Dopo lo speciale sugli autori emergenti, la redazione si interroga sulle condizioni di salute del cinema messo in scena da chi non è più un ragazzino. E si accorge che i grandi vecchi della settima arte sono ancora in grandissima forma
Quando all'ultima Berlinale i fratelli Taviani hanno conquistato l'Orso d'oro, abbiamo fatto una riflessione. Come può essere che due autori, che ultimamente avevamo considerato inesorabilmente destinati a un placido tramonto, vincano uno dei festival più importanti del mondo con una pellicola, come il loro "Cesare deve morire", così "rivoluzionaria"? Sì, perché i due cineasti italiani hanno trionfato in Germania con un'opera pressoché inaccostabile alla loro stessa produzione artistica, ambiziosa sia sotto il profilo della costruzione narrativa, sia sotto quello della messa in scena visiva.
Allora stavamo già lavorando al progetto di uno speciale sui giovani registi emergenti, un lavoro in cui abbiamo tentato di proporre al lettore una veloce carrellata sui nomi più nascosti del nuovo cinema mondiale. I due eventi sommati ci hanno condotto a una considerazione: ma siamo sicuri che le novità più rilevanti che la settima arte ci ha offerto negli ultimi anni siano direttamente proporzionali all'età anagrafica di chi le ha avanzate? Al che ci siamo rivolti al passato e abbiamo deciso di omaggiare anche un po' di vecchie glorie del mondo del cinema.
Quelli che trovate qui sotto sono tutti nomi che rispondono a due requisiti: hanno più di 75 anni e continuano a girare alla loro ormai rispettabile età. L'elenco è molto umorale, molto basato sulle preferenze dei singoli redattori e non vuole assolutamente risultare perentorio. Un elemento, però, ci colpisce molto: parliamo di una lista di grandi artisti che copre tutto il mappamondo. Dall'America profonda dell'epopea eastwoodiana al Giappone pulp di Wakamatsu, dall'Italia di Olmi ai resti illustri della Nouvelle Vague francese, ci troviamo di fronte a una serie di registi che continuano a dare lustro, oltre che all'arte che esercitano, anche al Paese da cui provengono, proseguono nel raccogliere applausi nelle maggiori rassegne e non smettono mai di raccogliere premi prestigiosi.
Una piccola, ulteriore precisazione: in questi frammenti sparsi che li descrivono con poche parole ci siamo concentrati ovviamente sulla loro tarda produzione cinematografica. Se è vero che si tratta di vecchie glorie, è altrettanto palese che il motivo principale della loro presenza in questo speciale è l'averci regalato, nella terza età della loro vita, ancora delle schegge di cinema indimenticabile.
Woody Allen (New York, 1 dicembre 1935)
Cinema come arte terapeutica, distrazione al male di vivere, Sparring Partner dove sfogare le nevrosi, specchio di Alice dove fuggire dalla realtà - quel posto orribile dove vivere eppure il solo dove si possa mangiare una bistecca per cena. Il genio comico di Allen lo innalza tra gli artisti chiave del novecento, maschera universalmente riconosciuta della comicità intelligente, di un cinema formalmente elegante e originale che guarda alla tradizione europea, tocca temi altissimi e si tortura con sempiterni tarli: l'arte e la religione, l'amore e la psicanalisi, ma soprattutto la vita e la morte. Tutto nascosto dietro la risata, l'ironia surreale, arguta, doppi sensi, calembour, la tradizione yiddish, la grande capacità di raccontare la vita difficile del borghese newyorkese intrappolato in un groviglio di nevrosi, di amori impossibili con donne splendide, cervellotiche, di sogni e speranze, di frustrazioni e arte, di magia e romanticismo che si fondono con la realtà a tempo con l'amato jazz. Al ritmo ossessivo di un film all'anno, nell'ultimo periodo Allen alterna ottime pellicole a sonore stonature in una corsa continua che lo porta a lasciare New York per ritrovarsi e perdersi in Europa, una corsa per restare sempre occupato, consegnandoci un cinema fedele a se stesso, che tanti dicono uguale, in realtà vario e coerente, dove la mano di Allen si ritrova inconfondibile, forse più stanca, ma sempre lucida. (D.D.L.)
