Prologo
Un musical. Dopo avere affrontato uno svariato numero di generi in oltre cinquant’anni di carriera – nonché dopo averne (re)inventati almeno un paio – Steven Spielberg si confronta ora col più arduo di essi, quello più bistrattato da un pubblico indifferente quando non apertamente ostile. Un genere che ha inseguito lungo tutta la carriera, sia di fatto (non è un caso che la scena più ispirata in quel carosello iconoclasta che è "1941: Allarme a Hollywood" sia una lunga sequenza di ballo swing), sia nel senso di una naturale predisposizione della macchina da presa, fattasi con gli anni sempre più mobile e incline a eseguire coreografie nello spazio tra gli attori.
Un musical, dunque. Di più: il remake di una pellicola leggendaria diretta da Robert Wise, che nel 1961 si aggiudicò dieci premi Oscar e inaugurò, suo malgrado, una stagione di lento ma inesorabile declino di uno dei generi più amati della Hollywood classica. Di lì a pochi anni saranno proprio i ragazzacci della New Hollywood a riscrivere le possibilità del cinema americano. In questo senso "West Side Story" è un film che origina dalla memoria del regista di Cincinnati, dal desiderio di uno sguardo che si scopre a un tempo adulto e fanciullesco e mescola in perfetto equilibrio l’idillio sentimentale alla severità moraleggiante delle sue espressioni più mature.
Atto I: I like to be in America
Il movimento su cui si apre il film è quello di uno sguardo in plongée, come avveniva nel capostipite. Se però là era la vertigine di un sorvolo che planava fino ai quartieri della periferia newyorkese, malridotti pur con un loro preciso carattere suburbano, qui siamo tra le macerie che preparano la futura costruzione del Lincoln Center e lo sguardo, tutt’altro che arioso, è prossimo ad esse, incollato allo sfacelo come lo era alla bidonville di "Ready Player One". Poi l’occhio scavalca l’ennesimo no-trespassing del cinema spielberghiano e ci immette nel rovescio di una Xanadu abitata dai calcinacci di case sventrate, come si fosse in "Salvate il soldato Ryan". Nel caos di questa babele in cui gringos e portoricani si confrontano senza mai comprendersi, la macchina da presa scivola lungo il cavo di una palla da demolizione e nel gesto di precipitare su una botola tra i detriti dà avvio al racconto. Il quale riparte anzitutto dal libretto di Arthur Laurents e, per il tramite della penna dell’ottimo Tony Kushner, radicalizza quel che vi era in nuce per darci il ritratto desolato di un’America in cui oggi più di ieri le fratture appaiono insanabili, la guerriglia immanente, la repressione veicolo d’ordine, le frontiere una necessità ineludibile. Sul fondo di un quartiere spolpato dalla gentrificazione, due bande di ragazzacci – da un lato immigrati europei (i Jets), dall’altro portoricani (gli Sharks) – se ne contendono il precario controllo. La polizia è un corpo estraneo e violento, la famiglia una religione, il minimo contatto tra membri di bande opposte un’apostasia. Finché Tony dei Montecchi non incontra al ballo scolastico Maria dei Capuleti…
Spesso tacciato di incarnare i valori di un intollerabile sentimentalismo borghese, Spielberg è in realtà un moralista, sebbene più nella tradizione di Dickens che di La Rochefoucauld. Come l’autore di "Tempi difficili", il regista di "West Side Story" non è interessato alla denuncia, a uno scavo col bisturi nelle pieghe di una società malata. Quel che fa è consegnare il racconto a una atmosfera inconfondibile, la sua, così che, senza falsificare il dato reale, la tragedia si volti in un’aria da melodramma, con un pungolo di amarezza e malinconia sul fondo che non ci lascia neppure nei suoi finali più lieti. A questo fine, seguendo un celebre dettato di Edgar Degas, Spielberg pare spesso intento a "stregare la realtà", espressione da intendere non in chiave esoterica, come ci ammonisce Franco Russoli in un articolo dedicato al grande pittore francese, ma nel senso che ne dette Paul Valery, ossia di raggiungere la verità nello stile e lo stile nella verità.
