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TOHorror 17 - Film e vincitori

Il TOHorror Film Fest si conferma una realtà capace di raccontare la cultura del fantastico seguendo percorsi eterogenei nella produzione indipendente internazionale

Si è chiusa sabato 21 ottobre la diciassettesima edizione del TOHorror Film Fest. Nonostante le avversità il festival, battezzato a Torino da Dario Argento nel 1999, persiste nel proprio cammino attraverso le produzioni indipendenti di genere. E a dispetto del nome orrorifico, anche quest'anno ha abbracciato una moltitudine di sfaccettature della cultura del fantastico, divise in sezioni e opere provenienti da tutto il mondo che testimoniano un'apertura sempre maggiore a stili, argomenti e formati capace di intercettare tendenze senza svendersi a mode.


Concorso lungometraggi


brackenmore_tohBRACKENMORE
(Regno Unito, 2016, 72')
di J.P. Davidson e Chris Kemble

In ambito thriller-horror la provincia continua a covare minacce, a nascondere violenza e segreti dietro la facciata verdeggiante dei paesini rurali. Dalle vicende che meno si voltano al soprannaturale a quelle più inserite nel genere, lo scarto fra città e campagna è una costante cinematografica che attraversa il tempo e i quattro angoli del globo, particolarmente adatta a raffigurare tensioni e instabilità sia collettive sia individuali, tradotte nell'ambiguità del luogo sconosciuto e isolato dalla società moderna che ben presto, a torto o a ragione, si rivela essere anche nemico.
In "Brackenmore" converge più di un ingrediente proveniente dal filone: l'individuo solo, traumatizzato, incerto di se stesso, in fase di transizione; lo scontro con la piccola comunità chiusa che da diffidente diventa ostile; il sotteso esoterismo che attraversa la storia da cima a fondo, denso di indizi e inquietudini dapprincipio passati in sordina. Indizi e inquietudini di cui si accorge troppo tardi Kate, giovane londinese che dopo la morte di uno zio fa ritorno a Brackenmore, villaggio irlandese in cui è nata e dove non mette piede fin da bambina, da quando i genitori le sono morti in un incidente d'auto. Presa una stanza in una guest house, Kate si trova spaesata e confusa fra la gestione burocratica dell'eredità dello zio e un posto natio di cui non ha alcuna memoria e dove chiunque sembra eccentrico, agli occhi di una ragazza abituata ai modi metropolitani. Per fortuna c'è il bel Tom con cui stringere amicizia, che la distrae tanto dai problemi personali da cui ha colto l'occasione per fuggire (un matrimonio comatoso, una gravidanza forse indesiderata) quanto dalle sinistre avvisaglie che si moltiplicano sotto forma di fotografie sbiadite, teste di capra mozzate, bambini spettrali, apparizioni notturne, reminiscenze. Una sera Kate viene aggredita da un uomo mascherato e l'ipotesi che Brackenmore celi qualcosa di oscuro legato a una qualche tradizione antica, condivisa da tutti gli abitanti, si concretizza.
A fronte di una trama affatto originale, Chris Kemble e J.P. Davidson sfruttano bene la location irlandese da cui partire per rarefare esponenzialmente l'atmosfera, collocando l'ansia crescente di Kate fra le maglie di una regia senza sbavature, attenta alla contrapposizione di ambienti interni ed esterni, carichi di significati pronti a cambiare segno a ogni twist. Né la prevedibilità di questi ultimi né certe soluzioni figlie del budget ridotto guastano l'efficacia anzitutto climatica dell'opera, malgrado qualche cessione all'enfasi. Meno grottesco di "Puffball" di Roeg, meno radicale di "Calvaire" di Du Welz, senza l'ironia crudele che permeava i primi lavori di Ben Wheatley (tre esempi con cui il film intrattiene rapporti di lontana parentela), "Brackenmore" gioca le carte del dramma della solitudine tingendolo di sangue e occultismo, dedicando alla propria protagonista, la brava Sophie Hopkins, il tempo di un ritratto dolente di cui l'horror si fa metafora.
Voto: 7