Clint Eastwood (San Francisco, 31 maggio 1930)
Nei primi anni '70, nonostante a una minoranza fosse già chiaro che Hollywood stava prendendo sotto gamba gli esordi di Clint Eastwood dietro la macchina da presa, era francamente impossibile immaginare che il personaggio Clint, duro ispettore e pistolero senza nome, già iconico e consegnato ad una storia del cinema, sarebbe stato superato dall’Eastwood regista, pensare che il bellissimo attore dagli occhi di ghiaccio potesse farsi massimo cantore cinematografico degli Stati Uniti d’America tra fine Novecento e primi Duemila. Con una vertiginosa escalation, ai tempi de "Gli spietati" (1992) dovette inchinarsi sia lo Star System, che gli assegnò sacrosanti Oscar, sia la critica più dubbiosa. Non un episodio isolato, ma segno di una seconda giovinezza o meglio: di un inizio di vecchiaia consapevole, di chi ha saputo riversare su pellicola le esperienze di una vita intera, facendole universali, tramutandole in canti alti dove l’umanità dei vinti è sempre più onorevole del potere. Soprattutto gestendo un tema portante come quello dei figli senza padri e padri senza figli, Eastwood ha imbastito un’opera che, esplorando tematiche capitali del '900, giunge ai giorni nostri come riflessione sulla solitudine e la vecchiaia, nonché sulla solidarietà come rara arma per sopravvivere. Un messaggio molto più significativo di ogni possibile slogan politico. E lo fa con una sincera commozione ormai unica nella storia del cinema e, quando in "Gran Torino" – insieme a "Million Dollar Baby" summa e testamento di un cinema che tutti sono concordi nel definire come l’ultimo dei classici – l’eroe esce di scena, la consapevolezza dell’immortalità del mito si fa quasi religione. (D.C.)
Jean-Luc Godard (Parigi, 3 dicembre 1930)
Probabilmente il più grande regista del cinema moderno anche se (o magari perché) la maggior parte dei suoi film sono di difficile reperimento e visione. Autore di circa di un centinaio di "oggetti filmici" (corto-medio e lungometraggi, documentari, video-sceneggiature, videoclip, spot…), non esiste campo in cui il nostro non si sia cimentato, con pellicole da 8, 16 e 35mm, video e anche una leggera cinepresa di sua invenzione. Il suo esordio, "À bout de souffle" (1959), è anche l’unico successo commerciale ma tutta la sua produzione degli anni 60 (da "Pierrot le fou" a "Les Carabiniers") gode quantomeno di una buona reputazione. Diventa invisibile negli anni ’70, quando cancella il suo nome e si fonde nel collettivo Dziga Vertov, uno dei tanti gruppuscoli maoisti. Dopo aver cambiato due compagne, una, Anna Karina, musa e attrice del primo periodo, l’altra, Anne Wiazemski, nel periodo rivoluzionario, si lega a Anne-Marie Mieville con cui condivide un certo tipo di "oggetto filmico" più vicino alla fotografia e al documentario. Gli anni 80 registrano il suo ritorno, prepotente e anche inatteso, con un filotto di capolavori cha vanno da "Sauve qui peut (la vie)" a "Je vous salue, Marie", fortemente osteggiato dal Vaticano per l’uso troppo disinvolto delle nudità della Vergine (Myriem Roussel). Gli anni ’90 lo vedono realizzare le "Histoire(s) du cinèma", otto capitoli dedicati alla settima arte nei quali Godard si impossessa delle più significative sequenze di cento anni di film e ricostruisce a modo suo la storia di "un’arte senza futuro", come aveva sentenziato Lumière, nel senso che "essa è tutta al presente". La sua ultima opera, "Film Socialisme" (2011) non è ancora stata distribuita in Italia. (P.C.)
