilmente, il vulnus di questa "tiratissima storia in slow-motion" è la sceneggiatura, non tanto per i fisiologici bug, endemici al viaggio astrale, quanto per una deriva "fantasy" in più punti, soprattutto quelli riguardanti i rapporti tra Neo e Trinity e tra Neo e Morpheus.
Thomas Anderson (Keanu Reeves) è un ragazzone tranquillamente schizofrenico che sembra aver realizzato la vita sognata da tutti i nerd di tutti i tempi e luoghi: mite e talentuoso programmatore di giorno (Mr. Anderson), hacker di notte (Neo). In veste di Neo, è tenuto sotto controllo da, nell’ordine, la Polizia, da uno strano trio occhialuto e da un’organizzazione di cyber-terroristi capitanata dal carismatico Morpheus (Lawrence Fishburne) e di cui Trinity (Carrie-Anne Moss) è l’ingrugnita ragazza immagine ma anche letale come cobra. Saltando qualche passaggio: chi è il Bene e chi il Male? Ma soprattutto: chi l’avrà vinta?
"Matrix" si dispiega in una trilogia.
Il successo di pubblico e critica del film in oggetto, misero in cantiere, cinque anni dopo, "Matrix Reloaded" e "Matrix Revolution" licenziati a pochi mesi di distanza l'uno dall’altro. I due sequel sono decisamente deludenti: tutto il buono che "Matrix" aveva promesso, e che passeremo in rassegna più avanti, si conferma invece in quelle note stridule su cui, spettatori del 1999, ci eravamo dichiarati dubbiosi seppur accondiscendenti, e che passeremo in rassegna pure loro. I due film intanto non sembrano più necessari di un litro d’acqua fresca in un brodo denso e che andava bene così. La componente più deteriore del "fantasy" prende il sopravvento e, a onta dei colpi di scena così massicci da sembrare telefonati e a nuovi personaggi tagliati in un pessimo abito, si sviluppa un abusato schema proppiano di eroi, adiuvanti, opponenti e oggetti-valore apprezzabili da un punto di vista strettamente cinetico ma noiosi come imbambolarsi a seguire una luce stroboscopica. Gli interrogativi sulla Matrice prendono una piega New Age (fortunatamente) invecchiata malissimo e il sermone su Volontà e Libero Arbitrio, in chiave laico-quantitativa, più che chiarire i punti li oscura fin quasi a desiderare la distruzione di uomini, macchine e programmi in un unico falò liberatorio. Una sensazione che include anche il multiforme e perfettamente riuscito a metà "Cloud Atlas" cui non pare estranea una certa confusione delle loro creatrici. Ma qui ci occupiamo di "Matrix", il primo episodio, e lì ritorniamo. Ispirato (anche) alla Japanimation, "Matrix" ha suo gemello nel capolavoro di Oshii Mamoru, "Ghost in the Shell", che riecheggia in vari punti sotto forma di citazione e di soggetto. In quanto citazione, il codice verde-acido che introduce l’anime lo ritroviamo pari pari scorrere in più punti nella realtà simulata della Matrice fino all’agnizione finale di Neo che infine riesce a vedere come codice i suoi terribili avversari, un codice che non è più simbolico-testuale ma direttamente iconico, come si conviene in una Intelligenza Artificiale (forse) Senziente. Ancora più evidente, la "rinascita" di Thomas-Neo segue la stessa procedura dell’assemblaggio del maggiore Kusanagi Motoko in una sequenza onirica e magistrale in cui le tante cineprese, sospese a mezzaria da cavi a varie altezze, irrompono morbide e veloci sia in carrellate sia in panoramiche in un vero e proprio guscio (shell) materno in cui l’elemento fluido della conservazione e lubrificazione si fonde perfettamente con quello solido delle macchine e dei bulloni: la (ri)nascita di Neo è certamente più suggestiva di quella di Motoko. Dal punto di vista del soggetto, invece, la classifica si inverte: "Ghost in the Shell" è, in nuce, una storia d’amore, accennata ma potente in quanto impossibile, tra Bateau e Motoko; quella tra Neo e Trinity fa da inciampo verso uno sviluppo fantasy nel senso più deteriore, di cui il bacio di Biancaneve, invertito, è il momento peggiore. Quattro sono invece i punti di forza inattaccabili di questo film che, come scritto, resterà nella storia del cinema: il product placement, la colonna sonora, la direzione degli attori, la tecnica cinematografica.