dis_tohDIS
(Usa, 2017, 60')
di Adrian Corona

Dalla prima scena "Dis" stabilisce una forza oggettiva e un limite soggettivo. La forza è l'assenza di compromessi, con lo spettatore in primis; il limite, pure. Non è semplice decidere se il limite sia maggiore o minore alla forza. Più chiari invece i riferimenti a determinati stilemi di una fascia di cinema estremo che vive lontano dai riflettori, realizzato con attitudine all'essenzialità (o in regime di povertà) ma non rivolto al trash, mirato all'autoriale piuttosto che all'amatoriale. Stilemi che qui, sebbene ogni tanto sappiano di maniera, non si trasformano in aderenza a un modus operandi conformato o in fiero e gratuito sbandieramento di eccessi. Certo, "Dis" vive anche di eccessi ed eccedenze ma dà comunque l'idea di una messa in scena che non avrebbe potuto essere messa in scena diversamente. La storia di un uomo che si avventura in una foresta per capire cos'è successo alla donna tanto amata, incappando così nella leggenda della mandragora (creatura metà umana metà vegetale) e in un sadico carceriere mascherato, è il filo sottile a cui è appeso un film dove ciò che conta è la tensione dello stallo, le malie della violenza, l'estetica minimalista dello shock.
Il fatto che la prima battuta di dialogo arrivi a venticinque minuti dall'inizio dichiara l'intenzione di annichilire lo spettatore, costretto a saltare fra criptiche sequenze di tortura sullo sfondo di edifici abbandonati fatiscenti, vagabondaggi nel fitto degli alberi, donne nude incappucciate che sbucano e spariscono come fantasmi. Il tutto fissato fra sudiciume e natura incontaminata, fra silenzi e grida, fra l'immobilismo delle scene più brutali e una macchina a mano mai confusionaria. Al netto dei meriti oltranzisti, la regia si sofferma su una zona centrale di flashback in b/n a mo' di antefatto, nel tentativo di spiegare alcune cose. Un detour che pur girato da Adrian Corona con eleganza lascia emergere lievi impacci attoriali ed è superfluo, stonato, un'occasione mancata per far durare il film qualche minuto in meno (senza intoppi, ma così sarebbe stato un mediometraggio) e per inquadrarlo in una condizione (anti)narrativa totalmente sospesa. Difetto marginale che non penalizza la forza di "Dis", la sua capacità di stritolare la visione nella morsa di un'opera con tutti i crismi necessari a spaccare in due i giudizi - che è sempre sintomo di potenza, di sfida. Nella cura tecnica, della fotografia in particolare, il film di Corona scova l'angoscia in una manciata di elementi: ritmici, formali, figurativi, impiegati così da spingere il risultato finale sul confine dell'ambizione arthouse senza mai perdere coscienza della portata dei mezzi e dei talenti a disposizione.
Voto: 8