Otar Iosseliani (Tbilisi, 2 febbraio 1934)
Quella di Otar Iosseliani è una filmografia sfuggente e per qualcuno indecifrabile, in controtendenza con il candore che la contraddistingue. In realtà il grande regista georgiano non è mai criptico e oscilla in un’atmosfera più vicina allo scorrere delle giornate dei contesti che inquadra, piuttosto che adagiarsi su esigenze filmiche (anche nella quantità delle produzioni: la filmografia resta scarna seppur densa). Se i pochi possibili rimandi ci conducono ad alcune disamine buñueliane e a itinerari sociali alla Tati, il raccordo tra una macchina da presa che si tiene a debita distanza dai personaggi, una concezione acre e dolceamara della vita e un utilizzo dei tempi che non bada a premeditati e risaputi meccanismi, ne fanno uno sguardo unico e riconoscibile; di chi cava la verità facendo indietreggiare le scene madri, ricavando il (non)senso della vita dalle piccolezze all’apparenza insignificanti Anche nella sua vecchiaia Iosseliani è fondamentalmente rimasto un ottimista che brinda alla vita: nei deprimenti lunedì mattina che aprono le settimane, nei giardini in autunno dove sembra sintetizzare un cinema che si fa poesia, trova la quiete anche durante la tempesta. Certo è amaro ma non rassegnato, malinconico ma lieve, pungente ma mai catastrofista: i suoi antidoti alla sopravvivenza guardano alla purezza delle cose e la sua cifra stilistica è più vicina alla realtà di quanto lo spettatore è disposto ad ammettere, sebbene i fantasmi saggi del passato siano più intelligenti dell’umanità che finge di camminare. Anche se, così come de Oliveira, anche Iosseliani sembra sempre anticipare di un passo la contemporaneità; senza accellerazioni o tattiche, ma con beffarda e geniale leggerezza. (D.C.)
Ken Loach (Nuneaton, 17 giugno 1936)
Assorbita la vena più aspra del free cinema inglese, limandone gli angoli più leggeri, dopo l’esordio di "Poor Cow" con utilizzo di intermezzi da Nouvelle Vague, già con “Kes” - sua opera seconda, nonché vetta almeno del suo primo periodo – il cinema di Ken Loach diventa una realistica arena guerrigliera per e della popolazione marginale. Una durezza che scorre sin dalle vene fratricide: da "Kes" (1969) a "Il vento che accarezza l’erba" (2006), Palma d’Oro al Festival di Cannes, la continuità di lotta individuale e collettiva emerge già dalle radici primitive dell’essere umano e della storia di un popolo. Se fino all’inizio dei '90 il cinema di Loach avanzava ad intermittenze con all’attivo soltanto pochi film e un’invisibilità che lo teneva ai contorni delle luci della ribalta, con l’incendiario "Riff Raff" e il tragicomico "Piovono pietre" (giro di boa e un apice del suo cinema), Loach si erge a cantore di quella classe operaia da sempre decantata ma spesso rimasta fuori anche dai riflettori dello stesso cinema impegnato. Una lotta appassionata e a ritmi elevati (dal 1990 ad oggi: 16 lungometraggi per il cinema più partecipazioni a progetti collaterali o collettivi) e con una coerenza di sguardo rara a trovarsi nel cinema contemporaneo. Pur tra eccessi di generosità o di devozione verso l’amico e ormai storico sceneggiatore di fiducia Paul Laverty (il confuso "L’altra verità"), quello di Loach resta un cuore pulsante. E l’apertura a ritmi divertiti ("Il mio amico Eric" e "The angel’s share") indicano la volontà di non adagiarsi su traiettorie già note. Quella di Loach resta una battaglia aperta alla speranza per la vita. Per un mondo libero. (D.C.)
Manoel de Oliveira (Oporto, 11 dicembre 1908)
Manoel de Oliveira rappresenta nella storia del cinema (e, in assoluto, nell’arte moderna) un caso unico. Mai si era visto un autore ultracenterario lavorare con ritmi tanto vertiginosi: nella sua vecchiaia quasi la media di un film all’anno. E si ha la netta impressione che l’ultima fase della sua carriera sia, oltre che la più prolifica, anche la più ricca di grandi film. Non esiste al mondo un cineasta al contempo tanto vecchio e tanto giovane. Il peso degli anni sulle spalle si sente nei suoni delle parole dei suoi personaggi che condensano una cognizione di causa di una maturità e una lucidità tutt’ora incomparabile ma, frattanto, alcune parabole fulminanti e folgoranti danno l’impressione di indossare un manto florido, con intuizioni folgoranti che, più che stare al passo con i tempi, li trascendono, prendendo in contropiede la contemporaneità per così apparire, per l’appunto, sempre più energiche. E film dopo film l’aria apparentemente intellettualistica – ma, in realtà, semplicemente colta - si è spogliata fino a raggiungere un livello di limpidezza assoluta, paragonabile a un prezioso diamante millenario ancora nascosto agli occhi delle masse.Toccando, quando meno lo si aspetterebbe, sorprendenti frangenti di commossa autobiografia, come quando si dondola tra le braccia del "Porto della mia infanzia", tra adolescenza e suoi vecchi film. Con la dignità e l’umiltà di tornare sempre sui suoi abituali passi. Ogni sua pellicola è un "Ritorno a casa", un sipario che si alza e si chiude con discrezione. Eppure resta lì intatto, e noi lì, fortunati spettatori. (D.C.)