Riguardo il primo, "Matrix" è esso stesso diventato un brand che, ai tempi, si proliferò in una serie animata ("Animatrix"), gadget, videogiochi eccetera. All’interno del film avviene invece il capolavoro sicché i marchi di occhiali, cuffie, telefoni cellulari e persino di modeste batterie a basso consumo sono integrati nella storia e costituiscono ancora oggi la libidine di ogni creativo pubblicitario. Inutile passarli in rassegna (a titolo gratuito, poi!) ma a nessuno saranno sfuggiti le messe in quadro, molto dettagliate, di quanto di più suggestivo e iconico avesse realizzato la scienza e la tecnica in quell’ottimistica bolla temporale che va dal Millennium Bug all’11 settembre 2001. Aggiungiamo solo che lo sportellino slittante di quei cellulari che tanto li faceva somigliare a un’arma automatica non ha mai più trovato equivalente tra la placida stasi degli smartphone.
La colonna sonora entra di diritto tra le eccellenze del film, andando ben al di là della funzione sonorizzante e ricoprendosi di veste documentaria; che si tratti del meticciato hard-rap-funk dei Rage Against The Machine, del trip-hop dei Massive Attack, dell’androginia apocalittica di Marylin Manson o del big-beat di Liam Howlett (leader dei Prodigy), la musica risuona social-esplosiva, da ascoltare ad altissimo volume in barba alla vicina pensionata, pronta a colonizzare spazi oggi confinati nell’arco delle cuffiette. Essa si integra alla realtà e alla simulazione, sottolinea i brand e veste perfettamente gli abbigliamenti rilassati e casual dei maglioni informi, dei pantaloni-quasi tuta come usano i camorristi agli arresti domiciliari, appena contrappunti dai noti scarponi di quella notissima marca pronti a trasformarsi nel latex e nella pelle che risaltano e brillano nei movimenti iper-cinetici di Neo, nel carisma di Morpheus e nella dinamica letale di Trinity cui non è negata l'indubbia femminilità. La musica, laddove attecchisce, provoca mutamenti, mutamenti da cui sono esclusi i tre agenti-senzienti, vestiti Walmart e connessi a un angoscioso e perpetuo rumore di fondo.
Gli attori, ognuno con la sua storia, tanto devono a "Matrix" da esserne stati annichiliti. Nonostante una carriera fruttuosa e lunga (ma non proporzionalmente larga) Keanu Reeves era e resterà Neo, così come Carrie-Anne Moss, nonostante "Memento" (C. Nolan, 2000), Trinity. Essi sono parte integrante dell’immaginario, statue. Minor esposizione, ma grandissime interpretazioni, sono invece quelle di Hugo Weaving (l’agente Smith) e di Joe Pantoliano (Cypher). Il primo, britannico naturalizzato australiano, oltre a una perfetta interpretazione macchinica di una IA, ha il suo exploit nell’uso della voce. Conviene vedere il film in versione originale già solo per sentirla, perfetta, controllata, scandita, modulata come nella migliore tradizione del teatro inglese. Essa illustra alla perfezione la sicura superbia di una macchina che si crede divina. Pantoliano, per chi lo ha poi "amato" ne "I Soprano" è la persona migliore che amiamo odiare quando ci sediamo in sala. Il ruolo di giuda gli è disegnato su misura e d’immenso si illumina nell’orgogliosa immoralità che lo anima, soprattutto nel monologo quando si mette a staccare le spine a corpi inerti che non può né baciare (Trinity), né schiaffeggiare (Morpheus) né mandare a quel paese (Neo). Sequenza magistrale.
Keanu Revees con quella sua fisicità un po' giuggiolona è diretto in modo straordinario: esso risulta convincente sia come action-hero sia come comico maldestro che inciampa tra le persone e le cose, che non comprende fino in fondo. Quando deve tenersi basso per non essere scoperto e arrestato, tra le sedie e i tavoli del suo ufficio, ricorda terribilmente Jimmy Stewart che nelle sue interpretazioni migliori non sa mai come accomodare le sue lunghissime gambe; quando Morpheus lo rimbambisce con rivelazioni incredibili, vediamo la sua espressione imbambolata e a bocca aperta cui, in un effetto irresistibilmente comico, sono mostrati i due pugni di Morpheus con la pillola blu e quella rossa, sicuro di averlo irretito come nel gioco delle tre carte.