redwood_tohREDWOOD
(Regno Unito, 2017, 75')
di Tom Paton

Fra le varie ambientazioni into the wild utilizzate dalle storie del terrore, il bosco sperduto occupa una posizione privilegiata. Grotte sotterranee scavate dall'erosione dell'acqua, vette impervie innevate, distese desertiche alla periferia della civiltà non reggono il confronto: non c'è location naturale che sia stata declinata con così tante varianti, così tante volte. Assodati le fiabe classiche o "La casa" e i suoi derivati, lo testimonia anche la recente produzione horror, fra gli alti e bassi di "Jukai", "Backcountry", "Honeymoon", eccetera. Proprio con questi ultimi due "Redwood" condivide sia i luoghi sia l'affinità tematica centrale e i sistemi in cui il bosco si fa rappresentante di condizione-limite psicologica e sentimentale prima ancora che fisica, diventando tanto palcoscenico quanto estensione simbolica di dinamiche e conflitti di coppia.
In "Redwood" Beth e Josh, incauti fidanzatini, si addentrano nel Redwood National Park con zaino e tenda per un paio di giorni di escursione lontani dalla città, dal lavoro e dal pensiero della malattia di Josh, che ha appena iniziato un ciclo di chemioterapia. Lo scopo è ritrovare una serenità che sta sfuggendo loro di mano, messa alla prova da un fattore estraneo (la malattia) che subito si reifica nell'estraneità dell'esperienza selvatica a contatto con la natura incontaminata, portando in superficie da sotto la patina del consolidato legame affettivo idiosincrasie, paure, reticenze, sospetti. In più, Beth e Josh trascurano i moniti di ranger Steve e lasciano il sentiero battuto per avventurarsi nella zona proibita del parco, dove la sera risuonano fra gli alberi strani versi bestiali, e dove nell'oscurità si aggira Vincent, sedicente ranger a spasso con una borsa piena di paletti di legno acuminati.
Una cesura netta divide "Redwood" in due. Una prima parte preparatoria e dialogica dove i tradizionali campanelli d'allarme (rumori, ombre, sensazioni, ecc.) scandiscono approfondimenti sulla relazione amorosa, carica di una tensione dapprima ordinaria, relativa ad atteggiamenti reciprocamente mal sopportati da cui traspaiono tutte le difficoltà dello stare in coppia, specie quando sotto pressione, in situazioni non familiari; una seconda parte dove l'horror puro dilaga, la minaccia assume forma e il film diventa un survival frenetico in corsa a perdifiato verso il finale che non ti aspetti. Il passaggio è lampante ma non disarmonico: nucleo principale della storia è fin dall'inizio la sopravvivenza, man mano insidiata da nemici diversi, concreti o metaforici, ed è sulla suddivisione precaria fra minaccia e minacciato che "Redwood" basa il proprio crescendo e sferra i colpi più riusciti. Ripetitiva ma giusta la sovrabbondanza di carrellate aeree, usate alla "Shining" come false soggettive di un pericolo incombente: grazie a queste, al senso di claustrofobia costruito in montaggio, alla buona performance di Tatjana Nardone, il film procede sicuro e si salva dal già visto. No, precisiamo: "Redwood" l'abbiamo già visto eccome, ma altre volte era peggio di così. Cammeo (autoironico, dato il suo passato in "Buffy") di Nicholas Brendon.
Voto: 6.5


willits_tohWELCOME TO WILLITS
(Usa, 2016, 82')
di Trevor Ryan

Un vecchio televisore, uno spot anti-marijuana, Ronald Reagan, poi il faccione quadrato di Dolph Lundgren, e sai già che "Welcome to Willits" è un film da prendere molto sul serio. Quando infine appare un alieno cattivo in lattice che neanche nei peggiori X-Files, e poi, sorpresa!, è tutto un sogno (ed è soltanto la prima scena), allora è forse amore. Il film di Trevor Ryan rientra appieno in una vasta categoria di horror che fanno dello sdrammatizzare una bandiera, maneggiando qualcosa di non facile, la leggerezza, senza sacrificare un'incisività orrorifica disturbante, affondando più o meno il pedale dello splatter - che comunque non è il punto. Ryan, con il fratello Tim a sceneggiare, compie un'immediata operazione da collezionista di generi e sottogeneri, acchiappando spassionatamente cliché dello slasher, della commedia sballata, del body horror vecchio stampo, dello psycho-thriller, miscelandoli senza rovelli, pedanteria né libido postmoderna, il che con ogni probabilità è il motivo per cui "Welcome to Willits" funziona abbastanza bene nei confini del suo proposito.
Nel raccontarci dello zotico zio Brock che coltiva e consuma vagonate di erba nella sua catapecchia fra i boschi ed è convinto di essere perseguitato dagli alieni, il film prende in prestito gli occhi della nipote Courtney, atterrita dal parente e dalla sua compagna altrettanto fattona. Il delirio psicotico di Brock degenera e incrocia la strada del solito manipolo di giovinastri arrapati e facce da schiaffi, in una kermesse di fucilate e teste segate via, di visioni lisergiche, corpi fatti a pezzi, omini grigi, dialoghi sconnessi. A un tratto spunta il pallore di Rory Culkin, biascicante e sballato pure lui, e Lundgren parla allo zio Brock attraverso la tv, nei panni di uno sbirro tutto mascella tirata e modi rudi, dentro un telefilm poliziesco ridicolo.
Non proprio un trionfo completo, però. "Welcome to Willits" paga una staticità iniziale combattuta da una struttura a montaggio parallelo che invece di dettare ritmo estenua i tempi, zavorrati dalla verbosità. Non pesano invece sul rendimento le ovvie ascendenze cinematografiche: anziché riverite singolarmente in dettaglio, sono raccolte e rilanciate in quanto componenti di un'unica grande vena, quella degli autori comedy horror esordienti negli anni Ottanta. Tim e Trevor Ryan riecheggiano con meno inventiva ma in comunione spirituale l'approccio di Raimi, Coscarelli, Henenlotter, Yuzna, eccetera, un'eco rafforzata dalla presenza di Bill Sage che caratterizza lo zio Brock come una via di mezzo tra Jeffrey Combs e Bruce Campbell; e rafforzata doppiamente dalle atmosfere quasi identiche a quelle di un altro nostalgico, ignorantissimo sguardo indietro, la serie "Ash vs. Evil Dead". Non stupisce il nome di Uwe Boll fra i produttori esecutivi.
Voto: 7