Ermanno Olmi (Bergamo, 24 luglio 1931)
Ermanno Olmi si è contraddistinto in più di mezzo secolo di carriera per un cinema umile e semplice, il più delle volte caratterizzato da un bramoso quanto salvifico ritorno alle origini. Cresciuto come autodidatta in campo documentaristico, Olmi presentò sin dagli inizi una certa propensione nell'inquadrare la condizione dell'uomo in relazione al lavoro ("Il posto", grazie al quale ottenne il primo grande riconoscimento a Venezia, ma anche "Lunga vita alla signora!") e soprattutto alla Natura e alla Storia (l'esordio de "Il tempo si è fermato", il capolavoro "L'albero degli zoccoli" premiato con la Palma d'Oro a Cannes, la poesia bellica e in costume de "Il mestiere delle armi", il documentario testamentario "Terra madre"). Si scorge altresì tra le opere del Maestro lombardo la necessità di tratteggiare un'umanità modesta e rispettosa che contrasti i mali e le involuzioni del progresso grazie alla semplicità, alle proprie origini rurali, al sacrificio dei poveri, alla riflessione e all'isolamento, sulla scia del maestro Ingmar Bergman. Un contributo immenso che il cinema italiano e internazionale ha colto anche nell'ultimo decennio attraverso poesie immerse in inconfondibili atmosfere storiche (oltre al già citato "Il mestiere delle armi" ricordiamo "Cantando dietro i paraventi", che ritrae la pirateria cinese del 18° secolo) e apologhi sulla religione, sul "vuoto" della fede e della chiesa, su un intellettualismo che cede alla sete di riflessione e di solitudine ("Il villaggio di cartone", "Centochiodi"). Nel 2008 Olmi ha ricevuto il Leone d'Oro alla carriera, doverosa onorificenza a un cineasta insignito dalla critica e apprezzato dal grande pubblico per la sua capacità di saper infondere in ambito cinematografico una lezione di coerente e solenne umiltà. (M.D.S.)
Roman Polanski (Parigi, 18 agosto 1933)
Omaggiato da un "Film Memoir" presentato all'ultimo festival di Cannes, uno dei maggiori registi viventi è da quasi cinquant'anni sulla cresta dell'onda per motivi artistici o personali. Di lui si sa più o meno tutto, dall'infanzia da sopravvissuto alla Shoah, alla giovinezza alla corte di Andrzej Wajda fino ai primi successi in patria che gli aprirono le porte per una carriera europea ("Repulsion") e americana ("Rosemary's baby"), fino al shockante omicidio della moglie Sharon Tate. E ancora la fuga dagli Stati Uniti per evitare il processo per stupro e la nuova vita in Francia.
Polanski è stato il regista delle ossessioni e delle sottili perversioni che corrono in superficie, dei fantasmi che ci accompagnano sull'orlo del baratro della follia; e se l'ultimo decennio è stato altalenante nei risultati, non sono mancate le soddisfazioni per progetti apparentemente atipici (ma nella sua filmografia non mancano operazioni anomale o ludiche): dal trionfo agli oscar per il sentito e bellissimo dramma "Il pianista", che parlava del duro tentativo di sopravvivere nel ghetto di Varsavia, alla commedia al vetriolo "Carnage", passando per il calligrafico romanzo di formazione "Oliver Twist" e l'intrigo politico-spionistico de "L'uomo nell'ombra". Queste ultime opere ci hanno ridato, dopo l'opaca prova de "La nona porta", un regista che sa scegliere un registro classico, sa puntare l'obiettivo come un bisturi facendo deflagrare le ipocrisie borghesi o far apparire le verità nascoste dalle trame occulte della politica. (G.G.)