Per meglio sviscerare tale ambivalenza, passiamo adesso (e infine) ad analizzare due sequenze che mettono in luce la rimarchevole tecnica cinematografica: l’incontro con l’oracolo e "i proiettili appassiti". L’incontro con l’Oracolo (Gloria Foster) si situa esattamente a metà del film, dopo un’ora e passa di fantasmagorie, in attesa del loro ritorno. Due tranquille cineprese in campo/controcampo inquadrano un dialogo decisivo: "Are you the Oracle?" – esordisce Neo; "Bingo" – risponde lei mentre sta sfornando i biscotti, operazione, detto senza ironia, decisamente cruciale. È una scena paradossale, in ansia per i biscotti (chi ha dimestichezza sa), piombati in edulcorato spot televisivo degli anni 50, con la massaia grembiulata, la cucina satura di colori cremosi e crepuscolari, di pessimo gusto, e di chincaglierie ed elettrodomestici di tutte le forme e dimensioni. Le due cineprese, classicamente, fissano le due figure al centro dell’inquadratura, sfocano impercettibilmente lo sfondo e si rispondono piano su piano (primi piani – mezze figure – figure intere) ben calcolando le proporzioni delle rispettive masse corporee. Anche i récadrages sono impercettibili e riposizionano centralmente le figure a fronte dei loro movimenti. È un saggio di quel cinema classico dal montaggio invisibile e tutto giocato sulla recitazione, in cui Reeves è bravo a fare il tonto ma non è Jimmy Stewart: fa cadere un vaso ma la sua faccia sembra non essersene accorta, sembra fatto apposta per essere intartato, come gli era successo con Morpheus. Maggior peso allora assume su di sé l’Oracolo che lo canzona affettuosamente e, per stabilire se per davvero lui "Is the One", l’Eletto, gli fa dire "Aaaaa" e dalla bocca aperta ne controlla lingua e dentatura. Alla fine Neo esce fuori con un biscotto caldo di dolceforno.
Dice la leggenda che il proiettile innocuo è una idea che Luis Bunuel, a corto di soldi, avrebbe voluto vendere a Charles Chaplin ma non poté farlo perché Chaplin aveva bidonato l’appuntamento e gliela aveva letta nel pensiero sicché la usò in "Il grande dittatore" (1940). Gratis. I proiettili che escono a centinaia dalle bocche di fuoco dei tre agenti e tutti rivolti verso Neo sono la summa del cosiddetto "Bullet Time", un marchio registrato dal talentuoso (e anche abbastanza antipatico, tipicamente nerd) responsabile degli effetti speciali John Gaeta e che, più di una invenzione, è una rivisitazione esponenziale dei celebri cavalli di Muybridge del pre-cinema. Le cineprese da una decina scarsa sono diventate 120, coadiuvate da software che modificano le immagini a piacimento nel tempo e nello spazio, e disposte in modo tale da coprire ogni punto di vista possibile. Le possibilità di accelerare, rallentare, stoppare i singoli frame crea quelle discrasie spazio-temporali che ne fanno vedere chiaramente la balistica a cerchi concentrici fino a fissare i proiettili a mezzaria finché, dopo che Neo ne prende in mano uno, essi cadono pesantemente e inesplosi a terra. Subito dopo Neo si libera dei tre agenti con un lentissimo balletto di kung fu che ne testimonia al contrario una velocità più inumana dell’inumano e ormai perduto agente Smith. Così, con una inversione, si perfeziona l’omaggio a Hong Kong e ai suoi film di salti e voli impossibili in cui le cineprese sono assimilate ai morbidi cavi che legano quelle e i protagonisti per rendere loro possibile camminare sui muri, restare sospesi a mezzaria, volare e tante altre amenità sempre apprezzate in sala. È la summa loro insegnata dal celebre Yuen Wo Ping durante quasi sei mesi di training tra l’Australia e la California. Il risultato, ancora oggi, è decisamente suggestivo.
cast:
Gloria Foster, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss, Hugo Weaving, Joe Pantoliano, Julian Arahanga, Tim Cortent, Marcus Chong, Matt Doran, Keanu Reeves
regia:
The Wachowskis
titolo originale:
The Matrix
distribuzione:
Warner Bros
durata:
136'
produzione:
Warner Bros
sceneggiatura:
The Wachowskis
fotografia:
Bill Pope
scenografie:
Lisa Brennan, Tim Ferrier, Marta McElroy
montaggio:
Zach Staenberg
costumi:
Kym Barrett
musiche:
Don Davis