the_blackgloves_tohTHE BLACK GLOVES
(Regno Unito, 2017, 93')
di Lawrie Brewster

L'Owlman, l'Uomo Gufo, è un personaggio già apparso in "Lord of Tears", onesto horror low-budget che si era fatto notare quattro anni fa, sempre a firma Lawrie Brewster (regia) e Sarah Daly (sceneggiatura). Dove anche nel 2013 il duo scozzese si cimentava con ricette collaudate dalla Hammer, che proprio in quegli anni si riaffacciava sul mercato con "The Woman in Black", in "The Black Gloves" i riferimenti letterari e filmici si spingono ancora più in là e deflagrano, facendosi molto ingombranti. Lovecraft e Poe, Wise, Clayton, Tourneur e il cinema gotico italiano sono (cercati) in ogni fotogramma, nei giochi di luce e ombra, nei contrasti del bianco e nero, nelle atmosfere torbide intrecciate alla confusione di piani psicologici e fantastici, su uno sfondo scenografico ancorato ai cardini della suspense - ville isolate, ritratti misteriosi, scogliere schiaffeggiate da onde burrascose. Chissà, forse non c'era modo più adeguato di raccontare la storia rétro di uno psicologo che tenta di rattoppare il senso di colpa provocato dalla morte di una giovane paziente dedicandosi alla cura di una ballerina catatonica, finita nelle grinfie di una inquietante tutrice spagnola, mentre un'entità con artigli e testa di gufo turba la sanità mentale di tutti quanti. Però la sensazione è che la ricostruzione filologica sia vittima di una gestione di potenzialità inespresse, se non espresse nello spazio chiuso dell'emulazione, vuoi per demerito vuoi per penuria di mezzi economici. Il tributo estetico prevale sul resto; non un difetto in assoluto (pensiamo a Del Toro, a Hélène Cattet e Bruno Forzani, a Guy Maddin), ma un approccio che in mancanza di esperienza, strumenti o senso critico (o dissacrante), contando sul solo sostegno della devozione alle fonti, qui diventa d'intralcio.
Perciò: "The Black Gloves" è un lavoro da buttare? No, almeno non in toto. Avanza a scossoni, fra momenti notevoli (il finale alla "Black Swan" è visivamente potentissimo), recitazione naif voluta oppure no, inciampi nella buffonaggine, fotografia e angoli di ripresa e soluzioni di montaggio che nella smania di omaggiare finiscono a volte per scimmiottare. L'Owlman somiglia a un boogeyman da creepypasta, piuttosto che a una tremenda creatura semidivina assetata di sangue concepita da uno scrittore o da un regista del calibro dei nomi chiamati in causa. Macarena Gómez, icona horror iberica già in "Dagon" di Stuart Gordon, va intenzionalmente in overacting e funziona, grazie a una fisionomia uscita dallo stesso calco di Barbara Steele. Lei, alcune brevi divagazioni oniriche, una morbosità suggerita nel triangolo psicologo-ballerina-tutrice regalano ragion d'essere a un film nel quale altrimenti la dichiarata ispirazione classica sarebbe stata un'impalcatura solitaria, malferma, insufficiente. Nulla di grave: Brewster ha mostrato altrove discrete capacità.
Voto: 6