Alain Resnais (Vannes, 3 giugno 1922)
Vicino alla Nouvelle Vague senza farne dichiaratamente parte, ma così incisivo da aver contribuito a formare lo stile moderno, quello di Resnais è un cinema giovane nello spirito, che ha coraggiosamente impedito al tempo di scalfirne l'originalità e la libertà espressiva. Un cinema elegante e spiazzante che si è confrontato alla pari con arte, musica, teatro, fumetto, saggistica, filosofia e soprattutto letteratura (forte il legame col Nouveau Roman), sempre in bilico tra poesia e fascinazione dell'immagine, strettamente legato alla parola nelle collaborazioni con grandi autori francesi come Queneau, Marguerite Duras, Robbe-Grillet e molti altri. Un cinema che ha sperimentato formalmente il rapporto tra piani narrativi, confondendo con ordine e rigore passato e presente, memoria, realtà e fantasia, verosimiglianza, realismo soggettivo e invenzione narrativa, che non ha mai temuto di perdersi nei labirinti, fossero gli infiniti corridoi di un albergo, quelli della mente, o quelli di una gabbia per topi. Ha messo al centro del palcoscenico i suoi personaggi e i loro incontri, denudandoli nelle loro fragilità e discrepanze, nelle loro nevrosi, follia, umanità. In un percorso coerente e affascinante i film degli ultimi anni hanno continuato a regalarci personaggi che comunicano cantando canzonette (l'incantevole "Parole parole parole"), malati di solitudine e malinconia sotto la neve ("Cuori"), ossessivi come erbe matte ("Gli amori folli"). E ora coi suoi 90 anni Resnais ci dice che nous n'avons encore rien vu. (D.D.L.)
Jacques Rivette (Rouen, 1 marzo 1928)
Fra tutti gli esponenti della Nouvelle Vague, Rivette si è sempre tenuto lontano dai manifesti, dai gruppi di lavoro, dall'abbracciare una forma di cinema piuttosto che un'altra. Ha sempre proseguito la sua carriera come un cavallo indomabile attraversando i decenni e regalandoci perle di bellezza rara e indecifrabile. Ma il Rivette che abbiamo visto a partire dalla metà degli anni 90 è addirittura sorprendente. Lasciando da parte i ragionamenti teorici che lo avevano contagiato trent'anni prima, l'ormai ultrasettantenne cineasta di Rouen ha imboccato una strada improntata al rigore, alla fermezza della messa in scena, alla purezza del sentimento. Le sue ultime quattro pellicole sono tutte attraversate da un filo conduttore difficile da spezzare: il melodramma, da affrontare nella sua immensa serie di sfaccettature. E così, dagli intrighi incrociati di "Chi lo sa?" al fascino gotico e fantastico de "Storia di Marie e Julien", Rivette arriva a regalarci un capolavoro di inestimabile lavoro con "La duchessa di Langeais", dramma di balzachiana memoria, dove la severità della messa in scena, scarna e parca, viene bilanciata dal crescendo emotivo di una storia impossibile, una storia di lacerante bellezza sentimentale impreziosita dalla prestanza (e, purtroppo, anche dalla menomazione) di Guillaume Depardieu che regala in quest'opera la sua migliore interpretazione. Un saggio stupendo su che cosa è amare un'altra persona. Rivette dimostra di vivere una seconda giovinezza: partendo dalle sue adorate radici letterarie continua a parlarci delle pene di cui l'uomo moderno soffre in continuazione senza trovare alcuna soluzione. (G.U.)
Ridley Scott (South Shields, 30 Novembre 1937)
Sono pochi, rari registi quelli che possono annoverare nel loro palmarès un’infilata di pellicole epocali come quella che ha aperto la carriera di Ridley Scott: "I Duellanti" (1977), "Alien" (1979), "Blade Runner" (1982). Un arco di cinque anni in cui il regista britannico azzeccava ogni intuizione, poi la sua attività dietro la cinepresa si diradava tanto in intensità quanto in qualità tanto che nei quindici anni successivi spicca solamente l’istant cult "Thelma & Louise" (1991) tra tante pellicole sotto tono. Seppure i successi critici siano oramai lontani il nuovo millennio offre a Scott l’ennesimo bagno di folla per "Il Gladiatore" (2000), un colossale peplum moderno che si rivela rapidamente essere il perfetto blockbuster che nel corso del decennio successivo sarà più volte rapinato (si veda ad es. "300" di Snyder, 2007). Ancora un lavoro azzeccato è il war movie "Black Hawk Down" (2001) quando ogni possibile riflessione autoriale sulla guerra viene lasciata tra parentesi per far spazio ad una sinfonia di pura azione. Però il percorso registico di Scott si fa pericolosamente altalenante tra lavori veramente deludenti – "Hannibal" (2001), "Le crociate" (2005), "Un’ottima annata”"(2006), "Robin Hood" (2010) – e delle pellicole che riescono invece a scavare con ironia nelle contemporanee idiosincrasie ("Il genio della truffa", 2003) o a fornire un affresco vivo della malavita americana dei seventies trovando angolature ancora inesplorate ("American Gangster", 2007). Ancora nuove prospettive su argomenti, luoghi e personaggi oramai logori sono quelle che possiamo trovare in "Nessuna verità" (2008) ultimo interessante lavoro di un regista che sa risorgere ancora e nuovamente per difendere l’unicità del suo sguardo. (S.P.)