Se letta in questa chiave la scelta di portare "America", una delle coreografie più celebri dell’opera, dai tetti dell’Upper West Side alle strade di Manhattan illuminate a giorno è significativa dell’operazione spielbergiana. In quei gesti ginnici, quei ritmi colorati, quella sontuosa fede nel futuro, l’esaltazione indotta in noi da una macchina da presa che proietta la nostra immaginazione non su un palcoscenico di Broadway ma nel centro della danza, svela la sua intima contraddizione nel disperato controcanto delle scene finali, quando Anita, scampata a una violenza di gruppo, dichiara con fierezza la sua natura portoriqueña e giammai americana. Il sogno è, ormai, infranto, la frattura irrimediabilmente consumata.
Atto II: L’occhio di Steven
Qual è il punto di vista migliore da cui osservare una scena? Quello in cui Steven Spielberg mette la macchina da presa. In questo scherzo da cineclub fa capolino, come talvolta accade, il sospetto che tra le righe si sia detto qualcosa di rilevante e, sebbene a svolgere il senso di un aforisma ci si senta come chi provi a spiegare una barzelletta, tentiamo l’impresa per amor di chiarezza. Quando si rievocano le scene culminanti dei film di Spielberg, ci si accorge di quanto la materia drammaturgica sia varia, ma sempre animata dal medesimo investimento di risorse nel suscitare il massimo dell’emozione nello spettatore. Che si tratti di un carrello digitale tutto teso a inseguire le traiettorie impossibili di corpi pronti a disfarsi in ogni momento in "Ready Player One", del movimento leggero e in avanti che inquadra Abramo Lincoln all’apice della sua arte retorica, degli incroci prospettici della camera a mano che animano lo spazio in "Munich" e "Il ponte delle spie", nel suo cinema si ritrova meno che altrove quel gusto permanente di temi quali le nevrosi di Woody Allen, la pulsione voyeuristica di Brian De Palma, il rituale dell’amicizia tradita in Martin Scorsese, la colpa e la redenzione in Paul Schrader. E lo stesso dicasi di ambienti e situazioni. Quel che fa da comune denominatore è anzitutto la natura di una messa in scena tutta intesa a produrre il massimo dell’emozione col minimo di sforzo apparente, il che, in Spielberg, è sempre una questione di equilibrio tra chiarezza dell’immagine e precisione nel movimento. Non vi è mai, neppure nei casi di maggior concitazione, un momento in cui le direttrici dello spazio si confondano o la nostra conoscenza sia inferiore a quella dei protagonisti: vediamo anzi meglio di loro, perché il regista ha scoperto per noi il punto di vista più nitido e non è disposto ad abbandonarlo, se non per necessità del racconto.
In quel gesto circolare della macchina da presa che mima l’arena di voci in cui è imprigionata Meryl Streep nella scena culminante di "The Post", all’improvviso dubitiamo della risposta che darà al telefono, sebbene la storia ci abbia già informato su come andarono i fatti. Per un istante e per sola forza di stile crediamo davvero, in una ipotesi tarantiniana, che la verità storica possa cedere il passo al cinema. Ed è appunto questo vigore dell’immagine che in "West Side Story" raggiunge un apice nella scena in cui Tony e Maria si incontrano dopo il ballo. La scala antincendio che corre sul retro della casa di lei è elemento scenico già nel libretto a simboleggiare la salita al balcone di Giulietta e Wise, nel 1961, ne tenne conto, ma facendone al più un elemento geometrico, una delle tante forme reticolari e spigolose che guidano, nel film, la costruzione delle inquadrature – al pari delle linee verticali dei cancelli, quelle orizzontali dei mattoni, quelle oblique di corrimano e recinzioni metalliche. Ben oltre il semplice valore formale è l’uso, invece, che ne fa Spielberg mostrandoci anzitutto Tony e Maria che si chiamano ripetutamente dai lati opposti della ringhiera. I due si cercano invano mentre le loro figure, in un lento gioco di seduzione, rimangono serrate oltre le grate e le balaustre e gli scalini, con gli impedimenti che vengono meno uno dopo l’altro sinché, al superamento dell’ultima barriera, anziché staccare direttamente sulla coppia, un gesto laterale della macchina da presa si sbarazza dei pochi pioli rimasti a ostacolarne il contatto ed è con sollievo fisico che accogliamo il suo movimento a salire sulle note di "Tonight"; movimento che poi si appoggia, al termine del brano, su una inquadratura dal basso. In questa sequela di movimenti ritmati come su una partitura, quel che fa la regia di Spielberg è richiamare in noi il desiderio di un’emozione e poi guidare il nostro sguardo sino alla sua massima soddisfazione.