stranger_tohSTRANGER IN THE DUNES
(Usa, 2016, 92')
di Nicholas Bushman

La figura dell'ospite incomodo ha in elenco numerose personificazioni nella storia del cinema, ma sempre con il ruolo di agent provocateur in grado di spostare equilibri e scombinare ordini prestabiliti: interiori e individuali o più sovente - o di conseguenza - sociali, minando patti di convivenza spesso inerenti la sfera familiare. Se non è lecito accostare "Teorema" e "The Guest" nella stessa frase né per dare conto di "Stranger in the Dunes", è invece appropriato implicare nel discorso Polanski, aleggiante nel film di Nicholas Bushman (classe 1984) sia per le assonanze con "Il coltello nell'acqua" sia per un certo impianto teatrale. Anche qui, tre protagonisti contati e un singolo ambiente-prigione: una coppia sposata che riceve la visita di un vecchio amico durante una vacanza in solitario trascorsa presso la casa estiva affacciata sulla spiaggia. Già prima dell'arrivo di Wes, il matrimonio di Diana ed Elliot sembra più conflittuale che amorevole, e l'improvvisata dell'amico, latore di rapporti di ambiguità fin dal primo ingresso in scena (con Diana a torso nudo affatto preoccupata di coprirsi il seno), scatena l'esasperazione dei sentimenti di gelosia, di rivalità, di sfida. Le frequenti panoramiche e i grandangoli sulla location balneare entrano in dialettica con i nervosismi saettanti fra i personaggi, amplificano distanze spaziali ed emotive, traslano i punti di fuga in punti di rottura narrativi, così come i piani ravvicinati all'interno della casa paiono addossarsi ai corpi per effetto di dialoghi che dal sarcasmo amicale virano in fretta al veleno, ognuno dei quali dà l'impressione di essere maturo abbastanza per sgocciolare nell'ultima, fatidica goccia.
Il vaso trabocca inevitabilmente dopo quarantacinque minuti, inondando i corridoi - anch'essi polanskiani - di un labirinto psicologico dove le sagome di realtà e allucinazione si sovrappongono, fra omicidi forse mai avvenuti e persistenti strappi nel piccolo, circoscritto tessuto relazionale rappresentato. Nient'altro che una virgola prima della svolta definitiva e spiazzante nel paranormale conclamato, che mantenendo la rotta teatrale di una situazione "dell'assurdo" non danneggia il film nonostante il passaggio da thriller da camera a b-movie fanta-horror in area Twilight Zone. Definizioni sommarie, si intende. Mutate anche le strategie estetiche: nel nuovo assetto il paesaggio marittimo va dall'espressionista all'astratto e fa da contesto all'apertura di un orizzonte argomentativo che cessa di tenere al centro gli attriti della comunicazione interpersonale arrischiandosi invece in campo ontologico, scurendo le tonalità di quella che già era una tesa, riuscita, spietatissima commedia nera, trascinandola a uno stremo grandguignolesco sulla meschinità della natura umana e sul delirio di onnipotenza. Nella diegesi e nella prova d'attore, i due maschi, pure bravi, sono travolti da Delphine Chanéac, l'ibrido Dren in "Splice" di Vincenzo Natali.
Voto: 8


offensive_tohOFFENSIVE
(Regno Unito, 2016, 102')
di Jon Ford

Nel recente passato alcuni film hanno provato a mettere a tema, con o senza allusioni sociopolitiche, la gioventù molesta, bande di pre-adolescenti, adolescenti o post-adolescenti andate oltre la soglia del teppismo ordinario. Tre in rilievo, per qualità diverse: "Eden Lake" di James Watkins, "Ils" di David Moreau e Xavier Palud, "Harry Brown" di Daniel Barber. Il lavoro di Jon Ford, senza H, possiede il medesimo codice genetico e fra quelli citati presenta minor grado di separazione con "Harry Brown", per l'evidenza impiegata nell'allestire la faccenda (anche) attorno all'opposizione generazionale, nonché attorno a enormi interrogativi morali. Da un lato, in "Harry Brown", Michael Caine, ex marine vessato da teenager abitanti di una zona popolare degradata a sud di Londra. Dall'altro, in "Offensive", Bernard e Helen Martin, pensionati americani traslocati in un villaggio rurale in Francia, paradiso sonnolento tutto prati fioriti e casette di campagna non fosse per un gruppo di ragazzi annoiati che, smartphone sempre in pugno, intimidiscono chiunque, specie gli anziani. Dove il primo era efficace negli sviluppi thriller perché forte del connubio fra ritratto personale e affresco sociale, "Offensive" compensa le carenze della figurazione dei personaggi, tutti disegnati a punta grossa, con un'efferatezza di genere che eleva la morte dell'empatia a spirito del tempo. Mancato il bersaglio della battaglia fra età (non bastano gli smartphone per dare volto alle nuove generazioni così come non basta una teoria di tic senili per descrivere quelle passate), il film, forse non conscio, appiana le divergenze anagrafiche situando vecchi e giovani nella stessa pessimistica ottica hobbesiana.
Tradizionalmente i nessi fra gioventù e violenza nutrono riflessioni intriganti e complesse, di ordine disparato, prestandosi bene anche a trattazioni di problematiche più vaste, tentacolari. Non è questa la circostanza adatta a scomodare Narciso Ibáñez Serrador o "Il nastro bianco", ma va detto come pure "Offensive" tenti (invano) di stabilire connessioni concettuali fra due aspetti dell'aggressività, lungo una corda tesa fra genesi e applicazione della violenza. Lo fa però colmando le ellissi del capolavoro di Haneke con flashback bellici di rastrellamenti nazisti troppo nudi, troppo intenzionati ad allargare il divario fra la saggezza di una memoria storica e il presunto nichilismo di una contemporaneità irresponsabile. Ed è infatti liberandosi della farragine didascalica, accettando il proprio carattere elementare, che il film dispiega una durezza inattesa, toglie la veste manichea (e reazionaria) e ingrana nel rispolverare la questione ormai non più solo copyright Usa della giustizia fai-da-te, delle perplessità in merito alla demarcazione fra giustizia e ritorsione. Scatenando sismi etici che spalancano crepe fra azioni, reazioni e punizioni, costeggiando "Cane di paglia", "L'ultima casa a sinistra" e dintorni, "Offensive" guadagna personalità e incalza verso un epilogo crudo, agghiacciante, senza speranza per nessuno, di intensità eccezionale. Ma che fatica arrivarci.
Voto: 7