Jean-Marie Straub (Metz, 8 gennaio 1933)
Nel 2006 un grave lutto ha colpito l'universo culturale europeo. In silenzio, nel suo stile, Danièle Huillet ha lasciato questa vita. Una grave perdita per il cinema francese, salvato però dalla continuazione dell'opera da parte di suo marito, Jean-Marie Straub. Il "vecchio" di Metz, infatti, ha raccolto i cocci di una vita insieme, sul set e fuori, e ha portato avanti la loro coerentissima opera: un affresco impressionante per la linearità, l'incorruttibilità delle loro idee. La coppia Straub-Huillet ha vissuto un'esplosione nuova, più matura, a partire da quel "Quei loro incontri" ambientato in Italia e basato sui "Dialoghi" di Cesare Pavese. Oltre i settant'anni, la coppia transalpina ci ha regalato, ancora una volta, un piccolo saggio di realismo e sentimento. La loro durezza in quello che molti hanno definito uno "statuto dell'immagine" non si è mai attenuata, semmai si è addolcita nel gusto con cui alla potenza della parola ha cominciato ad essere affiancato il piacere per un paesaggio soave, conciliante. Ma la grandezza del lavoro che Straub porta avanti sta ancora nella sua severità, nel suo essere ligio al dovere: il cinema è, prima di tutto, l'arte dell'impegno sociale, del risveglio delle coscienze. E tutto ciò che vi sta intorno è funzionale all'obiettivo principale. Fra finzione e documentari la carriera dei due (e poi del solo Jean-Marie) ha attraversato momenti storici e politici fondamentali per la Francia e l'Europa. Unico rimpianto per noi ammiratori italiani: se solo la distribuzione internazionale si fosse dimostrata più attenta all'opera di questi due indispensabili pensatori! (G.U.)
Jan Švankmajer (Praga, 4 settembre 1934)
Maestro di un cinema che infrange i canoni dell'ordinarietà, il ceco Švankmajer ha regalato al mondo della settima arte un surrealismo animato che prende vita da adattamenti letterari di impronta gotica (Poe, Carroll, Walpole, Goethe), da favole bizzarre e da una forte propensione alla tecnica dello stop motion. Universalmente noto per i suoi corti, il genio boemo si è fatto portavoce di un pensiero (stupendo) che si riflette in ogni sua opera e che trova linfa nel bisogno di animare l'inanimato, nel plasmare "vitalità" ed espressività nelle cose e negli oggetti, nel creare metamorfosi e smembramenti a livello sintattico, semantico e allegorico in maniera tanto orrorifica e disgustosa quanto sublime ("Dimensions of Dialogue", "Meat Love", "Darkness/Light/Darkness", "Food"). Altre caratteristiche peculiari del regista sono la ciclicità degli eventi ("Et Cetera") e le paure archetipe dell'infanzia ("Down to the Cellar"). Dopo essersi consolidato nell'ultima parte di carriera anche nel lungometraggio (l'esordio arriva solamente nel 1988 con il capolavoro "Alice", seguito sei anni dopo da "Faust"), la vivida irrazionalità del regista pervade anche questo nuovo squarcio di millennio: "Otesànek", storia di una coppia sterile che adotta come figlio un pezzo di legno, "Sílení", favola allegorica dove convergono incubo e pazzia, e il recente "Surviving Life" presentato due estati fa a Venezia come una commedia psicanalitica tra sogno e realtà. "La nostra civiltà non fa più affidamento sui sogni, dal momento che non possono essere capitalizzati". Jan Švankmajer è forse l'ultimo grande animatore vivente in grado di regalarci ancora oggi un mondo meravigliosamente deforme, inquietante, che ha condizionato non poco i maggiori animatori contemporanei d'occidente, Tim Burton ed Henry Selick su tutti. (M.D.S.)