Epilogo
Vi è spesso nei musical, anche in quelli più riusciti, uno scarto tra il momento in cui i personaggi danzano e quello in cui agiscono, una frattura che solo la musica sa tenere assieme, mentre alla visione essi appaiono distinti, inconciliabili. In "West Side Story" la regia di Spielberg raggiunge una precisione straordinaria nel far scaturire la danza dal corpo stesso dell’immagine, al punto che non vi è più distanza tra storia e movimento e l’uno è semplicemente la naturale prosecuzione dell’altra. Una contiguità che riconosciamo immediatamente nella corsa dei portoricani a inizio film, nello scontro all’aperto con i Jets, nel gesto che avvinghia un ragazzo mentre scavalca la recinzione e lo fa piroettare nell’aria. O ancora nella bellissima scena del risveglio di Maria dopo il furtivo incontro con Tony, un piano-sequenza – l’ennesimo – in cui la macchina da presa duetta con Rachel Zagler, dapprima conducendo le danze (ossia richiamandola dal sonno e guidandone i movimenti) e in seconda battuta lasciandosi condurre in un continuo scambio di ruoli che ripete la struttura di un passo-a-due.
Canto altissimo di un cinema ormai senza rivali per precisione del dettato visivo e vigore della forma, "West Side Story" è il luogo ove prendono corpo le ossessioni disseminate in cinquant’anni di pratica filmica, dal bilinguismo – l’interrogatorio di Dreyfuss in "Incontri ravvicinati del terzo tipo", gli sforzi di Tom Hanks in "The Terminal" (2004) – all’impegno nel ricercare le ragioni storiche dei conflitti che tuttora feriscono la società statunitense – "Il colore viola" (1985), "Lincoln" (2012) – dalla fascinazione per un sognante romanticismo giovanile – il cortometraggio "Amblin" (1968), "Ready Player One" (2018) – alle variazioni sul melodramma – "War Horse" (2011), coi suoi cromatismi ipersaturi alla "Via col vento" – dalla musica come mezzo di comunicazione – ancora "Incontri ravvicinati del terzo tipo", con la meravigliosa intuizione della conversazione aliena – al ballo come momento di comunione che annulla le distanze fisiche – "Always" (1988), "Ready Player One" (2018).
E quando nell’ultimo atto si ispessiscono le ombre morali dei personaggi e si allungano quelle fisiche – splendidamente disegnate dalla luce di Janusz Kaminski, che nell’intreccio di macchie scure prodotte dall’incedere delle bande rivali al magazzino ci regala una delle immagini memorabili di quest’anno – avvertiamo distintamente l’impressione di una fine, come se innanzi ai nostri occhi non fossero i personaggi a congedarsi, ma tutto un modo di intendere e pensare il cinema. In un film che è anche studio sulle possibilità di rilancio di una tradizione e in cui il dialogo col capostipite passa dall'ampliamento di alcune intuizioni del testo originale alla presenza di Rita Moreno – là Anita, qui il corrispettivo di Doc – Spielberg inscena una indimenticabile elegia della settima arte come motore estetico della vita.
Situato alla convergenza delle due anime del regista, “West Side Story” è opera di puro piacere cinematografico, una di quelle occasioni artistiche che ci esaltano e commuovono a un tempo e hanno altresì quel vigore e quella grazia necessarie per impadronirsi di un angolo della nostra immaginazione senza più lasciarlo.
cast:
Mike Faist, David Alvarez, Rita Moreno, Ariana DeBose, Rachel Zegler, Ansel Elgort
regia:
Steven Spielberg
distribuzione:
Walt Disney Studios
durata:
156'
produzione:
Amblin Entertainment, 20th Century Studios, Steven Spielberg
sceneggiatura:
Tony Kushner
fotografia:
Janusz Kaminski
scenografie:
Adam Stockhausen
montaggio:
Michael Kahn, Sarah Broshar
costumi:
Paul Tazewell
musiche:
Leonard Bernstein, David Newman