rokkur_tohRIFT
(Islanda, 2017, 111')
di Erlingur Óttar Thoroddsen

Ennesima coppia sotto esame, ennesima interazione fra paesaggio naturale ed emotivo. Il Norden ha di che capitalizzare con il proprio landscape e nelle ultime decadi l'orbita horror-fantastica ha trovato alloggio ottimale fra nevi, ghiacciai, foreste di conifere e lande vulcaniche, nelle peculiarità geografiche e culturali di "Lasciami entrare" di Tomas Alfredson, "Sauna" di Antti-Jussi Annila, "Troll Hunter" di André Øvredal, "Rare Exports" di Jalmari Helander, eccetera; d'altronde anche Bergman nel 1968 con il magnifico "L'ora del lupo" aveva sposato uno sguardo di genere sui generis impreziosito dalla simbiosi con le suggestioni del territorio scandinavo della riserva di Skåneleden. Seguendo la scia, "Rift" trasporta le coordinate in Islanda e si salda allo scenario della penisola di Snæfellsnes, ai piedi di un ghiacciaio citato da Jules Verne in "Viaggio al centro della terra" e attorno al quale, fuori dalla finzione filmica, si concentrano le attenzioni di ufologi e cultori del paranormale. In un minuscolo villaggio locale, fra le pareti di legno di una baita solitaria, Einar e Gunnar, ex fidanzati, fanno fronte alla loro storia d'amore giunta a termine di fresco. Gunnar è arrivato in fretta da Reykjavík a causa di una strana telefonata in cui Einar riferiva di avvertire inspiegabili presenze notturne.
Erlingur Óttar Thoroddsen, regista e sceneggiatore, scolpisce lo stato psicologico dei due personaggi nell'isolamento ambientale, approfittando dei silenzi, della profondità di campo (o dei fuori campo), dei cromatismi, dei margini dell'inquadratura in una sovrascrittura di lessico specifico del cinema horror, snocciolato freddamente in silhouette che attraversano spiragli di porte socchiuse, "c'è qualcuno?" sul portico dopo aver udito rumori sospetti all'esterno, infrarossi da found footage, jump scares audiovisivi, false verità, rivelazioni. Ciò che poteva essere un'insipida giostra di cliché ha invece la temperatura e il battito lento di un dramma intimistico punteggiato da norme, snodi, simboli e convenzioni che di volta in volta rimpolpano l'elaborazione del rapporto sentimentale, dando nuova spinta al confronto caratteriale e alla messa a nudo di sensibilità maschili che sarebbe un errore associare unicamente all'orientamento sessuale dei protagonisti. I fantasmi di "Rift" sono quelli dell'affetto, del rimosso, del non detto, della melanconia, e i misteri (di derivazione thriller o metafisici) dentro i quali Gunnar ed Einar provano ad accettare il lutto della loro relazione sono il perno di un'indagine sulle ferite dei legami amorosi, sulla fragilità, sulle asperità della negoziazione di sé con l'Altro, sulle (s)conferme dell'identità. Omosessualità non granché tematizzata, per fortuna; fotografia assiderata, da manuale di film nordico, e non è una pecca. Tutto assai preciso, asettico, geometrico, sull'orlo della mania di controllo perfino nel lasciare aperti enigmi, incaricando lo spettatore di riempire gli spazi bianchi.
Voto: 8