Paolo e Vittorio Taviani (San Miniato, 8 novembre 1931 e 20 settembre 1929)
Provenienti dal mondo del giornalismo, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno dato vita nel panorama del circuito cinematografico nostrano a un'arte che prende forma soprattutto attraverso il dramma popolare e che fonda le sue radici in una disamina quanto mai diretta sulla storia e sulla politica dell'ultimo secolo d'Italia. I primi esordi indipendenti al lungometraggio si segnalano per una spiccata propensione ai temi di mafia, alle favole politiche, alle lotte rivoluzionarie figlie di una crisi dell'ideologia socialista ("I sovversivi" e "San Michele aveva un gallo", prototipi del cinema del riflusso della seconda metà degli anni settanta). I riconoscimenti dei maggiori festival internazionali sanciscono ai fratelli il successo definitivo, prima con la pietra angolare sul potere del pater familias in "Padre padrone", premiato a Cannes con la Palma d'Oro, poi con la toccante e poetica ricostruzione della resistenza partigiana in "La notte di San Lorenzo", vincitore del David di Donatello. Fino al Leone d'Oro alla carriera nel 1986. Dopo una lunga assenza (quasi dieci anni) nel cinema, i Taviani marchiano il nuovo millennio con la riproposizione del genocidio armeno in "La masseria delle allodole" (uno dei tanti romanzi adattati dal duo pisano, considerato unanimemente dalla critica un flop) e soprattutto con il fresco riconoscimento dell'Orso d'Oro a Berlino di "Cesare deve morire", originale punto d'incontro tra il Giulio Cesare di Shakespeare e il carcere di Rebibbia in una pellicola dalle forti tinte documentaristiche. Prima dell'inquietudine dei Dardenne, dell'umorismo nero dei Coen e dell'irriverenza dei Farrelly, i Taviani sono stati i primi a effigiare il concetto di cinema a due menti e quattro mani esibendo una compattezza e un'intesa tuttora intatte. (M.D.S.)
Andrzej Wajda (Suwalki, 6 Marzo 1926)
Cronista rigoroso e mai avvezzo al compromesso, instancabile narratore della società polacca attraverso oltre sessanta anni di storia, Wajda è uno dei maggiori autori cinematografici del presente. Dallo stile istrionico ha sempre saputo maneggiare con crudo realismo storie in precario equilibrio tra Eros e Thanatos senza negare sferzate d’un lirismo poetico che lungi dal perdersi in vani girotondi per esibire una raffinata calligrafia registica e il bello stile della sua cinepresa sono sempre stati grimaldelli utili a scardinare le psicologie di complessi personaggi figli d’una generazione compatta come la linea che marca il passaggio dal passato al presente ("Generazione", 1955). Con uno stile già quasi fatto e compassato che guardando ai grandi maestri russi riesce comunque a rimanere aperto al dinamismo hollywoodiano ci offre capolavori come "I dannati di Varsavia" (1957) e "Cenere e diamanti" (1958), vette d’un oscura bellezza quasi inarrivabili. Due meraviglie del cinema del secolo passato ancora oggi in grado di coinvolgere e turbare lo spettatore. Ad opere più strettamente politiche Wajda ha saputo alternare anche affreschi scollegati dal contesto storico ("Le porte del Paradiso", 1967) e gettare introspettivi sguardi sull’individuo contemporaneo ("Bosco di Betulle", 1970), ma sempre per farvi infine ritorno come con "L’uomo di Marmo" (1978). Padre di tutti i grandi autori polacchi del presente (Polanski, Kieslowski, Zulawski) Wajda riceveva premi alla carriera già verso i primi anni novanta ed inaugurava il nuovo millennio prima con quello dell’Academy e di lì a breve con l’Orso d’Oro alla carriera. Negli anni duemila Wajda, lungi dal ritirarsi in un aureo riposo, lavora instancabile come sempre e la sua intensa attività culmina con due grandi opere: prima "Katyn" (2008) con la sua straziante cronaca d’un silenzio durato decenni su un massacro compiuto dal regime sovietico e attribuito ai nazisti dimostrando ancora il suo stile affilato come un rasoio e poi con "Tatarak" ("Sweet Rush", 2009), epigrafe lapidaria dalla quale emerge un arido senso di morte avvolgente ogni umana generazione: quella passata che lentamente avvizzisce e quella presente che si consuma con la rapidità del batter d’ali d’una farfalla. Non temete, il maestro è ancora al lavoro. (S.P.)
