In una pianura desolata quanto il Calvario, il capitano de' Medici ritratto da Olmi, tradito dai suoi alleati e condannato a un'implacabile agonia, è un fin troppo evidente doppio di Cristo. Fin dalle primissime battute il regista ricorre ai toni ed agli espedienti narrativi tipici delle sacre rappresentazioni e degli affreschi medievali: presenta ogni personaggio indicando con una didascalia nome e date di nascita e morte, associa a ogni figura un oggetto caratteristico (l'armatura brunita per Ioanni, i panni per sua moglie, il libro di Machiavelli per l'Aretino, il cappio d'oro per il generale Frundsberg, il fatale pezzo d'artiglieria per il duca di Ferrara) e impone alla messinscena una nota disincarnata e cupa, da tragedia del venerdì santo, assente solo nelle sequenze di corte, lo splendore delle quali è osservato come lampante indizio di decadenza morale.
L'intento, piuttosto chiaro, è fare apparire il giovane protagonista come un Redentore la cui opera è puntualmente frustrata, un Messia destinato ad essere abbandonato dalla propria gente, un San Giorgio che combatte contro il serpente della modernità per riaffermare i valori della nobile arte bellica dei padri: questo suo anacronistico rigore verrà inevitabilmente a scontrarsi con le magnifiche sorti e progressive propugnate (è il caso di dirlo) dalla tecnica rinascimentale, grazie alla quale i soldati non si scontreranno più, mireranno e basta.
C'è qualcosa di inestricabilmente ambiguo e difficilmente sopportabile in questa esaltazione, profondamente cattolica, di un implacabile mercenario: alla fine, viene da chiedersi per quali aspetti la guerra "antica" fosse preferibile a quella "nuova" (posto che un simile paragone abbia una ragione d'essere). La tecnologia bellica ha incrementato, ad esempio, il numero delle vittime civili, ma questo, nel film, non c'è: la gente comune è anzi ignorata o considerata con disprezzo, come i soldati che si scaldano "empiamente" bruciando il crocifisso e la nobildonna che cerca di parlare un'ultima volta al protagonista per chiedergli di "raccomandarla" presso il di lei marito.
Piuttosto che per questi aspetti, e oltre agli scontati, visto il calibro del regista e dei suoi collaboratori, pregi figurativi e filologici, "Il mestiere delle armi" sembra memorabile per l'intelligente e amara riflessione sulla valenza distruttiva della rappresentazione e, per estensione, dell'opera d'arte. I veleni della politica, le strategie militari, le considerazioni "machiavelliche" sulla fedeltà dei mercenari sono la cifra caratteristica dell'intreccio, e a più riprese Olmi dimostra come il destino degli uomini sia deciso tanto sul campo di battaglia quanto nelle stanze private dei politici: si tratta di una pratica ben più antica e consolidata dell'uso delle armi da fuoco, destinata ad assistere alla nascita di ben più terribili congegni di morte. Del resto, il falconetto che ferisce Ioanni compare "alla ribalta" in seguito al sollevarsi di un sipario di pietre: un vero e proprio teatro della crudeltà.
(Nota a margine: il nome dell'attore che interpreta Ioanni è Hristo. Anafora troppo facile? Forse. È un dettaglio che non c'entra? È vero, non c'entra. Però c'entra...).
(in collaborazione con
Gli Spietati)
07/06/2008