shandas_tohSHANDA'S RIVER
(Italia, 2017, 90')
di Marco Rosson

Con "Shanda's River" siamo in zona amatoriale, o nei pressi. Un aggettivo dai più utilizzato in accezione dispregiativa, una categoria di cui è facile parlare male ma a cui non mancano pregi ed estimatori, soprattutto nelle ramificazioni ultrasplatter che hanno alimentato tempo addietro la relativa fama sotterranea di gente come Andreas Schnaas, Alex Chandon, Olaf Ittenbach (Jörg Buttgereit è un "a parte"). Attribuire valore esclusivamente negativo alle produzioni amatoriali sarebbe fare torto alla Troma, al novero gremito di registi oggi affermati ma svezzati in quel nido, e all'altrettanto gremito mucchio di registi dilettanti che scalpitano nell'invisibilità e portano avanti a testa alta e portafoglio vuoto una nozione di cinema che, inutile negarlo, spesso non ha nulla a che spartire con la buona qualità e tuttavia quasi sempre riguarda una passione esorbitante e un impegno rari altrove. Senza contare i non pochi film sbocciati da finanziamenti grossomodo cospicui, da nomi grossomodo altisonanti, il cui risultato finale è degno dell'appellativo "amatoriale" - adesso sì, usato in spregio. È una questione di proporzionalità, di contesti. E con le sue proporzionalità, nel suo contesto, il film di Marco Rosson non è disprezzabile.
Ambientato a Voghera, di cui Rosson è originario, "Shanda's River" dispone nel meccanismo narrativo del loop temporale, parecchio in voga ultimamente, una storia di magia nera, sette esoteriche, omicidi rituali e perché no, disagio psicologico. Protagonista è Emma, una professoressa straniera in Italia per una ricerca su una donna accusata di stregoneria giustiziata nell'Ottocento nel comune lombardo. Uccisa a ripetizione da due tetri figuri mascherati, condannata a rivivere la stessa giornata all'infinito, Emma attraversa tutti i possibili stati d'animo del caso fin quando decide di rompere la catena con l'aiuto di un giornalista investigativo, accendendo la miccia della lotta fra bene e male.
Se un regista amatoriale contiene il germe dell'autore maiuscolo è solito notarsi, così come esistono registi che anche in mutande compiono miracoli. Rosson non compie miracoli e a giudicare da "Shanda's River" non contiene ancora germi (ma ok, prima di sentenziare bisognerebbe recuperare il suo primo lungometraggio "New Order": nel cast, Franco Nero). Fa ciò che può con ciò che ha. A chi gioverebbe un lista dei corposi difetti del film, che comunque sono quelli che ognuno può immaginare da solo? Limitiamoci a segnalare il più macroscopico, il montaggio che stacca ogni due secondi circa, ed eseguito il lavoro sporco sembra più utile accennare a quanto di lodevole riscontrato, anche solo in forma intenzionale, durante i novanta minuti di visione: un'articolazione scrupolosa dei loop temporali, effetti gore artigianali decenti, la volontà di riallacciarsi all'attualità pure guardando a modelli passati, un doppio twist azzeccato, una misurata ambizione nell'architettura del racconto. In giro si ve(n)de di peggio.
Voto: 5