Koji Wakamatsu (Wakuja, 1936)
Wakamatsu Koji, salvato dal cinema a 23 anni, dopo che era stato in galera da affiliato a una gang yakuza, è un autore politicamente engagé che ha provato a fare la rivoluzione in prima persona, pagandone le conseguenze. Nome storico della new wave nipponica degli anni 60, cambiò le regole del pinku eiga trasformando un genere commerciale e "pulp", ai limiti del pornografico, in un codice estetico che smantellava l'ipocrisia e andava violando tutti i tabù della società dell'epoca. Come faceva con i suoi primi e indimenticati cult, "Embrione", "Su su per la seconda volta vergine", "Violated Angel" fino a produrre di un dramma dall'erotismo estremo come "Ecco l'impero dei sensi" diretto da Nagisa Oshima.
Oggi Wakamatsu è un filmmaker di 76 anni che continua diligentemente la sua carriera di "autore contro", con alla spalle una filmografia vastissima (ha superato le cento opere) e i suoi ultimi lungometraggi hanno affrontato temi diversi con uno stile rigoroso e crudo: in "United Red Army" si è concentrato sulle ultime e più cruente azioni della falange terrorista che riuniva più correnti rivoluzionarie al suo interno e i cui leader si unirono poi al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina; "Caterpillar" è un dramma da camera su un reduce di guerra tornato a casa come tronco d'uomo (esattamente come in "E Johnny prese il fucile" di Dalton Trumbo), un apologo antimilitarista sulle perversioni incistate dalla guerra liberamente ispirato a un racconto di Edogawa Rampo. Dopo essersi interessato ai mali della società contemporanea giapponese, all'incomunicabilità e alla tremenda violenza provocata dallo stato di catatonia metropolitana, oggi, Wakamatsu, come molti altri artisti e intellettuali del Sol Levante, volge lo sguardo verso il passato del proprio paese. (G.G.)
Frederick Wiseman (Boston, 1 gennaio 1930)
Ultimo lascito del New American Cinema (nel 1964 produsse "The cool world" di Shirley Clarke), ma in realtà fiermanete libero da ogni possibile manifesto, Frederick Wiseman è da considerare il più grande documentarista statunitense dal dopoguerra a oggi. Introducendosi di volta in volta in importanti istituzioni socio-culturali americane (con incursioni – qua e là – in territorio europeo, francese), Wiseman ha messo in piedi con la sua opera omnia un affresco ampio, complesso e sfaccettato degli Stati Uniti d’America. Più che impegnato, il cinema di Wiseman è complicato come la realtà che mette in scena. E le situazioni più disperate (l’esordio "Titicut Follies", il fluviale "Near Death") non sono più o meno irreversibili di quelle riguardanti luoghi che siamo soliti frequentare, basti pensare a due capolavori come "Hospital" e "Welfare": gli strazi ospedalieri o le interminabili code a un ufficio di assistenza sociale sono analisi critiche che ci scuotono a distanza ravvicinata, vicissitudini ad altezza d’uomo dove la coscienza e la morale vengono scosse proprio perché immerse da capo a piedi in una realtà più veritiera che mai. Articolato nonostante sia spesso compresso in un unico luogo, il cinema del bostoniano Wiseman è una tappa imprescindibile per comprendere la storia recente degli Stati Uniti d’America, benchè, per forza di cose, riesca a parlare dell’umanità tout court. Alle soglie del nuovo secolo il regista realizzò "Belfast, Maine": straordinaria analisi di una città che ingloba tutto il suo cinema e fa da raccordo a una filmografia che anche nel corso dei primi 2000 non ha perso nulla della sua incommensurabile lucidità; preciso come un’attenta lettura dei processi legislativi, fisico come una rabbiosa scarica di pugni in una palestra di periferia. (D.C.)