Proiezione off in anteprima


the_evil_within_tohTHE EVIL WITHIN
(Usa, 2017, 98')
di Andrew Getty

Ad Andrew Getty, nipote di J.P. Getty (magnate petrolifero eletto ripetutamente privato cittadino più ricco d'America negli anni Cinquanta e Sessanta), dell'azienda di famiglia fregava poco. Aveva una passione-ossessione per il cinema horror - e a quanto sembra per il porno e la droga chimica. Da bambino soffriva di incubi tanto vividi e spaventosi da convincersi che fossero frutto di una qualche entità maligna estranea ai suoi normali processi psichici. Unite i puntini e salta fuori "The Evil Within", in origine intitolato "The Storyteller", come Getty chiamava la sua entità persecutrice. Una storia di spunto autobiografico dove a cercare di sbrogliare il disordine fra veglia e sonno, fra coscienza e onirismo, è Dennis, ragazzo con ritardi cognitivi tormentato da una figura grigia che si manifesta nei sogni o negli specchi e che lo sprona a fare cosucce tipo uccidere e impagliare gattini. Legittimo che John, fratello belloccio di Dennis, sia un po' in crisi, fra il fratellino sbroccato e la fidanzata che lo assilla sul convolare a nozze. Quando poi Dennis salta dall'uccidere gattini al trapanare crani umani, John si fa due domande.
Autofinanziato con un patrimonio di sei milioni di dollari, molti scialacquati per comprare attrezzature tecniche anziché affittarle, girato nell'arco di sei anni nella villa di Getty trasformata in caotico set, fra liti furibonde fra la troupe e il regista, che si vocifera fosse sempre armato e passasse metà del tempo a pippare cocaina, con una postproduzione ultimata soltanto nel 2016, un anno dopo la morte di Getty forse causata da un mix di ulcera, infarto e crystal meth, il film è uscito in Vod nel 2017.
Può capitare che i retroscena siano più interessanti dell'opera stessa. A conoscerne a spanne la cronaca, il film di Getty parrebbe appartenere alla schiera, salvo che "The Evil Within" è un piccolo gioiello grezzo, scombussolato, meno pessimo tecnicamente di quanto gli antefatti promettano, in cui le ingenuità non nascono mai da sciatteria, piuttosto al contrario, da entusiasmo esagerato. Si sorvola a orecchie tappate e occhi chiusi su una tendenza alla logorrea, anch'essa dipendente dallo zelo, e su un intreccio slegato, un ritmo goffo, dinoccolato; l'universo ospite della vicenda è più abbagliante, più irruente, zeppo di iperboli e fantasie visive ripescate dall'horror d'antan come dagli eighties, gettate nello scompiglio di qualcosa scriteriato abbastanza da risultare originale. Pure pop, volendo. L'estetica si piega in curve pastello o videoclippare, poi si agita fra virtuosismi cinetici e illusioni prospettiche, animatronica e passo uno, surrealismo e serie B, senza pagare dazio troppo salato ai numi cinematografici evocati, da Craven in giù. Residui dei quali sono certamente visibili ma svaporati in un'aria di casuale, genuina stravaganza tale da appiccicare addosso a Getty il profilo ideale di un Michel Gondry piombato indietro nel tempo e assoldato dalla Empire Pictures di Charles Band, oppure di un incrocio nevrotico fra Terry Gilliam, William Lustig e Herschell Gordon Lewis. Gran prestazione alla Jekyll e Hyde di Frederick Koehler nei panni di Dennis, attorniato da volti abituali del cinema fantastico: l'emblematico "mutante" Michael Berryman; l'ex soldatessa spaziale verhoeviana Dina Meyer; Matthew McGrory, il gigante di "Big Fish".
Voto: 8.5



TOHORROR 17: I VINCITORI

Miglior lungometraggio

Offensive
di Jon Ford

Menzione speciale lungometraggi

The Black Gloves
di Lawrie Brewster

Miglior cortometraggio

Einstein-Rosen
di Olga Osorio

Menzione speciale cortometraggi

Le Jour Où Maman est Devenue un Monstre
di Joséphine Hopkins

Miglior serie web

Hooked
di Luca Vecchi

Miglior animazione

Happy End
di Jan Saska

Menzione speciale animazioni

Call of Cuteness
di Brenda Lien

Premio Anna Mondelli all'opera prima

Dis
di Adrian Corona

Miglior sceneggiatura

Giù nel buio
di Giuseppe Rasi

Menzione speciale sceneggiature

Nell'ombra e nel buio
di Chiara Rossi e Silvestra Sbarbato

Premio Antonio Margheriti

Supa Supa
di S. Briand e J. Jourdain de Muizon

Premio Fx

Margaux
di J. Hopkins, R. Barbe, J. Bouquin





TOHorror 17 - Film e vincitori